Rudyard Kipling, STORIE PROPRIO COSÌ, ili. di May Angeli, ed. orig. 1902, trad. dall'inglese di Bianca Lazzaro, pp. 333, €24, Donzelli, Roma 2010
Kipling, cantore dell'impero britannico e del-la missione superiore dell'"uomo bianco", fu anche un affascinante esempio di contamina-zione o almeno coabitacontamina-zione di culture diverse, che lui, cresciuto in India tra servitori indigeni che lo fecero partecipi dei loro miti, educato in Inghilterra, viaggiatore in Europa, Asia, Africa e America, espresse mirabilmente in Kim. Da quell'intreccio nascono queste "storie dei per-ché", che gli adulti inventano per rispondere fantasiosamente alle curiosità dei bambini. Pu-re Kipling raccontava, in particolaPu-re alla diletta Effie, questo tipo di storie, che conservarono l'originario andamento orale, colloquiale, fabu-latorio, anche quando furono messe per iscrit-to e pubblicate, nel 1902, dopo la tragica mor-te della bambina. Fin dalla prima riga della pri-ma storia, infatti, si rivolge a un "Angelo Mio", spesso ripetendolo. (Non diversamente interlo-quivano con i figli Milne in Winnie Pooh e Pinin Carpi in don don Blu). Kipling attinge ai più vari miti e leggende (indiani, africani, america-ni), a fiabe di magia, a favole di animali, resti-tuendo narrazioni che, con stile brioso e imma-ginifico, alludono a una sorta di "lessico famigliare" fatto di ripetizioni ritmiche, in-fantilismi espressivi, ammiccamenti com-plici, deformazioni linguistiche, per pro-vocare ilarità: "Lascia sdare! Bi fai baie" biascica l'Elefantino curioso al Coccodril-lo che gli sta tirando il naso fino a fargli spuntare la proboscide. "Un classico im-perdibile" scrive nella breve ma succosa presentazione Bianca Lazzaro, autrice di una nuova traduzione scintillante an-ch'essa per magia di parole. May Angeli riprende la tecnica delle incisioni su le-gno usate da Kipling nella prima edizio-ne, ma aggiungendo un arcobaleno di colori che variano a secondo degli ambienti ed echeggiano anche la varietà degli apporti cul-turali. Per tutti.
F E R N A N D O R O T O N D O
della sofferta "durata psicologica e morale" e grazie a un linguaggio che si espande anche temporalmente. L'esemplare attenzione per il testo, insieme a un acume critico non solo in-tuitivo ma costruito su una vasta rete di cono-scenze pregresse, dovrebbero farsi modello di riferimento costante per le giovani generazioni che si avvicinano all'opera di Shakespeare e alla critica letteraria tutta.
F E D E R I C O SABATINI
Ludovico de Varthema, VIAGGIO ALLA MECCA,
ed. orig. 1510, a cura di Enrico Musacchio, pp. 105, € 15, Skira, Milano 2010
Fin dal tempo di Erodoto, la tradizione del rac-conto d'Oriente ha seguito una particolare teoria estetica, in base alla quale il verosimile non è ciò che, pur senza essersi verificato, avrebbe potu-to accadere, ma ciò che più si allontana dall'e-sperienza comune. Siccome la cultura europea ha spesso dipinto l'Oriente come una terra di meraviglie, anche il viaggiatore più onesto, per non passare per bugiardo, si trovava a dover mentire ogni volta che non ne vedeva. È quello che accadde anche a Ludovico de Varthema, avventuriero, nato forse a Bologna, che verso la fine del 1502 lasciò l'Europa per l'Egitto e da lì, fingendosi maomettano, si spinse verso
l'Ara-tico a Gadda. Il testo è diviso in tre parti, corri-spondenti ai tre grandi capitoli storici del riuso della classicità: l'età tardoantica e medievale, con il progressivo inabissarsi della memoria let-teraria della classicità; il Rinascimento, con la sua riscoperta; e, infine, il Novecento, in cui l'or-mai riacquisito senso del classico convive con la contestazione dell'antico. Da Ennodio a Servio, ai centoni, a Castiglione, a Milton, a Quasimodo, i testi vengono letti e riletti, come scrive Gioseffi, "perché generazione dopo generazione dovet-tero essere riadattati ai bisogni e a un sapere nuovi, pur rimanendo formalmente gli stessi". Non c'è mai nulla di nuovo sotto il sole, e anche in un momento di particolare crisi per l'umanesi-mo (è di questi giorni la notizia del taglio dell'80 per cento ai fondi per le humanitìes in Gran Bre-tagna), non è purtroppo banale ricordare che senza i classici non si può leggere nulla, né comprendere il presente.
M A S S I M O M A N C A
Agostino Lombardo, LETTURA DEL MACBETH,
pp. 188, € 15, Feltrinelli, Milano 2010
Agostino Lombardo, uno dei più importanti studiosi italiani di Shakespeare, scrisse questa capillare analisi del Macbeth nel 1969, racco-gliendo i materiali dai suoi corsi universitari in-centrati sulla tragedia. Un testo che ancora col-pisce per l'acume critico, la freschezza dello stile e per un metodo scrupoloso e preciso che rispetta profondamente il linguaggio poliedrico e sfaccettato di Shakespeare. Lombardo si sof-ferma sulle sfumature linguistiche, sulle imma-gini e i suoni che costruiscono la tragedia nella somma dei suoi temi e dei suoi personaggi. Si muove nell'analisi collegandosi agilmente alle altre tragedie shakespeariane, sottolineandone temi ricorrenti e differenze, e tenendo in consi-derazione, con consapevolezza, la critica pre-cedente. I passi della tragedia sono tradotti in maniera letterale per favorire, nel lettore, la massima comprensione del linguaggio del dramma. Proprio nella traduzione, che nelle opere successive di Lombardo si farà sempre più pregevole e raffinata, il critico dimostra una straordinaria conoscenza linguistica che non tralascia i segni minimi del linguaggio, una co-noscenza talmente fine da farsi coco-noscenza sovra-linguistica, capace di veicolare, attraver-so il dato filologico, una consapevolezza degli umori più intimi e del significato più recondito delle immagini di Shakespeare. Macbeth viene avvicinato alla letteratura sperimentale del No-vecento e in particolare, grazie alle somiglian-ze individuate dal critico, a The Waste Land di T. S. Eliot, in cui Lombardo individua punti di si-gnificativo contatto. Come sottolinea Rosy Co-lombo nella presentazione del volume, Lom-bardo intuisce nel dramma quello scarto, squi-sitamente modernista, fra il tempo dell'azione e il tempo della coscienza: Macbeth è unà trage-dia breve che scorre però lentissima a causa
disegni di Franco Wlatticchio
bia, diventando uno dei primi europei a vedere La Mecca. Più avanti, smascherato e imprigio-nato ad Aden, supplicò clemenza prima al sul-tano locale, irremovibile, e poi alla sua regina, che lo fece liberare. Varthema riparti allora ver-so più lontani orizzonti: l'Etiopia, la Persia, l'In-dia, Giava e poi di nuovo l'Inl'In-dia, dove trovò infi-ne dei portoghesi che lo riportarono in Europa. Avendo scoperto che le sue esperienze poteva-no farlo ricco, girò di corte in corte per raccon-tarle, e nel 1510 scrisse questo prezioso
Itinera-rio, ripubblicato oggi da Skira, che per molto
tempo è stato accreditato come fonte attendibi-le sui costumi dei popoli dell'Asia. Vi si scopro-no storie di spassosa bizzarria: un bestiario di animali inesistenti, come i gatti maimoni di Aden; immaginose descrizioni di battaglie mai avvenute tra i mori e l'esercito del Prete Gianni; l'assicurazione che il mar Rosso non è davvero rosso, ma fatto d'acqua come i mari occidenta-li, e quindi navigabile. Invenzioni che lasciano appena intravedere i luoghi lontani che dovreb-bero descrivere, ma che provano per l'ennesi-ma volta come le esplorazioni geografiche della prima modernità siano state prima di tutto delle straordinarie avventure dell'immaginazione.
L U I G I M A R F È
Charlotte Perkins Gilman, LA GOVERNANTE E AL-TRI PROBLEMI DOMESTICI, ed. orig. 1898, trad. dal-l'inglese di Ileana Police, pp.100, € 9, Astoria, Mi-lano 2010.
Perkins Gilman è stata una nota femminista utopica, come venivano chiamate le donne del movimento per le donne inglesi di fine Ottocento. Condusse una vita molto diffi-cile e, in giovane età, decise di darsi la morte piuttosto che attraversare il
calva-3 rio di una grande cancro al seno. Lasciò il marito ma gli concesse l'affidamento della sua unica figlia, convinta che fosse giusto riconoscere al padre il diritto di crescere i propri figli. Insomma fu una donna molto autodeterminata, capace di scegliere per se stessa secondo le pro-prio ferme convinzioni. Il suo testo più fa-moso è "The Yellow Wallpaper", una sor-ta di racconto lungo autobiografico dove
si racconta la depressione di una donna dopo il parto. La raccolta proposta dalla nuova casa editrice Astoria, ha invece un carattere più lieve, quasi umoristico. Si scandagliano diversi casi in cui le protagoniste, donne e madri, de-vono fare fronte alla necessità di poter mante-nere il proprio mestiere e insieme di poter ac-cudire i propri figli. Come nel caso di una ottima pianista, distrutta dalla insonnia a causa del pianto continuo del proprio figlio. Grazie all'aiu-to di una suocera molall'aiu-to intraprendente e senza dire nulla all'amato marito, le due donne riesco-no ad organizzare un nido sul tetto del palazzo condotto dalla suocera mentre la nuora ripren-de le lezioni di pianoforte. Coi proventi ripren-delle at-tività, le due sono anche in grado di permetter-si un ottima cuoca per la gioia di tutta la fami-glia. Altrettanto divertente è il caso in cui un uo-mo corteggia una donna che teme di non esse-re all'altezza. Per cercaesse-re di esse-rendersi più at-traente, decide di prenderlo per la gola offren-dogli pasti sempre più raffinato. Sarà lui a chie-derle di sposarlo solo a patto che smetta di cu-cinare e riprenda a dipingere. Con la sua scrit-tura pulita, ironica, sempre brillante, molto vici-na alle caratterizzazioni dei persovici-naggi di Katherine Mansfield, compagna anche in termi-ni di sventure autobiografiche, Perkins Gilman è una lettura ancora smagliante, anche rispetto ad un epoca che si pretende emancipata.
C A M I L L A V A L L E T T I Uso, RIUSO E ABUSO DEI TESTI CLASSICI, a cura di
Massimo Gioseffi, pp. 417, €40, Led, Milano 2010
Un tempo si chiamava aemulatio; poi, "arte al-lusiva"; oggi, "intertestualità". A prescindere dal-le mode terminologiche, la cui successione ri-sponde certo a nuove contingenze, nuovi cano-ni e a nuovi obiettivi della critica letteraria, il con-cetto che vi è sottinteso è che i libri chiamano al-tri libri, e che la scrittura è quasi sempre riscrit-tura. Il canone tende a essere un'entità persi-stente; lo scrittore che si vanti di aver inventato qualcosa di completamente inedito denuncia, più che la sua abilità di scrittore, le sue carenze di lettore. Una quindicina di studiosi ha deciso di studiare come i classici (per definizione para-digmi di letteratura) siano stati reimpiegati nel corso dei secoli. Ne nasce questo volume cura-to da Massimo Gioseffi, che spazia dal
tardoan-Joseph Roth, L'ANTICRISTO, ed. orig. 1934, trad. dal tedesco di Flavia Arzeni, pp.165, € 9,90, Edito-ri Riuniti, Roma, 2010.
Segnaliamo l'uscita di un testo introvabile del grande scrittore austriaco, ancora mai tra-dotto in Italia. Per le cure di una traduttrice co-me Flavia Arzeni, esce in una nuova collana di classica chiamata "Le Asce" degli Editori riu-niti, un vero inclassificabile. Romanzo, saggio, preghiera, in questo lavoro Roth mescola tutti i suoi temi all'interno di un disegno quasi apo-calittico. La forza della lingua e il carattere vi-sionario ne fanno una prova molto ardua an-che per i suoi più appassionati lettori
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Enrique Vila-Matas, STORIA ABBREVIATA DEL-LA LETTERATURA PORTATILE, ed. orig. 1985, trad. dallo spagnolo di Lucrezia Panunzio Ci-priani, pp. 108, € 7, Feltrinelli, Milano 2010
Chi ha amato il Dottor Pasavento e il più recente Dublinesque, non sì lasci sfuggire la ristampa della stralunata e avvincente
Storia abbreviata della letteratura portatile
che Vila-Matas scrisse venticinque anni fa e che, pubblicata a suo tempo da Sellerio, era ormai divenuta irreperibile. L'estimatore della prosa di questo autore, rapito da quell'inesauribile vena paradossale che in-nerva e caratterizza ogni sua avventura narrativa, non resterà deluso nel veder zampillare il suo genio da ogni capitolo di questa rapida e "abbreviata" storia lettera-ria. L'understatement ostinato e l'amore del paradosso è già nel titolo, che fa il verso al-la Storia portatile delal-la letteratura di Tristan Tzara. Confondendo come sempre realtà e finzione, compilando note e bibliografie fa-sulle, Vila-Matas ci getta nel solco dell'e-splosione creativa che fece seguito al da-daismo, narrando l'improbabile storia di Duchamp, Savinio, De La Mare, Larbaud, Littbarski e molti altri membri di una fanto-matica "società portatile". Unica regola: l'o-pera d'arte dev'essere minuscola e stare in valigia. Il mondo è una miniatura, la guerra un gioco di soldatini, l'amore una macchina celibe. Per questo tutti gli affiliati a questa sconclusionata società segreta si chiama-no shandys, "scervellati" - secondo il dia-letto parlato da Sterne - seguaci di Toby Shandy, primo artista "portatile" della sto-ria, inerme soldato che sul suo cavalluccio attraversa con ostinata semplicità la strada della vita, .riducendo a un gioco da giardi-no la guerra che, con la sua terribile realtà, l'ha reso impotente. Nuovi shandys, testi-moni e protagonisti malinconici delle scor-ribande intellettuali degli anni venti, sono due colossi del pensiero e della poesia del Novecento: Walter Benjamin e Andreij Belij. I loro volti, che arrivano a confondersi nella scena finale, portano i segni di "coloro che rischiarono parecchio, se non la vita per lo meno la follia", creando opere forse oscure ma sempre "portatili", nemiche dell'ingom-bro e del pensiero tetragono. Si rilegga dunque questa breve storia, utile a sma-scherare quelli che non sono cattivi scritto-ri ma, diceva Broch, soltanto delinquenti.
S T E F A N O M O R E T T I
conda guerra mondiale, poggia su un im-pianto solido, compreso nella prospettiva onnisciente del narratore esterno. La lavo-razione minuziosa delle psicologie e la descrizione vivida del quartiere più tradi-zionale del Cairo islamico, quel Khan al-Khalili che dà il titolo al romanzo in versio-ne originale, arricchiscono le pagiversio-ne che via via si animano dello spessore dei per-sonaggi. Il protagonista è Ahmad Akif, un funzionario governativo (figura questa as-sai cara a Mahfuz, forse perché più di al-tre consona ad attraversare gli spazi citta-dini, dalle viuzze del Cairo fatimide ai boulevard del Cairo moderno), tormentato da un'indole introversa e da velleità intel-lettuali sproporzionate rispetto alle proprie conoscenze. Quando, per sfuggire alle in-cursioni aeree, gli Akif si trasferiscono dalla zona moderna di Sakakini al quartie-re di Khan al-Khalili, Ahmad scopquartie-re che il vecchio quartiere fatimide gli riserva delle sorprese: un avvocato esperto di filosofia occidentale, con il quale ingaggiare lun-ghe discussioni, e la giovane figlia dei di-rimpettai, con la quale scambiare muti sguardi dalle imposte. Come sempre ac-cade nel Mahfuz degli anni quaranta-cin-quanta, anche in questo romanzo la topo-grafia urbana non è semplice sfondo, ma parte integrante degli itinerari esistenziali dei personaggi, che verranno travolti dal rientro del giovane e amatissimo Rushdi, fratello di Ahmad, dal Sud del paese. Vi-tale, aperto, travolgente viveur, il giovane in men che non si dica riesce a stringere una relazione con la ragazza della finestra accanto. Ma la tragedia si profila già all'o-rizzonte, e si direbbe quasi che la solidità di impianto non serva infine se non a ren-dere più drammatico il rovesciamento del finale, amarissimo nel suo carattere ineso-rabile.
M A R I A E L E N A P A N I C O N I
Nagib Mahfuz, PER LE STRADE DEL CAIRO,
ed. orig. 1946, trad. dalla trad. inglese di Da-niela di Falco, pp. 334, € 16,90, Newton Compton, Roma 2010
Per le strade del Cairo si iscrive nella
serie di romanzi "realisti" del Nobel egi-ziano, dei quali conviene ricordare qui so-lo la Triso-logia e il classico II vicoso-lo del
Mor-taio. La storia, ambientata durante la
se-impressioni lasciate nei sensi dai luoghi dell'esilio e dagli affetti incontrati lungo il suo corso. La memoria qui non è solo il fi-lo utile a tenere insieme l'io, ma è anche l'unico desiderio rimasto a scongiurare la morte: quando, ad esempio, un telegram-ma annuncia la fine dell'amica di gio-ventù, partita per l'Unione Sovietica, l'au-trice sogna di ritrovarsi insieme a lei per ri-cordare ancora: "Le avrei mostrato le pie-tre del mar Morto rosse per la luce del tra-monto, un mattino saremmo andate in gi-ro e le avrei mostrato la casa della mia in-fanzia, la colomba blu della pace dipinta su una maiolica bianca del salone". In or-dine sparso, l'io narrante ci fa da guida tra i banchi della scuola di Gerico, o nella stanza della sua casa natale, tra i mercati profumati del Cairo, ci parla della voce di Umm Kulthum e dei dipinti di Inji Aflatun, degli incontri con le palestinesi in esilio, intente a confezionare cibo per detenuti o combattenti, a preparare feste di fidanza-mento, a vendere dischi, libri o perfino ca-pelli, per raccogliere denaro e acquistare un biglietto aereo. In questa pluralità di luoghi, di discorsi e di profili, l'andamento a sussulti della memoria restituisce al let-tore non la compiutezza di una formazio-ne, ma tante piccole porzioni di resisten-za al femminile.
( M . E . P . )
Liana Badr, LE STELLE DI GERICO, ed. orig.
1993, trad. dall'arabo di Giulia della Gala e
Paola Wiviani, pp. 231, € 15, Edizioni Lavoro, Roma 2010
Nata a Gerusalemme e cresciuta a Ge-rico, Liana Badr lascia la Palestina a di-ciassette anni, nel 1967, e vive in esilio tra Giordania, Libano, Tunisia e Siria. Ha scritto opere di narrativa e girato film do-cumentari sui campi profughi palestinesi in Libano, dedicando un romanzo-repor-tage al massacro di Teli al-Zaatar. Le
stel-le di Gerico è un'autobiografia non
con-venzionale, suddivisa in capitoli aventi ciascuno il nome di un elemento naturale:
Legno, Rame, Rubino, Piombo e così via.
È la storia di una famiglia disgregata, se-gnata dalla prematura perdita della ma-dre e dalla prigionia del pama-dre, ma è an-che un itinerario biografico scomposto, nel quale raccogliere e custodire tutte le
stesso diritto di parola, indipendentemen-te dalla nobiltà della sua origine. Ciò che Sartre e Barthes consideravano estetismo reazionario è per Rancière il primo atto democratico della scrittura, che si affran-ca dal bellettrismo diventando cosi "lette-ratura". Questa nuova scrittura, che "in-clude l'intruso" e corrode la distinzione tra "vita" e "letteratura", si basa sul disaccor-do tra ciò che si può e non si può perce-pire come "reale". Una contraddizione già presente a Flaubert e a Proust, che divie-ne cruciale divie-nell'epoca dei reality show, spettacoli all'apparenza democratici fatti da "gente comune", che nascondono un sistema di potere nel quale solo pochi eletti hanno una vera voce.
( S . M . )
Jacques Rancière, POLITICA DELLA LETTERA-TURA, trad. dal francese di Anna Bissanti, pp. 204, € 18, Sellerio, Palermo 2010
Chi si occupa di letteratura dovrà fare i conti con la Politica della letteratura di Jacques Rancière, pubblicata da Sellerio con qualche spiacevole svista di traduzio-ne. L'opera raccoglie in tre sezioni (ipote-si, figure e confluenze) saggi e conferen-ze scritti tra il 2000 e il 2004, attraversati da una nuova definizione di politica e di letteratura, che come un leitmotiv accom-pagna la lettura di alcuni classici della teratura di Otto e Novecento. Si hanno let-teratura e politica quando chi non ne avrebbe diritto prende la parola, rompen-do così i ranghi e le gerarchie che i puri-sti impongono tra generi alti e bassi e tra soggetti più o meno degni di essere rap-presentati. "Politica della letteratura" non è dunque sinonimo di engagement o di militanza, degli scrittori o della scrittura, ma equivale alla pietrificazione della pa-rola in oggetto neutro, democratico e po-lifonico, un processo che porta autori co-me Flaubert e Mallarmé a far progressiva-mente scomparire dall'opera d'arte il sog-getto che scrive "lo". Nel magazzino anti-quario in cui si perde il protagonista di
Peau de Chagrin, così come nei dettagli
che racchiudono gli amori di Emma Bo-vary o di Swann, tutti gli oggetti sembrano avere pari dignità, ogni soggetto ha lo
Samar Yazbek, IL PROFUMO DELLA
CANNEL-LA, ed. orig. 2008, trad. dall'arabo di Claudia
La Barbera, pp. 190, € 15, Castelvecchi, Roma