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Possediamo il nome di molte donne, attive a Salerno nel tempo di Trotula e dopo E tu qui mi fai una domanda che in qualche modo introduce quello che per me

NELL’ARCHIVIO DI STATO DI SALERNO

CATERINA CORRADIN

R. Possediamo il nome di molte donne, attive a Salerno nel tempo di Trotula e dopo E tu qui mi fai una domanda che in qualche modo introduce quello che per me

può essere solo un desiderio. Io non ho, infatti, la competenza professionale che mi abiliterebbe a gettarmi in una ricerca simile. D’altra una sola competenza scien­ tifica non sarebbe sufficiente. Ecco, mi piacerebbe che i nomi di Abella Salernitana, Rebecca Guarna, Costanzella Calenda, ma anche molte altre donne, divenissero figure storiche. Mi piacerebbe che i titoli delle opere attribuite a queste donne po­ tessero divenire manoscritti sopra i quali lavorare per rintracciare, proprio attra­ verso i loro linguaggi e gli argomenti che propongono, pezzi della loro vita e di quella delle persone cui rivolgevano le loro cure e le loro attenzioni di studiose. Queste donne, infatti, hanno scritto di medicina, non di ostetricia e ginecologia: si sono occupate delle varie branche della medicina. Ma chi sono ? Chi furono ? Quale il rigore delle loro ricerche ? Le competenze, come vedi, dovrebbero essere molteplici : storici, storici delle medicina, antropologi, filologi classici, paleografi, insieme potrebbero far restituire a Salerno parti cospicue della sua vita, dalla Bi­ blioteca Vaticana, a esempio, in cui sicuramente i Manosritti a cui penso sono

conservati.

Ho passato solo una giornata nelle sue sale: vi ho trovato copia di Trotula che gli elenchi tedeschi non contenevano. Sono stata fortunata e . . . felice ; ma quel manoscritto è ancora lì (la fotocopia, intendo) a aspettare l’occhio giusto per farlo parlare. E, con esso, per far parlare Trotula.

«FOCHI D’A LLEGREZZA »: NOTE IN MARGINE AD UNA MOSTRA.

Ci è sembrato interessante all’interno del Bollettino, riservare uno spazio alla segna­ lazione di quelle iniziative culturali, nel nostro caso una mostra di incisioni e disegni, che offrano riflessioni pertinenti a comportamenti sociali intesi in senso lato.

Scusandoci per la non contemporaneità, segnaliamo la mostra svoltasi a Roma, a cura dell'Assessorato alla Cultura, e con il patrocinio del Ministero per i Beni Culturali nella sede di Palazzo Braschi, avente per titolo: « Fochi d’allegrezza » a Roma dal cin­

quecento all’ottocento.

Le 116 opere esposte raffiguravano quattro delle diverse occasioni nelle quali si faceva uso di fuochi d’artificio: feste dinastiche e religiose, la festa della chinea, la giran­

dola di Castel Sant’Angelo e le feste del XIX secolo, che con termine alla moda si defi­

niscono effimere. E ciò è in parte vero, perché tranne Castel Sant’Angelo sede della

girandola, consistente nello scoppio controllato sugli spalti e camminamenti di diversi

barili di polvere da sparo, del resto degli apparati scenici praticabili, alti anche più di venti metri, non è rimasto nulla, perché queste grandiose macchine costruite con legno, tela, cartapesta, venivano date alle fiamme, sul far della sera dopo spettacoli e banchetti.

Così come precisa la premessa al catalogo, la documentazione non esaurisce tutte le occasioni nelle quali si faceva uso dei fuochi pirotecnici, e ad esemplificazione di ciò si fa riferimento a materiale iconografico in possesso del Gabinetto Comunale delle Stampe, relativo a tornei, fiere, possessi, feste popolari, momentaneamente non utilizzato.

Lasciando da parte la girandola, della quale si è brevemente detto, e della cui spet­ tacolarità fanno fede 19 stampe, ed il secolo XIX, legato alle vicende politiche di Roma, che con i fuochi festeggiava, dal balcone del Pincio indistintamente, il ritorno del Papa, dopo la parentesi indesiderata della Repubblica Romana o i novelli fasti di « Roma capi­ tale», qualche considerazione meritano le due restanti sezioni: quella delle feste dinastiche

e religiose, e quella della festa della chinea.

Bastava la nascita di qualche « delfino o infante », un avvenimento dinastico di qualche potenza cattolica, sempre pronta a rivaleggiare non solo a suon di mortaretti, un matrimonio di rango, ed ecco che gli ambasciatori accreditati presenti a Roma, si preoc­ cupavano di scomodare non solo gli architetti e gli artigiani, al tempo operosi e devoti, ma anche le divinità dell’Olimpo, gli eroi dell’antichità, i concetti astratti, acché ognuno potesse cogliere, attraverso la « macchina » esaltatrice della fantasia, una certa assonante parentela, se non proprio consanguineità, dei regnanti, con gli illustri personaggi.

Apollo e le Muse, Cupido e Psiche, la fucina di Vulcano, il centauro Chirone, Minerva, Castore e Polluce, la ninfa Partenope, le imprese della Colonna Traiana, qualche docile leone, le allegorie della Fama, della Pietà, della Gloria, della Concordia, della Liberalità, il tutto inserito in contesti architettonici o naturali, stavano lì a significare, o piuttosto a rammentare, ai poveri sudditi, che purtroppo vivevano altre realtà, tutta la magnificenza e la bontà dei loro governanti.

Macchine simili, sia pure più sobrie, facevano edificare le Confraternite Religiose, in occasione di canonizzazioni o beatificazioni, con la raffigurazione di scene Bibliche o allegorie sacre. L’intento era il medesimo, così pure l’esito finale della festa, ovvero la combustione.

Sottesa da spirito celebrativo, in favore del re delle Due Sicilie, era anche la annuale

testa della chinea, illustrata da 44 incisioni (numerose rispetto alle altre sezioni), sia per

l’importanza dell’antica festa che risaliva all'età medioevale, sia per il fatto che i fochi d'allegrezza si ripetevano per due sere, quelle del 28 e 29 giugno, in occasione della ricorrenza dei S. S. Pietro e Paolo.

La festa iniziava con la simbolica consegna da parte del Gran Contestabile del Regno di Napoli (dal 1515 e per ereditarietà un principe di casa Colonna), che rappre­ sentava il re, al Papa, di una somma in danaro, « il censo », e di una cavalla o mula bianca riccamente bardata, detta « chinea », quale segno di sottomissione e di ringrazia­ mento per l’investitura ricevuta. Tale festa durò sino al 1787.

Il tutto ovviamente contornato da messe vespertine, cavalcate, sontuosi banchetti. L’utilizzo e l’incendio pirotecnico della macchina, prontamente sostituita ed integrata nelle parti combuste, si ripeteva la sera successiva con mutamenti sostanziali della struttura, la quale serviva anche come palcoscenico per esibizioni di musici e teatranti.

L’intento autoeelebrativo dei regnanti, da sempre assimilati alle divinità che li rap­ presentavano sia pure in cartapesta, dimostrava anche un’attenzione, tutta particolare, ai temi culturali allora alla moda.

In un arco di tempo qui documentato, dal 1723 al 1778, accanto a Minerva, ad Apollo e Diana, alla operosa fucina di Vulcano, a Pallade c Giove che propiziano la pace, a Venere genitrice, al monte Parnaso, alla reggia di Orfeo, al provvidenziale tempio di Esculapio, a qualche inevitabile allegoria della fondazione del Regno di Napoli e Sicilia, ed alle ineliminabili pubbliche felicità, provvidenze regie, fecondità, liberalità, compaiono anche la celebrazione, tutta mercantile, di una spedizione di vascelli della com­ pagnia di Ostenda e Trieste per il commercio delle Indie (chinea del 1729), e tanto per restare in clima marinaro, l’esaltazione di un porto franco voluto dal re per la negozia­ zione marittima (chinea del 1740), e la celebrazione (chinea del 1750) del nuovo molo del porto di Napoli.

Non mancano neppure gli echi della scoperta del teatro di Ercolano, (chinea del 1749), tema ripreso nel 1755 per via dei copiosi rinvenimenti archeologici documentati nel testo: « Le Antichità di Ercolano Esposte » edito a Napoli nello stesso anno, né l’arte­ fice involontario che le procurò il Vesuvio (chinea del 1750) allora inattivo, « quasi che ancora le cose inanimate tendino ad imitare l’esempio della Reai Clemenza ».

Dopo il 1750 si fecero frequenti le scene di genere, es. una pescheria, un mercato di cacciagione, c come riverbero dell’interesse del tempo per la dimensione esotica si rap­ presentò anche «un luogo dedicato alla cinese filosofia».

Non mancò neppure « un casino di delizie all’uso Ottomano », che in ben poche cose differiva da quelli locali.

Un dato ricorrente in quasi tutte queste occasioni, era la presenza di fontane che buttavano vino, eco lontana del paese di cuccagna, quasi a voler accentuare ancora di più l'eccezionaiità della festa, come evento nel quale i desideri si realizzano, la realtà si tra­ sforma, e come molti hanno sottolineato, l’immaginario collettivo si fenomenizza.

Le cronache, così pure le immagini, sono concordi nel sottolineare un’aspetto inte­ ressante, la confusione dei diversi strati sociali, i quali si mescolavano, sia pure con le dovute cautele, perché le immagini, i suoni, dovevano essere fruiti da tutti, indistinta­ mente.

Una cosa però mi sfugge, ed è in che modo neU’immaginario popolare e plebeo potessero trovar posto Giove, Minerva, Venere, le pubbliche felicità!