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LA POLITICA NELLE NARRAZIONI: FORME E MODI DELLA “CONTAMINAZIONE” DIRETTA

Dopo aver ampiamente dimostrato quanto stringente fosse il legame tra storia, politica e narrazione nelle pratiche romanzesche del XVII secolo (in questo senso, si faccia sempre riferimento alla più volte citata Prefazione al Cretideo di Giovan Battista Mancini), e dove fossero da ricercarsi radici e ragioni di tale legame, è giunto il momento di indagarne aspetti, modalità e manifestazioni. È opportuno segnalare (o piuttosto ribadire), in via preliminare, che due erano i livelli possibili di dialogo tra politica e letteratura112: una comunicazione diretta ed immediata da una parte, un rapporto indiretto ed allusivo dall’altra. Per il momento ci si soffermerà sul primo livello, rimandando l’analisi del secondo ai capitoli successivi.

Il romanziere che intendesse attingere a piene mani dal serbatoio storico-politico nella composizione della propria opera aveva di fronte a sé due strade percorribili: la via dell’allineamento al potere e all’ideologia dominante da un lato, la via dell’opposizione e del dissenso dall’altro; tertium non datur, apparentemente. In verità, un tertium esisteva e consisteva in un atteggiamento di fittizio allineamento o, in alternativa, di indifferenza nei confronti di storia e politica, che celava in realtà posizioni ed ideologia tutt’altro che ortodosse. Si entra qui, tuttavia, nel secondo dei due citati livelli di dialogo tra politica e narrazione (quello indiretto), la cui trattazione è momentaneamente sospesa e verrà ampiamente ripresa al capitolo successivo.

112 D’ora in avanti ci si limiterà ad indicare il termine “politica”, dando per scontato che esso faccia

riferimento anche alla storia, in considerazione dell’indissolubile vincolo che lega le due realtà e di quanto già specificato a proposito dell’accezione assunta dal termine “politica” nel presente lavoro.

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La questione dei rapporti tra potere e letteratura fu ampiamente dibattuta tra gli intellettuali di età barocca. Mettendo da parte la controversa figura di Giovan Battista Marino – la cui esperienza biografica e culturale risulta tutt’altro che dirimente a tal proposito – paladini dei due schieramenti opposti furono Traiano Boccalini e Francesco Fulvio Frugoni, come ha rilevato Francesco Sberlati nel 2006113.

Traiano Boccalini affrontò ampiamente la questione nei Ragguagli di Parnaso, opera tra le più famose ed imitate del secolo diciassettesimo (non solo in Italia), dalla storia editoriale piuttosto intricata – che non è qui possibile ripercorrere114 – e la cui composizione si colloca nei primissimi anni del secolo. In essa, secondo una tradizione che risale almeno al secolo precedente, è rappresentato un tribunale ideale con sede sul monte Parnaso. Apollo, giudice supremo ed alter-ego dello stesso Boccalini, presiede il processo, smascherando, sbeffeggiando, condannando e premiando gli imputati, tra cui si contano figure di spicco della cultura, della storia e della politica contemporanee. L’autore, che da un cantuccio osserva, registra e riporta, in veste di gazzettiere, gli sviluppi processuali, si mostra particolarmente critico verso la troppo frequentemente ambigua posizione presa da molti letterati a lui contemporanei di fronte al potere e si pronuncia con toni aspri contro il costume cortigiano ed encomiastico115.

Sul fronte opposto si schierava invece Francesco Fulvio Frugoni, notoriamente favorevole ad una letteratura stipendiata dal potere ed allineata all’ideologia dominante, di cui diventava essa stessa veicolo. Per i sostenitori della linea frugoniana l’opera

113 Sberlati, La ragione barocca cit., pp. 3 ss.

114 Ci si limita solo a sottolineare, per pertinenza con il presente discorso, che il centro primario di diffusione

dell’opera per tutto il secolo fu, certamente non a caso, Venezia.

115 L’atteggiamento di Boccalini è speculare a quello – che verrà ampiamente dibattuto nel corso del

presente lavoro – dei romanzieri politici: egli, di fatto, utilizza lo schermo dello scherno e della parodia per dire ciò che non poteva essere manifestato palesemente o detto altrimenti; con medesimo intento, gli autori di romanzi politici utilizzavano lo schermo della finzione narrativa. Va tuttavia sottolineato che il genere romanzesco, diversamente da quello satirico, non era tradizionalmente avvezzo a tale pratica di camuffamento.

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letteraria tendeva a diventare il prodotto di una contrattazione tra letterato e committenza; attitudine, quest’ultima, che comportava spesso una consapevole alterazione e manipolazione di storia e politica all’interno delle stesse opere letterarie.

Quale che fosse il loro atteggiamento nei confronti del potere e dell’ideologia dominante, i narratori secenteschi, attraverso le modalità e gli stratagemmi di volta in volta privilegiati per inserire l’elemento politico nelle loro opere, determinavano, anzitutto, la tipologia delle opere stesse e la loro affiliazione (per la verità non sempre univoca e risolta) a questo o quel genere o sottogenere letterario.

1. Trattatistica politica, storiografia e libellistica.

Per i letterati che volessero occuparsi di politica e di storia, si aprivano, quali scelte più ovvie, le strade della trattatistica politica e della storiografia, su cui non pare opportuno spendere più di poche parole. Pur condividendo, infatti, idee motrici, principi e finalità (didascalica) con il genere romanzesco, esse rimanevano generi letterari diversi ed affatto indipendenti da esso116.

Alla trattatistica politica di epoca barocca si è già avuto modo di accennare, sottolineandone origini, popolarità e prerogative; non è dunque il caso di tornare sull’argomento. Per quanto concerne il genere storiografico, esso poteva vantare, come noto, una tradizione plurisecolare, una corposa letteratura teorica di riferimento ed illustri modelli, più e meno recenti. Va detto, tuttavia, che esso assunse, in età controriformistica, forme peculiari. Anzitutto, in epoca post-tridentina, la nozione di storia venne riformulata

116 È altresì vero che proprio uno dei testi maggiormente presi in considerazione nel presente studio, il

Brancaleone di Giussani, mostra un transito dalla teoria politica, e dalla storiografia, alla letteratura tout court, che deve far riflettere e sui cui si tornerà in maniera diffusa.

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in senso cattolico. Non è certamente una pura coincidenza che sia fiorita, al tempo, una corposa trattatistica storiografica ad opera di ecclesiastici o di argomento ecclesiastico- religioso. Si vedano, a titolo esemplificativo, l’Istoria della Compagnia di Gesù del letterato gesuita Daniello Bartoli, per il primo caso, e l’Istoria del Concilio tridentino di Paolo Sarpi, per il secondo117; ma si pensi anche alla popolarità del filone della letteratura agiografica, che ebbe notevole fortuna in quello stesso periodo. La storiografia barocca si distinse poi, in generale, per il carattere occasionale della vocazione storiografica: lo storiografo secentesco era spesso anche informatore o diplomatico (e, fatto ancor più significativo ai fini del presente studio, talora anche romanziere), che aveva partecipato in prima persona ai fatti narrati. Tratti distintivi del genere nel diciassettesimo secolo furono, inoltre, la costante ricerca di novità nei fatti narrati – rispondente alla “poetica della meraviglia” allora in voga – la (parzialmente conseguente) predilezione per eventi della storia recente e contemporanea e, soprattutto, uno spiccato interesse per la politica

stricto sensu. A tal proposito, Francesco Sberlati ha scritto:

Dopo Machiavelli e Guicciardini, la teoria storiografica del tacitismo, strettamente correlata alla “ragion di Stato” secondo l’insegnamento del gesuita Giovanni Botero (1543-1617), aveva ridiscusso le funzioni e gli obiettivi dell’intellettuale che faceva professione di storico, fino a subordinare la ricerca sul passato alla politica118.

Peculiarità della storiografia secentesca, infine, fu proprio il primato della corrente del cosiddetto «tacitismo», che sostanzialmente consisteva nell’utilizzare Machiavelli senza citarlo: i suoi principi ed insegnamenti erano celati, per ragioni prudenziali, sotto il fittizio riferimento all’opera dello storico della Roma imperiale119.

117 Si segnala che il servita veneziano Paolo Sarpi non può certamente essere assimilato alla storiografia

controriformistica; l’esempio vale qui soltanto a dimostrare che l’argomento ecclesiastico-religioso era spesso privilegiato dagli storiografi dell’epoca e che le opere ascrivibili a tale corrente storiografica riscossero, in diverse circostanze, enorme successo.

118 Sberlati, La ragione barocca cit. p. 191.

119 «Nell’Europa del primo Seicento, dominata dalle grandi monarchie nazionali, la sostituzione di Livio

(storico della Roma repubblicana) con Tacito (storico della Roma imperiale) è un fatto politico prima ancora che culturale, reso necessario dall’assetto internazionale delle corone e delle loro reciproche aspirazioni

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È pacifico che trattatistica politica e storiografia condividessero con la prosa romanzesca di epoca barocca l’interesse precipuo per storia e politica (contemporanee in

primis); d’altra parte, è innegabile che i prodotti (ovvero le opere) ad esse riconducibili

presentino pochi altri elementi comuni. A differenza del trattato (politico) – o comunque in misura decisamente maggiore rispetto ad esso – l’opera storiografica rappresenta certamente una (primitiva) forma di contatto tra storia e narrazione; essa rimane, tuttavia, un’opera storiografica e non narrativa, da catalogare in un genere letterario ben definito e, soprattutto, ben distinto da quello narrativo-romanzesco.

Ciò non toglie che molti dei romanzieri barocchi di maggior successo si cimentarono altresì in campo storiografico ed alcuni di loro furono storiografi ufficiali di governi italiani ed europei120; d’altronde, si è già ricordato che peculiare del diciassettesimo secolo fu proprio il carattere occasionale della vocazione storiografica. Vale poi la pena di sottolineare che, in diversi casi, l’approdo all’attività storiografica vera e propria avvenne, per tali romanzieri, in età matura o comunque solo dopo una fase propriamente narrativo-romanzesca, a sottolineare come, a quanti volessero confrontarsi direttamente con la contemporaneità storico-politica, la cornice romanzesca finisse inevitabilmente per andare stretta. Significativo in proposito il caso di Giovanni Francesco Biondi: l’elemento politico (espresso in forma esplicita, si intende) acquisisce peso crescente nell’arco della sua “trilogia”, fino a configurarsi come vero e proprio accumulo di manifeste riflessioni di natura politica; viceversa, la presenza della storia pare ridursi progressivamente, per essere sempre più circoscritta a episodi secondari. Nel finale del Coralbo, capitolo conclusivo della “trilogia”, «narrazione e storia si avviano

imperialistiche. Il rifiuto di Livio comporta la duplice condanna [ufficiale ma fittizia] di Machiavelli, come storico e politologo. D’altronde […] la fortuna del tacitismo è correlata alla fortuna della Ragion di Stato di Botero», ivi, p. 205.

120 Tra gli altri, si cimentarono in opere storiografiche Luca Assarino, Gian Francesco Biondi, Anton Giulio

Brignole Sale, Girolamo Brusoni, Giovan Francesco Loredan, Ferrante Pallavicino e via dicendo. Cfr. supra.

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[…] verso una scissione, segnando il definitivo abbandono del romanzo […] e l’approdo alla scrittura storiografica» vera e propria da parte dell’autore121.

Se, dunque, si può placidamente statuire che trattatistica politica e storiografia, pur presentando dei punti di contatto con la narrazione romanzesca, rimangono da essa separati da confini ben delineati e si configurano come generi letterari a sé stanti; più scivoloso si presenta il terreno della libellistica, o almeno di una parte di essa. Quest’ultima, concordemente considerata genere letterario a sé, che comprende opere di contenuto diffamatorio e scandalistico o semplicemente polemico e satirico, si presenta a prima vista ben distinta dal genere romanzesco per contenuto, forma, stile ed intenzioni. D’altra parte, essa può presentare – e di fatto spesso presenta – marcato andamento narrativo, avvicinandosi pericolosamente al confine con il genere romanzo.

Nel caso specifico della prosa secentesca, alcune opere narrative si presentano sotto una veste che ne rende particolarmente problematica una definizione ed una classificazione. Si tratta di narrazioni, per l’appunto, a metà strada tra il libello ed il romanzo, solo in alcuni casi sovrapponibili alle stesse che alcuni critici, non senza imbarazzo, hanno etichettato come «romanzi-saggio». A tal proposito, si riprendano le parole del già citato contributo di Albert Mancini sulla narrativa libertina degli Accademici incogniti, in cui si legge:

Esiste bensì una narrativa libellistica più audace, fiorita nel clima culturale sempre più provocatorio degli anni Quaranta […], che annovera fra i nomi più illustri degl’Incogniti e […] produsse prose di romanzi dove la satira etica, religiosa e politica, con una preminenza dell’indignazione, si spingeva ancora più in là nell’adozione di un linguaggio eccessivo e nell’elaborazione di una tonalità composita, truculenta e sarcastica. C’è alla base di queste opere una netta diversità di effettiva organizzazione dei testi nei confronti sia del romanzo eroico-cavalleresco che delle storie biografiche, per cui, non più primaria l’esigenza di una

121 Davide Invernizzi, L'Argenis di John Barclay (1582-1621) e la sua influenza sul romanzo italiano del

Seicento, Università Cattolica del Sacro Cuore, XXVIII ciclo, a.a. 2015/16, Milano, <http://hdl.handle.net/10280/18928>, p. 252.

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logica narrativa rigida, lo scrittore disarticola la struttura del romanzo fino ad adeguarla all’ambizione di soluzioni formali inedite, di un’originale sintesi di generi122.

In questo settore ibrido della prosa secentesca rientrerebbero, secondo Mancini, La

lucerna di Francesco Pona (1625), il Corriero svaligiato ed il Divorzio celeste di Ferrante

Pallavicino (editi rispettivamente nel 1641 e nel 1643), e l’anonima Anima di Ferrante

Pallavicino (1645), opere ascrivibili al genere romanzesco per il «montaggio», a quello

libellistico per la «tensione etico-speculativa e polemica»123.

Tralasciando per il momento l’opera poniana (che sembra a chi scrive poter essere legittimamente considerata romanzo e non libello e sulla quale comunque si avrà modo di tornare in maniera diffusa), è sufficiente spendere poche parole a proposito dell’Anima

di Ferrante Pallavicino, non creando essa, in effetti, particolari problemi di

interpretazione e classificazione. L’operetta apparve anonima e senza indicazioni tipografiche nel 1645 ma è certamente attribuibile alla cerchia degli Incogniti e pubblicata su impulso di Loredan (cui peraltro ne è stata attribuita la paternità da molti tra contemporanei e critici posteriori). Suddivisa in Vigilie, essa si presenta sotto forma di dialogo tra l’anima del defunto Pallavicino ed Henrico Giblet, dietro cui si celerebbe lo stesso Loredan124. L’opera si apre con la descrizione della morte del giovane Incognito, decapitato ad Avignone l’anno precedente la pubblicazione del libello, a causa della feroce polemica anti-barberiniana di cui si era fatto portavoce; seguono una discussione

122 Mancini, La narrativa libertina degli Incogniti cit., p. 220.

123 Per completezza, si riporta qui quanto scritto da Albertazzi, già alla fine del XIX secolo, in proposito

alle prose di Ferrante Pallavicino: «Ferrante Pallavicini, primo fra tali romanziatori [politici], con la smania di giovare ai prìncipi porgendo loro utili insegnamenti e al popolo svelandogli i danni del mal governo e dimostrandogli i beni d’un governo diverso, per troppo chiare allusioni riuscì a romanzi che parvero libelli», Albertazzi, Romanzi e romanzieri cit. p. 183.

124 Lo pseudonimo è lo stesso usato in occasione della prima edizione delle Historie de’ re’ Lusignani,

publicate da Henrico Giblet cavalier. Libri undeci, in Bologna, per Giacomo Monti, 1647; de L' Iliade giocosa del sig. Gio. Francesco Loredan, nobile veneto. Publicata da Henrico Giblet caualier, in Venetia, appresso li Guerigli, 1653; e dello stesso epistolario del Loredan: Lettere del signor Gio. Francesco Loredan nobile Veneto. Divise in cinquantadue capi e raccolte da Henrico Giblet cavalier, in Venetia, appresso li Guerigli, 1660; Delle lettere del signor Gio. Francesco Loredan nobile veneto. Parte seconda. Divise in cinquantadue capi, e raccolte da Henrico Giblet cavalier, in Venetia, appresso li Guerigli, 1661.

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sulle sue disgrazie (probabile trascrizione di reali discussioni tenute in quegli anni tra i membri dell’Accademia degli Incogniti), la trattazione di una serie di argomenti di segno marcatamente libertino (polemica teologica e temi anticlericali in primis) e la palesemente provocatoria conclusione, in cui si condensano critiche ed insulti rivolti allo stesso Pallavicino. La forma schiettamente dialogica ma soprattutto la pressoché totale assenza di andamento narrativo, molto più che l’intento polemico-satirico, non lasciano dubbi in merito alla natura dell’operetta: essa si colloca al di fuori dell’ambito romanzesco e può essere agevolmente attribuita al genere della libellistica.

Più spinosa la questione delle prose pallaviciniane citate da Mancini, su cui si rende necessario soffermarsi in maniera più approfondita. Il numero delle opere in questione oscilla tra tre e quattro, a seconda che si aggiunga o meno, ai libelli della cosiddetta “trilogia antibarberiniana” (Baccinata, Dialogo e Divorzio celeste), il Corriero svaligiato. Non pochi problemi ha infatti sollevato il genere letterario cui riferire gli scritti in questione; problemi alimentati da un sostanziale paradosso: «se i romanzi di Pallavicino tendono alla trattatistica politica, i suoi pamphlets inclinano visibilmente al romanzo»125. A parere di chi scrive, è agevolmente rintracciabile, nel Corriero, una cornice narrativa solida abbastanza da sostenere su di sé il peso dell’impalcatura narrativo-romanzesca, resistendo alla forza centrifuga impartita dalle epistole di cui si sostanzia l’opera. Per tale ragione, il Corriero può essere inserito a pieno titolo nella categoria romanzesca (se mai si potrebbe aprire qui un capitolo sulla legittimità della sua attribuzione ad un sottogenere specifico, etichettando così il testo come “proto-romanzo epistolare”)126. Se si accetta ciò, ecco con il Corriero chiudersi la stagione romanzesca di Ferrante Pallavicino ed aprirsi

125 Alessandro Metlica, Letteratura licenziosa e pamphlet libertino, in Ferrante Pallavicino, Libelli

antipapali. La Baccinata. Il divorzio celeste, a cura di Alessandro Metlica, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2011, pp. 1-49.

126 Si ribadisce tuttavia quanto dichiarato in sede preliminare sulla fluidità ed elasticità con cui intendere il

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quella libellistica, come se il genere romanzo apparisse ormai inadeguato, agli occhi del prosatore, a contenere, supportare, e veicolare la sua vena polemica127.

Gli scritti “incriminati” sono stati così ridotti a tre, vale a dire i tre episodi della “saga antibarberiniana”. La difficoltà di inquadrare entro rigide coordinate i testi in questione deriva, in prima istanza, dal loro collocarsi al crocevia di una serie di tradizioni, prima fra tutte quella della “pasquinata”, che tanta fortuna aveva riscosso nel secolo precedente128. È ampiamente probabile, poi, che Pallavicino, durante il suo soggiorno in terra tedesca, fosse entrato in contatto con la massa anonima delle Flugschriften, comparsi nel sedicesimo secolo come strumento di propaganda protestante o di critica religiosa e divenuti sempre più, nel corso dei decenni, strumento di polemica politica. D’altra parte, «lo scritto rapido e incisivo, che minaccia il potente rivelandone i segreti sulla pubblica piazza, rientra in una strategia letteraria d’invenzione aretiniana»129. Infine, non poco dovette contare il modello di Traiano Boccalini: ognuno dei libelli pallaviciniani è, «in fondo, […] un ragguaglio di Parnaso “allargato”»130.

I primi due episodi della “trilogia”, la Baccinata e il Dialogo, comparsi rispettivamente nel 1642 e nel 1643, fanno entrambi riferimento alla cosiddetta “guerra di Castro”; combattuto in due distinte fasi nella quinta decade del Seicento, il conflitto era scoppiato come conseguenza dell’aggressiva politica espansionistica di Papa Urbano VIII, che voleva inglobare il feudo di Castro allo Stato pontificio, sottraendolo al controllo

127 Il corriero sualigiato publicato da Ginifacio Spironcini, uscito alla macchia e coperto da pseudonimo,

apparve nel 1641. I libelli della “trilogia” furono stampati nei due anni successivi: Baccinata ovvero Battarella per le api barberine. In occasione della mossa delle armi di N. S. Vrbano Ottauo contra Parma, s.l., nella Stamparia di Pasquino, a spese di Marforio, 1642; Dialogo tra due gentiluomini Acanzi, s.l., 1642; Il divortio celeste, cagionato dalle dissolutezze della sposa romana & consacrato alla semplicità de’ scrupolosi christiani, fu pubblicato anonimo nel 1643, quasi sicuramente a Venezia, e ristampato nello stesso anno in due edizioni con falso luogo di stampa (Inglestatt e Villafranca).

128 Per un eventuale approfondimento si rimanda a Pasquinate romane del Cinquecento, a cura di Valerio

Marucci, Antonio Marzo e Angelo Romano, 2 voll., Roma, Salerno, 1982.

129 Metlica, Letteratura licenziosa cit., p. 18. 130 Ivi, p. 16.

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di Odoardo Farnese, Duca di Parma e Piacenza. Il riferimento è esplicitato nel titolo completo della Baccinata, che non lascia spazio ad interpretazioni. Tale libello, oltre a costituire un duro attacco nei confronti del Pontefice, prende ferocemente di mira il nunzio apostolico Francesco Vitelli, vero e proprio persecutore di Pallavicino, tenace detrattore del Corriero (alla cui pubblicazione si oppose strenuamente), che tanto peso avrebbe avuto nel tragico epilogo dell’esistenza dell’audace scrittore. Al di là del (palese ed innegabile) riferimento specifico a Maffeo Barberini, comunque, entrambi i libelli offrono il destro ad una più generica polemica contro l’ingerenza pontificia in questioni di ordine temporale.

Una certa tendenza a muovere da posizioni di critica ideologica di ordine generale per passare poi al caso particolare, fino a tradursi in un feroce attacco ad personam, è riscontrabile anche nel terzo capitolo della “trilogia”, il Divorzio celeste, apparso nel 1643, che rappresenta l’apice della critica religiosa dell’autore. In esso si narra la missione di San Paolo, inviato sulla terra con il compito di esaminare la condotta della Chiesa romana ed eventualmente istituire il processo di divorzio tra questa, adultera ed indegna, e Cristo. Il messo compie così un viaggio esplorativo attraverso varie città d’Italia. Tappa conclusiva del percorso è Roma, da cui il Santo è costretto a fuggire, dopo aver inviato una lettera ai principi cristiani, con cui li dispensa dall’obbedienza al Pontefice. Sotto