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LA POLITICA NELLE NARRAZIONI: FORME E MODI DELLA “CONTAMINAZIONE” INDIRETTA

Come più volte accennato nel corso del presente lavoro, oltre a quella che è stata definita “contaminazione” diretta, esiste, nella letteratura secentesca, un secondo livello di contatto tra politica e narrazione: un dialogo indiretto ed allusivo tra le due realtà, sfruttato soprattutto – ma non esclusivamente – da quegli autori che intendessero veicolare ideologie e messaggi politici non propriamente ortodossi nelle loro opere.

In epoca barocca, in tutta Europa, si assistette al consolidamento di potenze e poteri destinati a durare nei decenni successivi, almeno sino alle grandi rivoluzioni sociali, politiche ed economiche di fine Settecento. I principali protagonisti della politica europea del XVII secolo, mentre sfruttavano ogni mezzo possibile per rafforzare il proprio dominio assoluto e creare un consenso più ampio possibile, dovevano, gioco forza, impegnare tutte i mezzi a loro disposizione nella repressione del dissenso. È risaputo che la censura assunse, nel corso del secolo, forme sempre più coercitive e fu sfruttata sistematicamente e capillarmente come mezzo di repressione politica. Questo uso peculiare di uno strumento di controllo nato essenzialmente con finalità religiose causò non poche difficoltà ai romanzieri barocchi, che videro ostacolata la pubblicazione delle proprie opere e, in alcuni casi, in pericolo la loro stessa vita. Il fenomeno è denunciato, tra gli altri, da uno dei romanzieri più noti e prolifici dell’epoca, in cui ci si è già più volte imbattuti nel corso del presente lavoro, Ferrante Pallavicino, che nella lettera XXXIX del

Corriero svaligiato scriveva: «Qual Diavolo perseguita costà li letterati, onde mal

rimeritate si scorgono le loro fatiche e interdetta la lettura delle loro composizioni? […] L’auttorità pratticata altre fiate solo in censurare la temerità degli eretici, che con dogmi contrari alla fede corrompessero la verità, s’abusa ora a termine di proibire li libri, o per

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malignità, o per ignoranza»170. Il passo citato testimonia inequivocabilmente come la censura fosse diventata, da strumento di controllo essenzialmente religioso, mezzo di repressione politica (forma che si impose progressivamente, come noto, nel corso dei secoli, fino a divenire pressoché esclusiva nell’età dei totalitarismi novecenteschi); quanto gli scrittori ne fossero consapevoli e quanto se ne sentissero minacciati.

Ciò ricordato, appare evidente che tutti quegli autori che intendessero inserire messaggi politici non ortodossi nelle loro opere o fare riferimento ad ideologie “non allineate” erano costretti a ricorrere ad espedienti e stratagemmi di varia natura; non tanto (o non solo) per non incorrere nella censura e vedere le proprie opere messe all’Indice: è infatti noto che la circolazione forzatamente clandestina di un’opera non ne impedisse affatto una capillare diffusione – complice l’attività di editori e stampatori conniventi (o, più propriamente, scaltri), come quelli legati o stipendiati dalla veneziana Accademia degli Incogniti171 – e che spesso la proibizione di un’opera finisse paradossalmente per favorirne la fortuna; quanto per non incorrere nella persecuzione, nel giudizio e nella condanna da parte delle autorità ecclesiastiche e politiche, sorte che toccò proprio all’audace ma forse incauto Ferrante Pallavicino. Ragioni di prudenza e di autotutela erano, dunque, alla base della scelta di ricorrere alla forma indiretta di “contaminazione” tra politica e narrazione di cui ci si sta occupando. Gli autori interessati potevano ostentare un sostanziale e generale disinteresse per le vicende storico-politiche di ogni epoca; celare riferimenti a personaggi e fatti della politica contemporanea dietro lo schermo di avvenimenti lontani nel tempo e nello spazio; fingere un (almeno parziale) allineamento all’ideologia dominante, nascondendo al contempo, nelle loro opere, indizi, messaggi,

170 Ferrante Pallavicino, Il corriero svaligiato con la Lettera dalla prigionia, aggiuntavi La Semplicità

Ingannata di Suor Arcangela Tarabotti, a cura di Armando Marchi, Parma, Università di Parma, 1984, pp. 95-96.

171 A tal proposito, si veda il capitolo L’Accademia e la stampa, in Miato, L’accademia degli Incogniti cit.,

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allusioni, riferimenti politici non ortodossi, camuffati in vario modo. In ogni caso, ammesso che la strategia adottata dagli autori risultasse efficace, i prodotti di simili scelte erano opere apparentemente “innocue”, in grado di passere incolumi al vaglio della censura e di risparmiare ai loro autori persecuzioni, processi e condanne; si trattava, in realtà, di opere allegoriche, veicolo di un messaggio “altro” celato dietro la lettera del testo, opere che oggi sarebbero definite “impegnate”.

Molteplici, come accennato, gli stratagemmi cui gli scrittori barocchi ricorrevano per tutelare sé stessi ed i propri lettori e per permettere ai lori scritti di circolare indisturbati, diffondendo così i messaggi politici “pericolosi” o comunque non allineati ad essi affidati. Da uno spoglio dei principali romanzi barocchi interessati dal presente discorso, è emerso che due furono le principali tipologie di “mascheramento” adottate dai narratori secenteschi: l’espediente del “ritrovamento delle carte”, variamente declinato, e lo stratagemma della “chiave” letteraria, anch’essa proposta in diverse fattispecie. Naturalmente tali opzioni, ancorché maggioritarie, non erano esclusive: alcuni autori fecero riferimento indistintamente e contemporaneamente all’uno e all’altro meccanismo, oppure ricorsero a strategie alternative, meno delineate e talvolta meno efficaci. Non è un caso, infatti, che tali strategie alternative fossero messe in atto soprattutto da quegli autori che intendevano sì inserire temi e riferimenti politici all’interno delle loro opere, ma che non necessitavano di ricorrere a particolari precauzioni, data la natura non “eversiva” delle loro tesi, il carattere generale dei temi trattati (in mancanza di riferimenti specifici e palesi a singoli personalità, entità statali e vicende contemporanee, il coefficiente di rischio era nettamente più basso) o la loro posizione sociale.

Esemplare in questo senso risulta il romanzo di Pace Pasini (Vicenza, 1583 – Padova, 1644) Historia del cavalier perduto, uscito in unica edizione (fatto piuttosto

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singolare per i romanzi barocchi) nel 1644 a Venezia172; esso dimostra chiaramente come le differenti strategie retorico-stilistiche o narrative potessero essere messe al servizio della scelta autoriale di inserire un discorso di tipo strettamente politico all’interno della narrazione, senza che questo esponesse l’autore a particolari rischi o gli imponesse di correre a particolari ripari. Come ha ben dimostrato Marco Santoro173, il romanzo pasiniano, in cui sono narrate le peripezie del protagonista (il perduto, appunto) alla ricerca della propria identità, presenta una struttura nettamente bipartita. La prima parte, di tematica essenzialmente amorosa, si conforma ai canoni del romanzo avventuroso o eroico-galante in voga nel Seicento: il motivo del viaggio funge da pretesto ed impalcatura alla struttura romanzesca; amore ed agnizione costituiscono il motore dell’azione. Il perduto, infatti, innamorato della Principessa di Giadra, Dobbrizza, intraprende un lungo viaggio alla ricerca delle proprie origini, con il solo scopo di scoprirsi di sangue nobile e poter così chiedere la mano dell’amata. Ma in ciò sta uno degli aspetti più originali del romanzo: l’agnizione, tradizionalmente posta in chiusura d’opera, è qui collocata esattamente alla metà del libro, in quanto strumentale non più allo scioglimento dell’intreccio, ma all’inserimento dell’elemento politico all’interno della narrazione. Con essa, quando cioè il perduto diviene ritrovato, ha inizio la seconda parte del romanzo, in cui risulta prevalente la tematica bellica (e non più erotica) e dal taglio essenzialmente politico: ad occupare la scena è ora la rivalità tra protagonista ed

172 Historia del caualier perduto di Pace Pasini. All'illustrissimo sig. il sig. Gio. Francesco Loredan, in

Venetia, per Francesco Valuasensis, ad instantia delli Turrini, 1644. Si segnala, a titolo informativo, che il romanzo è stato indicato da Giovanni Getto come possibile fonte dei Promessi Sposi, cfr. Giovanni Getto, Echi di un romanzo barocco nei Promessi Sposi, in «Lettere italiane», XII, 1960, 2, pp.141-167. Il presunto antecedente secentesco potrebbe addirittura essere, secondo il critico, il manoscritto-fonte citato da Manzoni nell’Introduzione all’opera. Sebbene non si possa certo escludere che lo scrittore milanese avesse letto l’opera di Pasini, né che essa possa aver funzionato in qualche modo da spunto o fonte di ispirazione, l’ipotesi avanzata da Getto sembra alquanto improbabile (essa è stata, del resto, accolta con scarso entusiasmo, quando non respinta, da molta parte della critica manzoniana del secolo scorso); si ritiene infatti che il manoscritto-fonte cui fa riferimento Manzoni altro non sia che un espediente letterario, del genere di quelli che si sta qui analizzando, come si avrà modo di argomentare a breve.

173 Marco Santoro, L’«Historia del cavalier perduto» di Pace Pasini, in Marco Santoro (a cura di), «La più

stupenda e gloriosa macchina». Il romanzo italiano del secolo XVII, Napoli, Società Editrice Napoletana, 1981, pp. 163-230.

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antagonista (il promesso sposo di Dobbrizza), al centro di uno scenario bellico in cui, anacronisticamente, il conflitto orsino-colonnese si innesta su quello greco-gotico. Lo scarto tematico rispetto alla prima parte è evidente e trasforma l’Historia del cavalier

perduto da romanzo prettamente eroico-cavalleresco a romanzo storico-politico. L’uso

peculiare del meccanismo classico dell’agnizione, preso peraltro a prestito da un altro genere letterario, ha permesso dunque all’autore di inserire chiari riferimenti alla sfera storico-politica all’interno della narrazione (presenti, per la verità, già nella prima parte dell’opera, ancorché in forma meno ostentata); ciò nonostante, è ben evidente che la strategia adottata da Pasini non è una vera e propria forma di “travestimento” o, comunque, che essa non è abbastanza solida da mettere efficacemente al riparo da eventuali rischi. A ben guardare, è chiaro che l’autore non avesse particolari ragioni di temere per sé, per il proprio pubblico e per la propria opera, dal momento che il messaggio veicolato dal romanzo risulta sì inequivocabilmente politico ma decisamente poco eversivo o pericoloso: esso consiste, sostanzialmente, in riferimenti a vicende remote (guerra greco-gotica) o recenti (conflitto orsino-colonnese) ma certamente non contemporanee, e in riflessioni di carattere generale. Quanto a queste ultime, esse sono presenti già nella prima parte del romanzo, laddove, attraverso il personaggio-chiave di Saporeso, ex re di Persia, Pasini affronta il tema del buongoverno, di chiara ascendenza machiavelliana e molto in voga tra i romanzieri secenteschi, come si è già avuto modo di notare. L’innesto del tema sulla trama principale avviene in forma dialogica e segue lo schema più o meno fisso individuato al capitolo precedente: un personaggio anziano e saggio mette la propria esperienza al servizio del giovane protagonista, elargendo consigli ed ammaestramenti: Signori e sudditi «tutt’unitamente […] doverebbono proporsi per unico fine il bene, e comodo universale»174; ciò è tuttavia impedito dal naturale egoismo

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dell’uomo («l’umana natura è molto più amica di sé medesima, che de gli altri»175), che impone la necessità della legge, la quale dovrebbe comunque avere come obiettivo il raggiungimento del bene comune. Seguono un’esemplificazione dei diversi tipi di legge esistenti («una scritta, ch’è quella che tu fai pubblicare; l’altra non scritta, ch’è la consuetudine […]; la terza […] altro non è, che le azioni del Prencipe»176) e un elenco

delle virtù che deve possedere un buon principe (tra le quali spicca la prudentia, cui era attribuita grande importanza dalla trattatistica politica rinascimentale e barocca) e degli atteggiamenti e comportamenti che questi dovrebbe tenere. Come ha sottolineato Marco Santoro177, Pasini, condividendo l’opinione diffusa circa il grande potere comunicativo del romanzo, ha incaricato la sua opera di trasmettere messaggi di interesse e di attualità (seconda parte); al contempo, ha voluto e dovuto adeguarsi ai canoni del genere e al gusto del pubblico, stemperando – per così dire – tali messaggi attraverso una trama tipicamente eroico-amorosa (prima parte). Tuttavia, scorrendo le pagine del Perduto, «si ha la sensazione che l’istanza prevalente sia quella storico-politica[,] alla quale è stata data una veste eroico-cavalleresca non solo per rispettare canoni e gusto ma anche e/o soprattutto per “prudenza”»178. E ancora:

Il vicentino dunque si adegua alla opportunità (se si vuole, alla necessità) della trasposizione storica, «alleggerisce» le proprie denunce facendole filtrare attraverso un accattivante (e fuorviante) ordito eroico-cavalleresco, mitiga la propria accusa con personaggi «di vetrina», in primo luogo Adoino [vero nome del perduto] e Saporeso […]. Nonostante le misure precauzionali, suggerite sì dalla realtà circostante ma dettate soprattutto dalla propria esperienza dell’esilio, Pasini ha voluto comunque approntare un romanzo storico-politico, diremmo noi oggi, «impegnato»: da qui la necessità dell’agnizione anticipata (per proiettarsi nella «storia»), la particolare caratterizzazione dei personaggi e gli altri numerosi accorgimenti179. 175 Ibidem. 176 Ivi, p. 68. 177 Ivi, p. 228. 178 Ibidem. 179 Ivi, p. 229.

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In conclusione, quello adottato da Pace Pasini nella sua Historia del cavalier

perduto può essere considerato stratagemma lasco e non nettamente definito di

camuffamento: il messaggio politico affidato al suo romanzo era tale da richiedere una qualche forma precauzionale di mascheramento, ma non tanto eversivo da rendere necessaria una “maschera eccessivamente coprente”.

Quando, tuttavia, idee, teorie, riferimenti e messaggi politici, più che non allineati, risultavano eterodossi e pericolosi, le strategie adottate dovevano essere più rigorose; pur nella loro varietà esse possono essere ricondotte, come anticipato, a due tipologie principali, alle quali saranno dedicati i successivi paragrafi.

1. Il manoscritto ritrovato.

Espediente preziosissimo per gli autori di romanzi con inserti politici rischiosi era il ricorso al motivo, di origini antiche, del ritrovamento delle carte, tanto nella sua versione, per così dire, tradizionale, del manoscritto ritrovato, quanto nella moderna variante dello “svaligio del corriero”.

La questione è stata affrontata da Monica Farnetti, nel suo libro intitolato Il

manoscritto ritrovato. Storia letteraria di una finzione180. Quanto da lei affermato per la variante tradizionale del motivo risulta valido per l’intera categoria:

Fra le strategie legittimanti e propiziatorie, fra i luoghi comuni più solidamente strutturati o topoi di inveramento e di autenticazione, l’artificio del manoscritto ritrovato si dimostra, a giudicare almeno dalla sua antichità e diffusione, come uno dei più efficaci […]. Nel momento di consegnare l’opera al lettore, l’autore […] si riserva uno spazio (uno spazio paratestuale, che coincide in genere con la prefazione) per indicare i limiti della propria

180 Monica Farnetti, Il manoscritto ritrovato. Storia letteraria di una finzione, Firenze, Società editrice

fiorentina, 2005. Si segnala, in particolare, il capitolo Svaligi e altri reati, ivi, pp. 93-105, che si occupa della declinazione del tópoς in epoca barocca.

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responsabilità e precisare le proprie competenze: raccontando in quali circostanze egli abbia ritrovato quell’opera (tradizionalmente manoscritta) e come, ritenutala meritevole di pubblicazione, l’abbia approntata per le stampe181.

Gli scrittori si servivano di tale espediente in primo luogo per legittimare la propria opera, nel rispetto del principio di verisimiglianza: l’artificio del ritrovamento delle carte permetteva loro di garantire la veridicità della storia (o di attribuire ad altri il suo non esserlo); in secondo luogo, per tutelarsi dal rischio di essere giudicati – ed eventualmente perseguiti – per quanto scritto182. In entrambi i casi, il ricorso al tópoς costituiva un evidente sgravio di responsabilità. Il motivo del manoscritto ritrovato attesta, infatti,

un dato di fondo, relativo al suo poter essere assunto come spia del problema della responsabilità dell’enunciazione che presiede da tempi remoti alle opere di finzione. Ai fini di delegare tale responsabilità, o almeno di relativizzarla, […] l’autore, riservandosi il ruolo di editore, oper[a] nel senso di una abolizione di sé come autore reale, e insist[e] su una efficace quanto insidiosa rappresentazione della propria eclissi o dissoluzione in quanto, appunto, auctor183;

ciò a maggior ragione per i romanzi secenteschi qui presi in considerazione. Sebbene rimangano valide entrambe le suddette motivazioni alla base della scelta di ricorrere all’espediente delle carte ritrovate – si è parlato a lungo, del resto, di quanto i romanzieri secenteschi fossero devoti al principio di verisimiglianza –, è la seconda a risultare predominante: la finzione letteraria, che attribuiva ad altri la paternità del testo e relegava l’autore al ruolo di trascrittore, traduttore o editore, permetteva di mettersi al riparo da eventuali critiche, persecuzioni e condanne; in sostanza, rendeva meno rischioso

181 Ivi, pp. 20-21.

182 «Ragionevoli timori nell’ambito dell’ordine morale e politico (esemplare in tal senso, in Italia come

altrove, la letteratura libertina e quella militante delle riviste settecentesche, posizioni eversive in campo religioso (e si rammentano allora tutti i chierici, più o meno facinorosi, che in ogni tempo osarono troppo liberamente esprimersi), contravvenzioni al modello razionalistico della cultura (ciò di cui si fa carico la letteratura fantastica), e posizioni polemiche in alcuni dibattiti capitali (quello pro o contro la psicanalisi, per esempio), sono alcune fra le circostanze che nel corso dei secoli si rinvengono a monte della decisione, da parte degli autori, di ricorrere al topos», ivi, pp. 38-39.

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inserire, all’interno dei romanzi stessi, riferimenti espliciti (e spesso pericolosi) alla sfera della politica.

Il tópoς del manoscritto ritrovato, come già accennato, ha origini antiche. Monica Farnetti ne ha rintracciato la prima attestazione in un romanzo alessandrino del I secolo a. C., Le incredibili avventure al di là di Tule, di Antonio Diogene184; esso fu accolto, in epoca medievale, nel romanzo cortese e nel lai («complici Chrétien de Troyes e Maria di Francia»185), quindi nei romanzi cavallereschi di epoca rinascimentale, per approdare infine al romanzo moderno (in prosa). Il genere romanzesco pare dunque particolarmente predisposto alla ricezione del motivo (e tale si confermerà anche nei secoli successivi al periodo qui preso in considerazione)186, sebbene se ne registri, nel corso di Quattro e Cinquecento, il transito in altri generi letterari (teatro e trattatistica in primis)187. A sancire e consacrare l’approdo del tópoς – e la sua conseguente canonizzazione – nel moderno romanzo in prosa è stato proprio colui che ne è considerato il padre, Miguel de Cervantes, che, nel prologo al libro primo de El Ingenioso Hidalgo Don Quijote de la Mancha188, si definisce «benché sembri padre, […] padrigno di Don Chisciotte»189. In virtù della sua antica origine, il motivo del ritrovamento delle carte appare, nell’opera cervantesca, già strutturato e ben definito, presentandosi con tutti gli attributi topici derivati dalla tradizione, compreso quello della traduzione. La sua comparsa, tuttavia, si registra nel

184 Ivi, p. 43. 185 Ibidem.

186 Del resto, «[a]ppellarsi all’autorità della vita reale per conferire all’opera un’origine non letteraria,

annullare fin dove possibile il processo della fiction a beneficio di testi “storici” e documenti “autentici”, bilanciarsi tra verità e finzione, storia e invenzione, mondo e libro, è […] l’ossessione dello scrittore: […] i romanzi esplicitano della scrittura l’aspetto di gratuità fondamentale, irreparabilmente ingiustificabile a fronte dei necessari e gravi compiti umani. […] il romanzo esalta il significato di “finzione” e dunque insieme quello di “menzogna”», ivi, p. 103.

187 Cfr. ivi, pp. 87 ss.

188 El ingenioso hidalgo Don Quixote de la Mancha. Con privilegio en Madrid: Juan de la Cuesta, 1605;

l’edizione di riferimento, in traduzione italiana, è Miguel de Cervantes, Don Chisciotte della Mancia, traduzione, introduzione e note di Vittorio Bodini. Con un saggio di Eric Auerbach. Illustrazioni di Gustave Doré, 2 voll., Torino, Einaudi, 2005.

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corso della narrazione e non in sede prefatoria, come avviene di consueto. Alla fine del capitolo VIII, infatti, mentre sta descrivendo la celeberrima battaglia del protagonista contro i mulini a vento, la voce narrante interrompe la diegesi e, attivando la metanarrazione, afferma:

il guaio di tutto è che proprio qui, a questo punto e attimo, l’autore della presente storia lascia sospeso il racconto di quella battaglia, giustificandosi col dire che, oltre le già riferite, altro non trovò scritto sulle imprese di don Chisciotte. È vero altresì che il secondo autore della presente opera [Cervantes] non volle credere che una così strana vicenda potesse essere stata abbandonata alle leggi dell’oblio […]; con questa teoria non disperò di trovare la fine di questa piacevole storia, e coll’aiuto del cielo infatti la trovò190.

È questo il pretesto per la digressione extradiegetica in cui Cervantes chiarisce i limiti della propria responsabilità e precisa il proprio ruolo e le proprie competenze:

Io mi trovavo un giorno nell’Alcanà di Toledo, quando arrivò un ragazzetto a vendere scartafacci e carte vecchie a un mercante di sete; […] presi uno di quei cartabelli che il ragazzino vendeva e lo vidi scritto in caratteri che riconobbi per arabi. E dato che li riconoscevo, sì, ma non riuscivo a capirci, mi guardai in giro per vedere se compariva qualche moro spagnolizzato che me li leggesse; e non mi fu difficile trovare un tale interprete […]. Quando io sentii dire “Dulcinea del Toboso” [si ricordi che Cervantes, nella finzione letteraria, ha già avuto modo di leggere le prime pagine del romanzo] rimasi sospeso e senza fiato, perché mi resi subito conto che quegli scartafacci contenevano la […] Storia di don Chisciotte della Mancia, scritta da Cide Hamete Benengeli, storico arabo […] e lo pregai che mi traducesse in lingua castigliana quei cartabelli […], senza togliere né aggiungere