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A PPROCCIO ITALIANO IN TEMA DI EUTANASIA

Nel documento Eutanasia: quid ni? (pagine 36-64)

L’ordinamento normativo italiano attuale si caratterizza per una evidente lacuna legislativa in ordine al tema del fine vita e del rifiuto alle cure, costringendo, da un lato, la dottrina, dall’altro, la giurisprudenza, di merito e di legittimità, a una riflessione finalizzata a delinearne i connotati giuridici, fondando, necessariamente, il ragionamento sui principi esposti dalla Carta Costituzionale, con la disamina, in particolare, di quel diritto soggettivo della personalità, rappresentato dalla vita umana.

Il diritto alla vita, più in dettaglio, rientra nel novero dei diritti inviolabili dell’uomo (sentenza Corte Costituzionale 54/1979 e 223/1996), appartenendo così “all’essenza dei valori supremi

sui quali si fonda la Costituzione italiana” (Corte

Costituzionale n. 1146/1988), che appaiono meritevoli di tutela ai sensi dell’art. 2 della Costituzione: “La Repubblica

riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”.

Identica salvaguardia a tale connotato è garantita dalla legislazione ordinaria che recepisce normative di tenore sovranazionale, quali la legge 4/8/1955, n. 848, con cui fu ratificata e resa esecutiva la “Convenzione europea per la

salvaguardia dei diritti dell’uomo e le libertà fondamentali”,

con la previsione che “il diritto alla vita di ogni persona è

protetto dalla legge. Nessuno può essere intenzionalmente privato della vita, salvo che in esecuzione di una sentenza capitale pronunciata da un Tribunale, nei casi in cui il delitto sia punito dalla legge con tale pena” (art. 2 comma 1), e la

legge 25/10/1977, n. 881, che ratifica e rende esecutivo il

“Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici”, in cui

si prevede che “il diritto alla vita è inerente alla persona

Nessuno può essere arbitrariamente privato della vita” (art. 6

comma 1).Ulteriori fondamenti, di indole sovranazionale, a sostegno di tale impostazione sono rinvenibili nella

“Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo” in cui si

proclama che “ogni individuo ha diritto alla vita”, nella risoluzione del Parlamento Europeo del 12/4/1989, relativa alla Dichiarazione CEE dei diritti e delle libertà fondamentali, secondo cui “chiunque ha il diritto alla vita” e nella “Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea” , ove si prevede, all’art. 2, che “Ogni individuo ha diritto alla vita”.

Improntate ad una analoga difesa del bene vita nell’ambito del Codice Penale, sono da una parte gli articoli 575 (omicidio), 579 (omicidio del consenziente) 580 (istigazione o aiuto al suicidio) e 584 (omicidio preterintenzionale) che sanzionano qualsiasi condotta che ne leda la integrità e dall’altra l’art. 583 (omissione di soccorso) che impone ai consociati un dovere positivo di salvaguardia dello stesso.

Volendo vagliare adesso i dispositivi penali che salvaguardano la vita umana, occorre premettere che l’omicidio può essere definito, seguendo una nota descrizione del celebre docente di diritto criminale dell’Università di Pisa, Giovanni Carmignani, come “hominis caedes ab homine iniuste patrata13”, ovvero

l’uccisione di un uomo, con dolo o colpa, cagionata, ingiustamente (cioè in assenza di cause di giustificazione14), da un altro uomo.

L’omicidio doloso è disciplinato all’art 575 c.p. alla rubrica “Omicidio”: “Chiunque cagiona la morte di un uomo è punito

con la reclusione non inferiore ad anni ventuno”.

L’elemento psicologico di tale fattispecie consiste, dal tenore letterale dell’articolo in premessa, l’intenzione di cagionare la morte altrui, come conseguenza, voluta e prevista della propria condotta: in mancanza di circostanze che evidenzino ictu oculi l'animus necandi, la valutazione dell'esistenza del dolo può essere raggiunta attraverso un procedimento logico di

deduzione da altri fatti accertabili, quali i mezzi usati, la direzione e l'intensità dei colpi, la distanza del bersaglio, la parte del corpo attinta, le situazioni di tempo e di luogo che favoriscano l'azione cruenta.

L’omicidio è un reato a forma libera, potendo essere consumato sia con una condotta attiva che con una condotta omissiva (qualora, in capo al soggetto sussista il dovere giuridico di impedire tale evento) che cagioni l’evento “morte” di un uomo.

E’ da ricordare che la nozione di uomo, in ambito penale, ricomprende anche il feto durante il parto, a partire, cioè dal distacco di quest’ultimo dall’utero materno, ancor prima della nascita vera e propria, rappresentata dalla fuoriuscita del prodotto del concepimento dall’alveo materno e l’inizio della respirazione autonoma.

Perché sussista omicidio, sarà dunque necessario che il soggetto passivo sia in vita, in assenza della quale il reato

sarebbe impossibile, ex art. 4915, ma non occorre che sia vitale, ovvero abbia l’attitudine alla vita, configurandosi, dunque, il delitto di omicidio anche nel caso di uccisione di una persona

in limine vitae o agonizzante.

La legge penale prevede delle circostanze aggravanti per l’omicidio, le quali possono essere suddivise in comuni (in altri termini, riguardano anche altri delitti) e speciali (ovvero specifiche).

Per le prime, ex art. 61 c.p. si rimanda a quanto supra espresso.

Ricorrono le aggravanti speciali, come previsto dal combinato disposto degli articoli 576 e 577, per cui verrà applicata la pena dell’ergastolo, se l’omicidio è commesso:

- Contro l’ascendente o il discendente, in caso di motivi abietti o futili, ovvero avendo adoperato sevizie o agito con crudeltà verso le persone, ovvero quando è

15Art. 49 c.p. Reato supposto erroneamente e reato impossibile “…La

adoperato contro di essi un mezzo venefico o un altro mezzo insidioso o quando vi è premeditazione (c.d. parricidio aggravato);

- Dal latitante per sottrarsi all’arresto, alla cattura o alla carcerazione, ovvero per procurarsi i mezzi di sussistenza durante la latitanza (la dottrina non pare concorde nell’applicazione di tale aggravante in caso di evaso);

- Dall’associato per delinquere per sottrarsi all’arresto, alla cattura o alla carcerazione;

- In occasione di taluno dei seguenti delitti: maltrattamenti contro familiari o conviventi, prostituzione minorile, pornografia minorile, violenza sessuale, atti sessuali con minorenne e violenza sessuale di gruppo;

- Dall’autore del delitto di atti persecutori, nei confronti della stessa persona offesa;

- Contro un ufficiale o agente di polizia giudiziaria, ovvero un ufficiale o agente di pubblica sicurezza, nell’atto o a causa dell’adempimento delle funzioni o del servizio;

- Contro l’ascendente o il discendente (c.d. parricidio semplice)16;

- Col mezzo di sostanze venefiche , ovvero con un latro mezzo insidioso;

- Con premeditazione (si veda, per tale fattispecie, supra); - Per motivi abietti o futili;

- Con sevizie o con crudeltà verso le persone.

Per mezzo venefico si intende qualsiasi sostanza idonea a provocare la morte di una persona attraverso un’azione tossica, mentre per insidiosi (nel novero dei quali si enumerano i mezzi venefici), quei mezzi che comportano un pericolo nascosto, tale da sorprendere, traendola in inganno. la vittima

16 La legge distingueva il parricidio semplice da quello aggravato,

impedendole qualsiasi difesa (come ad esempio, la corrente elettrica, radiazioni, agenti patogeni et c.)

Se l’omicidio è commesso contro il coniuge, il fratello o la sorella, il padre o la madre adottivi, il figlio adottivo o contro un affine17in linea retta, la pena è da ventiquattro a trenta anni. Esistono infine circostanze attenuanti comuni (previste dall’art. 62) e generiche (art. 62 bis).

Omicidio preterintenzionale

Tale fattispecie delittuosa è prevista dall’art. 584 del c.p., in base al quale, “Chiunque, con atti diretti a commettere uno dei

delitti preveduti dagli articoli 581 e 582, cagiona la morte di un uomo, è punito con la reclusione da dieci a diciotto anni”.

L’omicidio preterintenzionale, dunque, si configura allorquando si verifichi la morte dell’individuo quale diretta conseguenza di atti diretti a commettere il delitto di percosse o di lesioni personali (dolose) di cui agli artt. 581 e 582 c.p.

17 L’affinità è il rapporto giuridico che intercorre tra il coniuge e i parenti

dell’altro coniuge, con equiparazione del grado di affinità con quello di parentela.

Trattasi, pertanto, di un reato di evento, che si perfeziona, perciò, con l’avverarsi della morte che non è voluta dal soggetto attivo, la cui condotta è caratterizzata dagli “atti

diretti”, dolosamente, a percuotere o a ledere.

Ai fini della sussistenza del reato, pertanto, è sufficiente che dalla condotta, attiva o omissiva, diretta intenzionalmente a commettere il delitto di percosse o lesioni, derivi la morte, seppur non effettivamente voluta o perseguita, quale conseguenza della stessa condotta.

Non occorre, dunque, che la volontà dell’agente “di

percuotere o di ledere abbia avuto il suo esito materiale, essendo sufficiente che l’autore dell’aggressione abbia commesso atti diretti e percuotere o a ledere, incluso quindi anche il tentativo [di percosse o di lesioni personali]”

(Cassazione n. 6403/1990), e “l’ipotesi di cui all’art. 584 c.p.

non è legata neppure al presupposto di un tipico tentativo di percosse o di lesioni, poiché nella formula ‘atti diretti a commettere uno dei delitti previsti dagli artt. 581 e 582 c.p.’

deve ritenersi compreso anche un semplice comportamento minaccioso ed aggressivo, sempre che sia tendente a ledere o a percuotere” (Cass. n. 6403/1990).

L’elemento soggettivo del reato è la “preterintenzione”, ossia la condotta volontaria del soggetto agente di realizzare un dato evento, dalla quale deriva un evento più grave di quello voluto. Sull’elemento psicologico dell’omicidio preterintenzionale, peraltro, la giurisprudenza non è unanime: secondo un orientamento, si tratterebbe di un dolo misto a responsabilità oggettiva: il primo sarebbe ravvisabile nel delitto di base, costituito dalle percosse o dalle lesioni, la seconda, invece, sarebbe attribuita all’agente per l’evento letale, non voluto, sulla base del mero nesso di causalità che collega tale evento ulteriore al delitto originario, “prescindendosi da ogni

indagine di volontarietà, di colpa o di prevedibilità dell'evento più grave” (Cass. n. 10134/1982).

Secondo una diversa interpretazione, invece, l’elemento soggettivo richiesto per la configurazione del reato andrebbe

individuato nel dolo, per il reato di percosse o lesioni, misto alla colpa, per l’evento ulteriore non voluto dal soggetto agente, il quale intende porre in essere una condotta volta a percuotere o a ledere il soggetto passivo, ma ottiene, per colpa, la morte della stessa. (Cass. n. 9294/1983; n. 10994/1981). Secondo un terzo orientamento, l’omicidio preterintenzionale

“deve ritenersi caratterizzato, quanto all’elemento psico- logico, non dalla coesistenza di dolo e colpa, ma dalla sola presenza del dolo, costituito dalla coscienza e volontà di attentare all’incolumità del soggetto passivo mediante percosse o lesioni; nel che resta assorbita la prevedibilità dell’evento omogeneo più grave costituito dalla morte” (Cass.

n. 50557/2013; n. 27161/2013; n. 35582/2012; n. 13673/2006). Ricorrerà, invece, l’ipotesi dell’omicidio doloso, se il soggetto attivo abbia agito con dolo alternativo, ovvero con la volontà di procurare lesioni personali o di uccidere indifferentemente. Secondo l’art. 585 c.p., la pena prevista per il reato di omicidio preterintenzionale è aumentata, quando concorre una delle

circostanze aggravanti speciali dell’omicidio doloso, previste,

ut supra ricordato, dall’art. 576 c.p., e dall’art. 577 c.p. , “ovvero se il fatto viene commesso con delle armi o con sostanze corrosive, ovvero da persona travisata o da più persone riunite”.

Il delitto di omicidio per colpa è normato all’art. 589 del c.p. che espressamente recita: “Chiunque cagiona per colpa la

morte di una persona è punito con la reclusione da sei mesi a cinque anni.

Se il fatto è commesso con violazione delle norme sulla disciplina della circolazione stradale o di quelle per la prevenzione degli infortuni sul lavoro la pena è della reclusione da uno a cinque anni.

Nel caso di morte di più persone, ovvero di morte di una o più persone e di lesioni di una o più persone, si applica la pena che dovrebbe infliggersi per la più grave delle violazioni commesse aumentata fino al triplo, ma la pena non può superare gli anni dodici.”

L’omicidio colposo consiste, pertanto, nel causare per colpa (ovvero per imperizia, imprudenza, negligenza ovvero per inosservanza di leggi, ordini, regolamenti o discipline) la morte di una persona.

Non vi sono, peraltro, dubbi che la vita sia tutelata non solo a partire dalla nascita, ma anche durante la vita uterina, quando il feto non è dotato di vita autonoma, come si evince dal combinato disposto dell’art 1 della legge 22/5/1978 e articolo aborto.

In altre parole, la vita, per il nostro ordinamento è un bene indisponibile di cui il titolare non può disporre al fine di elidere l’antigiuridicità del fatto tipico di omicidio.

Imprescindibile, appare, in tema di eutanasia il riferimento agli artt. della Costituzione italiana 13, che recita testualmente:

“La libertà personale è inviolabile. Non è ammessa forma alcuna di detenzione, di ispezione o perquisizione personale, né qualsiasi altra restrizione della libertà personale, se non

modi previsti dalla legge. In casi eccezionali di necessità ed urgenza, indicati tassativamente dalla legge l'autorità di pubblica sicurezza può adottare provvedimenti provvisori, che devono essere comunicati entro quarantotto ore all'autorità giudiziaria e, se questa non li convalida nelle successive quarantotto ore, si intendono revocati e restano privi di ogni effetto. E` punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà. La legge stabilisce i limiti massimi della carcerazione preventiva” e 32

in base al quale: “La Repubblica tutela la salute come

fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti. Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”.

Operativo nell’intero ordinamento giuridico, ancorché reperibile in una fonte di diritto privato quale è il Codice Civile, risulta l’art. 5 rubricato “atti di disposizione del

proprio corpo” che sancisce che “Gli atti di disposizione del proprio corpo sono vietati quando cagionino una diminuzione permanente della integrità fisica, o quando siano altrimenti contrari alla legge, all’ordine pubblico o al buon costume”.

L’occasio legis di approvazione dell’art 5 c.c. fu un celebre caso giudiziario, di trapianto di una ghiandola sessuale da un giovane studente a beneficio di un facoltoso anziano brasiliano affinché riprendesse vigore sessuale. Si veda, a tal proposito, Cass. Pen., 31 gennaio 1934, in Foro It., 1934, II, 146 ss., con nota di Arangio Ruiz G., “Contro l’innesto Voronoff da uomo

a uomo”.

Dal tenore letterale del precetto in esame e dagli orientamento giurisprudenziali consolidatisi nel tempo, si può desumere come l’integrità fisica sia disponibile illimitatamente quando l’atto di disposizione del corpo sia funzionale alla salvaguardia della salute, come in ipotesi di asportazione di un organo affetto da patologia. L’integrità fisica è, di contro, disponibile soltanto entro i limiti quantitativi e qualitativi fissati dell’art. 5

cc qualora esso vada a svantaggio della salute del disponente. Per quanto attiene al limite della diminuzione permanente, questo non sarà superato quando il consenso riguardi interventi che interessano tessuti e organi in grado di autoriprodursi, mentre, sarà superato e, dunque, il consenso inefficace qualora abbia ad oggetto un organo non autoriproducibile.

Dal combinato disposto degli artt. 579, 580 Cp e 5 del cc deve desumersi come da un lato la disponibilità ad una lesione

manu propria del bene vita, sia giuridicamente tollerata –

ancorché carica di disvalore sociale, secondo il Legislatore, che per mere ragioni di opportunità si astiene da sanzionarla- l’indisponibilità della vita nei confronti delle etero aggressioni e dunque l’inoperatività dell’art. 50 del codice penale al fine di elidere l’antigiuridicità insita nel fatto tipico dell’omicidio. Date queste premesse, occorre domandarci se in un ordinamento giuridico come quelle italiano, che sancisce l’indisponibilità e la sua tutela della vita umana possa trovare

spazio di riconoscimento un diritto a sottoporsi a forme eutanasiche pietatis causa nelle sue varie forme.

Si può premettere, fin da subito, come l’illiceità dell’eutanasia attiva nel nostro ordinamento sia evidente, dovendo ricondursi, in presenza di consenso del soggetto passivo, a seconda degli elementi entro cui si articola il fatto-reato tale forma entro l’alveo delle fattispecie di omicidio volontario (575 c.p.), omicidio del consenziente (579 c.p.), ovvero istigazione o aiuto al suicidio (580 c.p.).

Il discrimine tra omicidio del consenziente e il reato di istigazione o aiuto al suicidio, come emerge dal tenore letterale della sentenza della Cassazione Penale, Sez. I, 6 febbraio 1998, n. 3147 “va quindi più correttamente individuato nel

modo in cui viene ad atteggiarsi la condotta e la volontà della vittima in rapporto alla condotta del soggetto agente. Si avrà omicidio del consenziente nel caso in cui colui che provoca la morte si sostituisca in pratica all'aspirante suicida, pur se con il consenso di questi, assumendone in proprio l'iniziativa, oltre

che sul piano della causazione materiale, anche su quello della generica determinazione volitiva; mentre si avrà istigazione o agevolazione al suicidio tutte le volte in cui la vittima abbia conservato il dominio della propria azione, nonostante la presenza di una condotta estranea di determinazione o di aiuto alla realizzazione del suo proposito, e lo abbia realizzato, anche materialmente, di mano propria. Esempi di scuola: si ha omicidio del consenziente quando l'agente, con il consenso della vittima, esplode contro quest'ultima un colpo di pistola uccidendola, mentre si avrà agevolazione al suicidio se l'agente si limita a fornire alla vittima, su richiesta di quest'ultima e conoscendo l'uso che ne farà, l'arma che poi essa utilizzerà contro se stessa. O ancora, commette omicidio ex art. 579 c.p. l'infermiere che inietta al paziente, affetto a una malattia incurabile che gli provoca dolori atroci, con il di lui consenso, una dose mortale di veleno, mentre è responsabile di istigazione al suicidio lo stesso infermiere che, prendendo lo spunto dalle condizioni di

sofferenza del paziente, lo determini a porre fine alle sue sofferenze suicidandosi, o ne agevoli il proposito suicida, ponendogli a disposizione i mezzi per farlo”.

La distinzione tra omicidio e omicidio del consenziente, che possono coincidere in termini di condotta posta in essere al fine di cagionare la morte, risiede, invece, nell’assenza di consenso da parte del soggetto passivo, ovvero in presenza di un consenso che per le condizioni in cui versa la vittima debba essere ritenuto non valido: 1) contro una persona minore degli anni diciotto; 2) contro una persona inferma di mente, o che si trova in condizioni di deficienza psichica, per un'altra infermità o per l'abuso di sostanze alcooliche o stupefacenti; 3) contro una persona il cui consenso sia stato dal colpevole estorto con violenza minaccia o suggestione, ovvero carpito con inganno.

Nel tentativo di mitigare questa impostazione, in caso di eutanasia su soggetto consenziente, la dottrina ha elaborato alcune teorie che, tuttavia, non hanno trovato unanime

accoglimento in sede giurisprudenziale e paiono, pertanto, non percorribili; la possibilità di attribuire particolare rilievo al movente pietistico, correlato alla condotta di chi provoca la morte per determinarla fine delle sofferenze altrui, ai fini dell‘applicazione dell’attenuante generale dei motivi di particolare valore morale e sociale, ex art. 62 n. 1 del Codice Penale, non pare convincente in quanto tale attenuante sarebbe già ricompresa nell‘operatività dell‘art. 579 c.p. Alcuni autori18, hanno proposto l‘esclusione della punibilità per l’autore materiale del fatto, considerandolo incapace d’intendere o di volere al momento della esecuzione materiale, scaturente dallo stato emozionale o passionale del soggetto innanzi allo stato di afflizione in cui versa il soggetto; trattasi, tuttavia, a nostro avviso di posizione in netto contrasto con la lettera dell‘art. 90 c.p., per cui gli stati emotivi e passionali non escludono né diminuiscono l‘imputabilità.

18 M. Adamo, Il problema giuridico e medico-legale dell’eutanasia, Arch.

Differente impostazione deve tenersi in ordine al tema del rifiuto delle cure e dell’eutanasia passiva: verso discorso vale invece per il diritto a rifiutare le cure, ovvero la c.d. eutanasia passiva: pronunce di rilievo, a livello giurisprudenziale, hanno affrontato, difatti, il problema, affermandola netta e chiara distinzione tra l’eutanasia sensu strictu ed il rifiuto di terapie medicochirurgiche da parte del paziente, correttamente informato in ordine alle conseguenze della propria rinuncia, giungendo alla conclusione che “il rifiuto delle terapie

medico-chirurgiche, anche quando conduce alla morte, non può essere scambiato per un’ipotesi di eutanasia, ossia per un comportamento che intende abbreviare la vita, causando positivamente la morte, esprimendo piuttosto tale rifiuto un atteggiamento di scelta, da parte del malato, che la malattia segua il suo corso naturale” (Cassazione Civile, Sezione I

sentenza n. 21748 del 16/10/07). In altri termini, la scelta cosciente alla cessazione delle cure rappresenta un diritto del soggetto atteso che, se, da un lato, l’eutanasia debba

Nel documento Eutanasia: quid ni? (pagine 36-64)

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