• Non ci sono risultati.

Tra i primi ad avvicinare l’essenza hegeliana e l’essenza aristotelica, o per meglio dire il ti en einai, è stato Herbert Marcuse, con il suo molto noto Hegels Ontologie und die Grundlegung einer Theorie der Geschichtlichkeit, del 193215. Riallacciandosi all’osservazione linguistica di Hegel che apre la Dottrina dell’essenza, ovvero che il tedesco ha conservato l’essenza nel tempo passato (gewesen) del verbo essere (Sein), Marcuse

14 Quale prima e provvisoria panoramica del già detto problematico rapporto tra l’essenza e l’Assoluto, che si collega poi alla già menzionata questione della

“scomparsa” dell’Assoluto stesso nella formulazione dell’Enciclopedia, va sin da ora precisato quanto segue. L’assunzione che l’essenza “debba diventare”, come si è detto, la forma, ci sembra implicare proprio l’impossibilità di sciogliere la sua considerazione dall’elemento in cui essa, assieme all’intera Logica oggettiva, va infine a convergere, ovvero l’Assoluto – quell’Assoluto che già da sempre le soggiace. E però, come vedremo, neppure questo tipo di considerazione si presenta scevra di problemi: il passaggio dalla necessità assoluta come manifestazione più propria dell’Assoluto e il regime virtuale dell’essenza rispetto al Soggettivo e all’Idea sono due caratteri intrecciati, ma al contempo reciprocamente stridenti.

15 H. Marcuse, Hegels Ontologie und die Grundlegung einer Theorie der Geschichtlichkeit, Vittorio Klostermann Verlag, Frankfurt am Main 1932; trad. it. di E. Arnaud, L’ontologia di Hegel e la fondazione di una teoria della storicità, La Nuova Italia, Firenze 1969.

caratterizza l’essenza hegeliana come Gewesenheit, come la generica categoria dell’esser-stato, e in questo senso riflette su come l’essenza, in quanto non dell’essere, sia sempre l’altro dell’immediatezza e della presenza: “[q]uesto ‘non’, questa negatività è l’immediatamente presente sempre già stato in ogni momento”16. Il vero essere dell’essere risulterebbe questa negazione dell’ente che esso nella sua presenzialità non può mai esprimere: infatti, l’essere dell’ente presente “si trova sempre già in un passato, ma è, per così dire, in un passato

‘intemporale’”17. In questo senso, Marcuse può scrivere che il concetto di essenza “significa un’autentica riscoperta e al tempo stesso una nuova determinazione della categoria aristotelica del ti en einai”18.

Il prosieguo dell’argomentazione di Marcuse fa leva su un’immagine molto nota, quella della pianta negli stadi del suo sviluppo. Il suo esistere ora come germe, ora come fiore, ora come frutto non significa che essa sia, nel senso di essere veramente, come una sola di queste determinazioni. Si tratta infatti di immediatezze che non possono costituire l’unità vera di quella cosa chiamata pianta. Neppure tutte queste cose insieme, in coerenza con l’argomento aristotelico che un’unità non può essere tale per mera aggiunzione o accidentalmente19, ci dicono l’essere vero, cioè l’essenza, della pianta.

Insomma, nell’intera dimensione di ciò che è immediatamente presente per quest’ente chiamato pianta, il suo essere non viene trovato se non come la totalità negativa di tutte queste momentanee determinazioni immediate:

16 Ivi, p. 86.

17 Ibidem.

18 Ivi, p. 87.

19 Cfr. Met., Γ 2, 1030 b 33-35; Met., Z 10 e Z 12.

Il germe diventa fiore, il fiore diventa frutto, e in tutto questo la pianta è come ‘permanente’, anzi, solo in questo diventa per la prima volta pianta.

Ma per poter essere presente in tutte queste determinazioni, per poter essere pianta come germe, fiore, frutto, la pianta deve sempre necessariamente essere già stata (gewesen) prima di tutte queste singole determinazioni. Già il germe è pianta! Non la pianta nasce dal germe, bensì soltanto il fiore e poi il frutto. L’‘essere’ della pianta è quindi un’‘essenza’

(Wesen): in primo luogo, essa non può essere definita se non come ‘ciò che l’essere era (già sempre)’, to ti en einai20.

Queste osservazioni si inscrivono comunque all’interno di un progetto più ampio: l’obiettivo generale di Marcuse è quello di tracciare la possibilità di una teoria storica a partire dalla logica hegeliana intesa come ontologia. “Storicità”, scrive Marcuse,

“significa ciò che noi intendiamo quando di qualcosa diciamo: ‘è storico’; denota il senso di questo ‘è’; il senso ontologico di ciò che è storico”21.

Accogliamo qui l’intuizione originaria di Marcuse, che costituisce sicuramente un punto di partenza utile, nell’esigenza però di dirigerci altrove; e nella convinzione che la partentela tra Wesen e ti en einai possa essere non soltanto rafforzata, ma opportunamente fondata, da un confronto diretto con il testo hegeliano, ovvero con l’interpretazione diretta che Hegel dà delle questioni aristoteliche nelle Lezioni sulla storia della filosofia22.

20 Marcuse, L’ontologia di Hegel…, cit., p. 88.

21 Ivi, p. 3.

22È stata per lungo tempo tendenza diffusa quella di dar poco credito al vastissimo, variegato materiale dei corsi tenuti da Hegel – ma anche le Aggiunte al testo dell’Enciclopedia o della Filosofia del diritto – in quanto, com’è noto, non di mano direttamente hegeliana. Esse sembrano invece un luogo fondamentale per seguire lo sviluppo di un pensiero in perenne movimento come quello di Hegel, tanto più se intese nella loro indubbia capacità di catturare il discorso filosofico nell’atto stesso del suo farsi. Di particolare importanza sono per il nostro lavoro le Lezioni sulla storia della filosofia, che si è scelto, come dicevamo, di utilizzare in qualche modo per il decrittaggio della Dottrina dell’essenza, sulla base della coincidenza tra filosofia e storia della filosofia teorizzata da Hegel stesso. Sulla loro attendibilità si è pronunciato in modo deciso C.L. Michelet nella Introduzione alle Lezioni da lui curate nell’ambito della prima

In questa sede, in verità, Hegel non parla del ti en einai analizzando i libri centrali della Metafisica aristotelica. Diversamente da come ci si potrebbe aspettare, verrebbe da aggiungere, dato che agli occhi di Aristotele esso sembra essere il candidato più idoneo al ruolo di sostanza: a questo concetto – che è aporotatos, cioè presenta le difficoltà maggiori – sono dedicati i capitoli 4-6 e 10-12 (questi ultimi, nel rapporto con la definizione) di Z.

Hegel menziona invece il ti en einai in modo rapido, quasi distratto, nel rileggere alcune aporie sul Nous in Λ 9. Ciò che è estremamente interessante, tuttavia, è la maniera in cui Hegel traduce questa problematica espressione greca: Bestimmen des Zwecks, Realisieren des Zwecks, ovvero l’atto di determinare e realizzare il fine23. L’intreccio si complica considerando che la medesima espressione è da lui impiegata per tradurre, pur con dei dovuti, sottili accorgimenti, anche energeia ed entelecheia24.

edizione completa delle opere di Hegel (VGPh I, p. XV): Michelet scrive che da commistioni e rimaneggiamenti è nata la sistematizzazione delle opere di Aristotele come le conosciamo noi oggi, ma la loro genuinità difficilmente viene messa in dubbio.

Le versioni delle Lezioni sulla storia della filosofia sono tre. La prima è quella edita da Michelet nei Werke a cura degli allievi di Hegel, che ha avuto una successiva ristampa anastatica da parte di H. Glockner per il centenario della morte di Hegel nella

“Jubiläumausgabe”. La seconda versione, sempre a cura di Michelet, venne pubblicata tra il 1840 e il 1844 con differenze minime e perlopiù formali; il materiale è riordinato, spogliato di ridondanze, e presenta una riorganizzazione per così dire scaltrita dei contenuti, ma nessuna aggiunta. La terza versione è quella curata da P. Garniron e W.

Jaeschke nel 1986 all’interno della nuova edizione critica dei Gesammelte Werke (cfr.

G.W.F. Hegel, Vorlesungen über die Geschichte der Philosophie, hrsg. von P. Garniron und W. Jaeschke, 4 Bde., Meiner, Hamburg 1986-1994). Abbiamo scelto di seguire la seconda edizione di Michelet, che combina gli appunti degli allievi di Hegel al

“Quaderno di Jena” scritto da Hegel stesso per il suo primo corso di storia della filosofia, di cui Michelet era fortunatamente in possesso. Per un approfondimento dettagliato della questione si rimanda a F. Biasutti, “Aristotele e Alessandro Magno:

filosofia e welthistorisches Individuum in Hegel” in AV.VV, Studies on Aristotle and the Aristotelian Tradition. Proceedings of the International Conference, Padua: December 11-12-13, 2006, Edizioni di Storia della Tradizione Aristotelica, Lecce 2011, pp. 323-338;

specialmente pp. 326-331. Cfr. anche C. Cesa, “Le lezioni hegeliane di storia della filosofia”, in Giornale critico della filosofia italiana, 67 (1988), pp. 306-309.

23 VGPh II, p. 297; 312.

24 Rimandiamo ai nostri capp. I e IV.

La difficoltà strutturale del ti en einai, nonché l’impossibilità di stigmatizzarlo in una traduzione univoca (tanto più in una sola parola, come spesso si usa fare: “essenza”) rendono l’omissione hegeliana insieme curiosa e affascinante. Aristotele, infatti, fa un larghissimo uso del ti en einai, in luoghi e contesti diversi e, pur senza mai definire in modo netto, intesse una trama fitta di relazioni tra termini: il ti en einai è in stretta relazione con horismòs, la definizione25; spesso è sinonimo di morphè (forma) 26 e di eidos (specie) 27; indubbiamente è ousia aneu hyles, sostanza senza materia28, ma la sua paradossalità sta nel dirsi sempre di un tode ti, di qualcosa di determinato29. Ancora, in un importantissimo passo di H su cui avremo l’occasione di tornare, ancora, Aristotele scrive che il ti en einai appartiene alla forma e all’atto (energeia)30.

Proprio all’energeia, com’è noto e come già si anticipava, Hegel concede invece enorme attenzione, e anzi l’intera parte delle Lezioni sulla storia della filosofia dedicata ad Aristotele sembra un’esplicitazione della filosofia dello Stagirita nei termini di una filosofia dell’attività o, come la chiameremo qui, dell’effettualità. Questo fondamentalmente per due ragioni: i) anzitutto, l’energeia è per Hegel il carattere distintivo della filosofia aristotelica anche in quanto si configura, a livello storico-filosofico, come il “punto di svolta” di Aristotele rispetto a Platone, in vista di una più precisa e concreta definizione dell’Idea; ii) in secondo luogo, e questo è fondamentale, Hegel scorge nella concezione aristotelica dell’energeia – interpretazione geniale o

25 Met., Z 5, 1031 a11-14.

26 Met., Z 8, 1033 b5-8.

27 Met., Z 10, 1035 b32.

28 Met., Z 7, 1032 b13.

29 Met., Z 4, 1030 a3-6.

30 Met., H 3, 1043 b1-2.

aberrante, a scelta dell’interprete – la prima traccia veramente speculativa di una teoria filosofica della soggettività: l’energeia è letta come negatività31 autorelazionantesi, ovvero come l’atto del porre lo sdoppiamento facendosi altro dal suo fine per poi determinarsi secondo questo fine medesimo.

Ecco allora il dato testuale che cercavamo: tanto nell’imbattersi quasi accidentale nel ti en einai e nel definirlo di conseguenza, quanto nella sua ampia digressione sull’energeia – e sull’entelecheia che, in un modo ancora da precisare, ne costituisce la determinazione più propria –, Hegel parla nei medesimi termini: entrambi sono l’atto del Bestimmen, Realisieren des Zwecks; entrambi hanno a che fare con la determinazione del fine.