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Eutanasia: quid ni?

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Anno accademico 2015/2016 CANDIDATO: RELATORE: dr A. Vergelli Chiar. mo Prof. M. A. Lombardi

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Come un’amarena sul fondo del barattolo, invischiato in una melassa troppo densa, NON dedico questa tesi a nessuno se non a Kronos, nella speranza che possa farmi dimenticare il tempo che, con troppa ingenuità, mi sono fatto estorcere con l’inganno.

Già questo sarebbe un sollievo...

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I

NTRODUZIONE

La valutazione della sola radice etimologica del termine eutanasia, composta dai lemmi greci εὔ (buona) e θάνατος

(morte), non permette di definire con sufficiente chiarezza il concetto sotteso al vocabolo in parola anche perché, esso, ha assunto significati profondamente differenti in relazione alle alterne vicende dell’umanità e al grado di consapevolezza sociale del valore della vita umana. A ciò si aggiunga che numerose sono le branche dello scibile o delle superstizioni umane – la medicina, il diritto, l’etica, la religione et c – che, convergendo e confrontandosi, talvolta anche duramente, nell’ambito di quel macroinsieme interdisciplinare definito bioetica, determinano lo spostamento, ora in un senso ora nell’altro, dei confini di liceità o illiceità in seno al concetto eutanasico.

Tale complessità di approccio e la vastità della dimensione pregiuridica, riflettono l’importanza del bene su cui si è

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chiamati ad esprimersi1; invero il tema ha per fulcro il bene che, in una visione antropocentrica, riveste o dovrebbe rivestire la massima importanza per l’uomo: la vita umana.

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E

XCURSUS STORICO

Un breve excursus storico permette di verificare, se non addirittura provare, come il termine “eutanasia” sia stato utilizzato e come sia mutato in relazione ai differenti contesti storici, religiosi e filosofici in cui esso è stato utilizzato.

Già nell’antichità classica il concetto eutanasico assumeva significati ben precisi quanto eterogenei; nelle sue prime accezioni l’eutanasia non prevedeva l’idea di morte attivamente e volontariamente procurata. Si noti, ad esempio, come Platone – che, pur considerato il più antico teorizzatore del concetto di ευθανασια, mai utilizzò questa parola – nel libro terzo de La Repubblica postula: “... «Pertanto stabilirai

per legge nella città una medicina e un'arte giudiziaria nelle forme che abbiamo descritto, in maniera che curino soltanto i cittadini validi nel corpo e nell'anima e, quanto agli altri, i medici lascino morire coloro che presentano difetti fisici, i giudici sopprimano coloro che sono guasti e incurabili

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nell'anima?» «Sì », rispose, «questa è la soluzione migliore per gli stessi sofferenti e per la città»...”. Pertanto Platone

affermava che, nell’ottica della costituzione di un Stato Ideale, i soggetti inadatti dovevano essere lasciati morire con la prospettiva utilitaristica di migliorare la specie ed alleviare il peso che tali individui costituivano per la società.

Un approccio di questa sorta, economico/eugenico, risultava essere piuttosto comune nel mondo antico: Varrone e Cicerone attestano quale uso comune nella Roma arcaica la depontazione degli ultrasessagenari, le popolazioni egiziane, greche e romane erano aduse ad esporre i neonati deformi e, talvolta, questa pratica derivava da veri e propri obblighi di legge come riportato da Plutarco in relazione agli interventi legislativi dettati da Licurgo2.

In netto contrasto con la prassi e la morale dei tempi, si poneva Ippocrate, quasi coevo a Platone, che nel suo celebre giuramento imponeva al medico di non somministrare “... ad

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alcuno, neppure se richiesto, un farmaco mortale... similmente a nessuna donna... un medicinale abortivo...” affermando,

quindi, la superiorità della vita umana in luogo della superiorità della comunità teorizzata dalla filosofia platonica3. Nell’Iliade Omero fa pronunciare ad Ettore, in procinto di affrontare Achille nell’ultimo e decisivo combattimento, le seguenti parole: “... Non fuggo più, figlio di Pèleo, da te io che

finora tre volte ho girato la rocca immensa di Priamo fuggendo l’assalto. Ora sento che devo affrontarti sia che vincere io possa o vinto cadere...” (Iliade, XXII, vv. 137-141)

ponendo così l’accento sulla eroicità e la nobiltà intrinseche all’estremo gesto di accettare una fine inevitabile. D’altro canto Svetonio, nel descrivere la morte di Augusto, indulge su come, questa, sia avvenuta secondo quanto desiderato dal primo Imperatore romano; una morte non violenta, accompagnata dall’affetto delle persone amate. A differenza di

3 G. Lucchetti, D. Masini, F. Mattioli, Spunti per un’indagine

sull’eutanasia nel mondo antico, in Eutanasia e diritto. Confronto tra discipline, Torino, 2003

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quanto derivabile dalla lettura dell’Iliade, dove a prevalere è il concetto di “buona morte” correlato alla morte eroica, allo stoicismo con il quale ci si avvia al termine della vita, nel caso del biografo di Ottaviano l’astrazione del termine eutanasia assume una connotazione intimistica, più prossima alla concezione di “dolce morte” o “morir bene” che si accosta maggiormente al pensiero attuale e che fornirà lo spunto alla creazione della concettualizzazione baconiana 4. Di poco posteriore rispetto agli avvenimenti riguardanti Gaio Giulio Cesare Ottaviano Augusto, è il pensiero del filosofo stoico Seneca, forse il massimo teorizzatore del suicidio nell’antichità, scrivendo a Lucilio affermava: “... Non so se ci

infonda più coraggio chi implora la morte o chi l’aspetta lieto e tranquillo: il desiderio dei primi nasce talvolta da furore o da sdegno improvviso, mentre questa tranquillità deriva da un ben ponderato giudizio. Qualcuno va incontro alla morte pieno d'ira: accoglie lieto l’arrivo della morte solo chi vi si è

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preparato a lungo...” (Seneca, Lettere a Lucilio, 30.)Il nucleo

del pensiero di Seneca va ricercato nell’affermazione, da parte del filosofo, della libertà dell’uomo di preferire, e dunque scegliere, la conclusione della propria vita non già basandosi su motivazioni egoistiche, bensì fondandola sulle indicazioni che il destino fornisce all’ “uomo saggio” per il quale la vita o la morte risultino indifferenti dandogli la libertà di allontanarsi dall’esistenza con dignità. Nel caso di specie appare immediatamente lampante il parametro soggettivo di scelta tra vita e morte in netta contrapposizione con il pensiero platonico ove la rotta soggiaceva a necessità oggettive.

Il concetto di eutanasia con finalità altruistiche risulta relativamente più recente e la sua genesi è da correlare al riconoscimento del valore della vita umana avvenuto in ambito ebraico-cristiano nel corso del medioevo. A tale periodo risalgono le prime teorizzazioni, ex multis rinvenibili nel pensiero di Sant’Agostino d’Ippona, sul V comandamento biblico, “... non uccidere...”, interpretato per estensione anche

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contro il suicidio (Sant’Agostino, De civitate Dei). Dunque l’uomo non poteva fruire della libertà di scelta su un bene a lui indisponibile, la vita, e sul quale ogni genere di azione, ivi ricompresa anche la morte, era prerogativa della divinità. Ma, in netta contrapposizione con il pensiero prevalente, proprio a quel periodo risale la pratica, da parte delle élite cavalleresche, di impiegare un pugnale, non a caso detto “misericordia”, per infliggere il colpo di grazia al compagno d’armi agonizzante5 Sebbene nel XVI secolo Tommaso Moro nell’Utopia sembrerebbe ammettere sia l’eutanasia “pietosa” sia quella “eugenico-economica”, è con Francesco Bacone che, per la prima volta, il termine eutanasia viene utilizzato non più nell’accezione di morte senza sofferenza seppur naturale, bensì con il significato che più si avvicina alla corrente concezione generale. Bacone teorizza la “buona morte” quale atto altruistico rivolto verso il soggetto affetto da patologia incurabile e dolorosa sostanziato in un atto terapeutico

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indolore appannaggio del medico individuato nel De Digitate

et augmentis scientiarium con il termine eutanasia exterior.

Poiché Bacone non indicava quali fossero questi cosiddetti “atti terapeutici”, tale soggetto divenne l’argomento attorno al quale ruotarono i dibattiti dei secoli XVIII-XIX.

Bisognerà attendere la fine del ‘800 perché si cominci ad introdurre il concetto di volontà del paziente di anteporre la liberazione dalle sofferenze al bene indisponibile della vita6. In Italia, durante la stesura del Codice Zanardelli – nel quale si prevedeva di non punire nessuna forma di suicidio, né consumato né tentato, ma si presentiva la punibilità dell’istigazione o dell’aiuto al suicidio e l’applicazione della disciplina dell’omicidio in relazione all’uccisione di consenziente – il Prof. E. Ferri, giurista positivista della scuola lombrosiana, elaborava e divulgava una teoria sul diritto a morire contrapposta alla allora accettata teoria cristiana della indisponibilità della vita. Egli scriveva: “Pare a me, che il

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diritto alla vita sia rinunciabile o abdicabile, per parte di colui che ne è il soggetto, e che l’uomo, cioè, come ha diritto di vivere così abbia il diritto di morire. [...] Che il suicidio sia un’azione immorale od un atto irreligioso è questione che non tocca la sociologia giuridica, la quale studia i fatti umani nel solo aspetto giuridico e sociale. Ed allora, io ripeto che l’uomo ha diritto di disporre della sua vita”7. Degna di nota

pare una delle argomentazioni del Ferri secondo la quale, se il diritto alla vita è in taluni casi annullabile (pena capitale, legittima difesa, stato di necessità), non si capirebbe per quale motivo il titolare di tale diritto non possa rinunciarvi. Inoltre il celebre positivista sottolineava come chi uccide un terzo dietro suo consenso non è giuridicamente responsabile solo se, oltre all’ovvio già citato consenso, è determinato all’azione da motivi legittimi (pietà, affetto, solidarietà umana), morali e sociali.8

Nonostante le profuse critiche alla teoria ferriana, questa

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apriva una breccia tale per cui la giurisprudenza veniva a dar ragione al Ferri nelle interpretazioni del Codice Zanardelli. Nulla cambiò, sostanzialmente, anche con il varo del successivo Codice Rocco, tutt’ora in vigore.

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D

EFINIZIONE E CLASSIFICAZIONE

Nonostante la percezione comune connessa all’utilizzo del termine eutanasia “pietosa” – oggetto della presente trattazione –in campo bioetico sia sufficientemente unitaria da avere un efficace valore comunicativo, risulta essere molto più complesso razionalizzare ed inquadrare il fenomeno da un punto di vista scientifico.

A riprova di quanto ut supra affermato, può farsi riferimento ad alcune definizioni utilizzate in campo internazionale:

- BELGIO: atto praticato da un terzo che pone fine intenzionalmente alla vita di una persona su richiesta di questa (Parere n.1 del Comitato consultivo di bioetica

sull’opportunità di una regolamentazione giuridica dell’eutanasia);

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intenzional-mente la morte di un’altra persona per porre fine alle sue sofferenze (Comitato speciale del Senato canadese

sull’eutanasia e l’assistenza al suicidio, Sulla vita e sulla morte. Rapporto finale, 1995);

- DANIMARCA: assistenza medica per abbreviare una vita di insopportabili sofferenze (Comitato danese di etica,

Eutanasia. Sintesi di un rapporto da utilizzare nel pubblico dibattito, 1996);

- FRANCIA: atto di un terzo che pone termine deliberatamente alla vita di una persona nell’intento di mettere fine a una situazione ritenuta insopportabile (Comitato consultivo nazionale francese di etica, 27

gennaio 2000);

- LUSSEMBURGO: atto consistente nel provocare delibera-tamente la morte di un malato, di una persona portatrice di handicap o un neonato affetto da gravi malformazioni; atto che può essere compiuto su esplicita domanda dell’interessato, senza sua domanda

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esplicita o anche contro la sua volontà. Il ventaglio delle motivazioni dell’atto eutanasico può essere piuttosto ampio: si va dal rispetto dell’autonomia del malato, o della persona portatrice di handicap, alla pietà fino a giungere – come è ben noto – a motivazioni di carattere eugenetico (Commissione consultiva nazionale di etica

per le scienze della vita e della salute, Parere n.1. Il suicidio e l’eutanasia, 1998);

- OLANDA: atto di porre fine intenzionalmente all’esistenza di un malato su esplicita richiesta del malato stesso (van Delden, 1993);

- PORTOGALLO: morte intenzionale di un malato procurata da chiunque, segnatamente su decisione medica, anche se si è agito dietro richiesta e/o per compassione (Consiglio nazionale di etica per le scienze della vita,

Parere sugli aspetti etici delle prestazioni curative inerenti alla fine della vita, 1995).

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comune, le precedenti definizioni differiscano considerevol-mente; inoltre è notevole rilevare come risulti quasi del tutto assente il riferimento alla volontà del malato.

Allo scopo di ottenere una migliore definizione di eutanasia, quindi, pare utile citare quella proposta da T. L. Buchamp e A. Davidson9 :

“... si considererà la morte di un essere umano come un caso di eutanasia se e solamente se:

1. la morte del soggetto A è voluta da un altro essere umano B; quest’ultimo è sia la causa della morte di A, sia un elemento causalmente pertinente dell’evento che conduce alla morte di A (per azione od omissione);

2. B dispone, in misura sufficiente, di elementi che lo inducono a credere che A stia subendo intense sofferenze o si trovi in stato di coma irreversibile;

9 T.L. Buchamp, A. Davidson, The definition of euthanasia, in The

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oppure B dispone, in misura sufficiente, di elementi relativi alla condizione di A, per cui la convinzione di che A si troverà in una condizione di intensa sofferenza o di coma irreversibile risulta fondata su una o più leggi causali attestate;

3. la ragione principale per cui B vuole la morte di A è la cessazione delle sofferenze di A (presenti o future, ma previste) o del suo stato di coma irreversibile; possono esistere altre ragioni pertinenti, ma non vi è un’altra ragione principale per cui B voglia la morte di A;

4. A e/o B dispongono, in misura sufficiente, di elementi che li inducono a credere che le procedure che causeranno la morte di A non saranno all’origine di sofferenze maggiori di quelle che angustierebbero A se B non intervenisse;

5. fra le procedure che causeranno la morte di A, A e/o B scelgono quelle che comporteranno la minore

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sofferenza possibile, salvo che A e/o B abbiano una ragione cogente per scegliere una procedura che comporterebbe una sofferenza maggiore. La ragione che induce a scegliere tale procedura non deve entrare in conflitto con gli elementi indicati in 4; 6. A non è un organismo fetale...”

Pur considerando la predetta definizione sufficientemente generale, e quindi pertinente ai fini della presente, per circoscrivere l’ambito di indagine all’eutanasia pietosa, sussistono complesse problematiche relative alle possibili sub-divisioni di tale concetto emergenti dall’osservazione della realtà.

In primo luogo è da considerarsi fondamentale la volontà del soggetto passivo (malato), sia essa presunta o esplicita.

Secondo elemento rilevante e lo studio della modalità di interazione fra soggetto passivo ed il soggetto attivo: in tale contesto potranno quindi essere riconosciute forme di

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eutanasia passiva o negativa qualora il soggetto attivo, astenendosi da un’azione, determini la morte del soggetto passivo o, al contrario, forme di eutanasia attiva o positiva qualora il soggetto attivo, ponendo in essere una azione, determini la morte del soggetto passivo.

Terzo aspetto degno di nota risulta dalla valutazione del problema relativo alla considerazione dell’evento morte quale conseguenza più o meno diretta dell’azione o omissione dalle quali derivi la morte. Tali osservazioni scaturiscono da risvolti pratici; si definirà diretta l’eutanasia nella quale l’exitus sia secondario ad un evento, come la somministrazione di sostanze tossiche, in grado di determinare la morte. Si definirà, invece, indiretta quella forma di eutanasia nella quale il decesso sia attribuibile ad un evento, quale ad esempio l’impiego di mezzi atti ad alleviare le sofferenze, che non abbia quale obiettivo principe quello di determinare il decesso del soggetto passivo ma che sia gravato da effetti avversi

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Per quanto detto, posta per certa la volontarietà dell’atto, è ora possibile proporre una classificazione come di seguito:

- eutanasia passiva volontaria esplicita diretta: è il caso del paziente che richieda al medico di sospendere le terapie in atto derivandone la morte, che si sarebbe potuta evitare, con la certezza di effetti avversi di natura sociale e psicofisica tali da essere ritenuti inaccettabili dal soggetto passivo (caso Welby);

- eutanasia passiva volontaria esplicita indiretta: è il caso del paziente che richieda al medico di sospendere le terapie in atto derivandone la morte che però, in questo caso, sarebbe comunque sopraggiunta in un breve arco temporale ma con sofferenze ritenute inaccettabili dal paziente;

- eutanasia passiva volontaria presunta diretta: condizione sovrapponibile al primo caso (eutanasia passiva volontaria esplicita diretta) con la sola differenza che in questa circostanza il paziente non è in grado di

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esplicitare le proprie volontà, ad esempio a causa di uno stato vegetativo, che però erano state precedentemente espresse (caso Englaro);

- eutanasia passiva volontaria presunta indiretta: è il caso nel quale i sanitari evitano di porre in atto terapie determinanti un prolungamento della vita non rilevante in ossequio alle volontà precedentemente espresse dal paziente;

- eutanasia attiva volontaria esplicita diretta: è il caso in cui il paziente richieda al soggetto attivo di porre in essere un azione dalla quale derivi la morte del richiedente (es: tetraplegico non in grado di agire autonomamente);

- eutanasia attiva volontaria esplicita indiretta: è il caso del soggetto passivo che richieda un intervento, ad esempio la somministrazione di farmaci, in grado di abbreviare la vita del paziente ma, presumibilmente, evitando allo stesso prevedibili maggiori sofferenze;

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- eutanasia attiva volontaria presunta diretta: caso di minore rilievo pratico poiché lo stato di incoscienza associato ad una precedente manifestazione di volontà positiva in relazione all’eutanasia, risolve in procedure di omissione.

- eutanasia attiva volontaria presunta indiretta: si veda il precedente.

Lungi dall’essere la migliore possibile, la classificazione ut

supra proposta ha il vantaggio di fornire una visione quanto

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A

PPROCCIO EUROPEO IN TEMA DI EUTANASIA

Il 25 giugno 1999 l’Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa adottava la Raccomandazione 1418, concernente la salvaguardia dei diritti umani e la dignità dei malati incurabili e dei morenti, con la seguente premessa: “La vocazione del

Consiglio d’Europa è di salvaguardare la dignità degli esseri umani e i diritti che ne discendono”.

Utile risulta sottolineare che il richiamo alla dignità umana nulla aggiunge o chiarisce poiché sia i soggetti contrari sia quelli favorevoli all’eutanasia basano i proprii convincimenti esattamente sul concetto di dignità umana.

A chiarire l’orientamento dell’Assemblea interviene la Relatrice con le seguenti parole: “Le richieste di eutanasia o

di ‘suicidio assistito’ rientrano tra le aspirazioni illegittime rivolte agli operatori sanitari, che non devono essere esaudite

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perché violano le norme di comportamento professionale basate sull’etica”.

Dunque l’Assemblea, pur riconoscendo con chiarezza all’autodeterminazione dell’Uomo, prende posizione netta-mente contraria nei confronti dell’eutanasia sviando l’attenzione verso l’importanza delle cure palliative ed il corretto accompagnamento del malato verso la morte. Del pari riconosce al paziente la facoltà di redigere istruzioni ostative rispetto a determinati trattamenti purché questa volontà non risulti in contrasto con la dignità dello stesso. Dignità, però, posta entro limiti codificati dalla protervia della politica che, nel suo millenario ruolo di mediatrice, continua a scarseggiare in quanto a logica; che configura la vita quale bene indisponibile da parte del titolare stesso del diritto ma che, sovente, tramuta in bene disponibile da parte dello Stato. Già poco sopra si accennava al particolare accento posto sulle cure palliative nonostante queste possano avere come “effetto

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secondario quello di contribuire ad abbreviare la vita della persona”. Per quanto detto a proposito della possibile

classificazione del fenomeno eutanasico pare immediatamente lampante come, l’utilizzo di mezzi che possano determinare la riduzione del delta di sopravvivenza configuri una forma particolare di eutanasia, l’eutanasia indiretta. È pur vero che i più eccepiranno che l’intento principale è quello di alleviare le sofferenze. Ciò non toglie che chi pone in essere un tale comportamento è cosciente degli effetti negativi sul tempo di sopravvivenza. Quindi: qual è il nucleo della questione? Il nucleo è forse l’interpretazione che il soggetto attivo dà di un suo comportamento nonostante questo sfoci in un risultato del tutto identico al comportamento che detto soggetto vorrebbe, in via teorica, evitare?

Osservato il quadro proposto dalla politica europea a proposito dell’oggetto della presente, pare del tutto lecito l’appunto

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mosso da Donald Dworkin10 secondo cui un’impostazione di tal fatta – incentrata sull’importanza delle cure palliative anche se gravate da riduzione del tempo di sopravvivenza in netta opposizione all’eutanasia – potrebbe mettere in pericolo la volontà e la vita dei pazienti terminali, in particolar modo di quelli meno abbienti, poiché ciò comporterebbe il“...

raccomandare la morfina in dosi potenzialmente letali allo scopo dichiarato di alleviare il dolore e senza alcuno specifico codice di regolamentazione...” piuttosto che impostare un “... programma di suicidio assistito strettamente regolamentato, con piena informazione e consenso informato da parte dei malati che chiedono assistenza...”. In sintesi Dworkin pare

evidenziare la malcelata ipocrisia che può essere sottesa ad un’enfasi così pronunciata posta sulle cure palliative, proposte non come una delle possibili articolazioni delle ultime fasi di vita ma come tecnica integralmente sostitutiva dell’eutanasia. A quanto osservato deve aggiungersi una ulteriore

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contraddizione. La Raccomandazione afferma la non adeguatezza del c.d. accanimento terapeutico ma, di contro, sancisce la necessità di evitare la “continuazione dei

trattamenti senza il consenso del paziente” richiamando gli

Stati Membri a provvedere tramite leggi nazionali così da evitare il prolungamento delle fase terminale di vita o per dirla con parole diverse, prospettando, senza mai citarla, la possibilità di una eutanasia passiva volontaria.

Il risultato è stato, come facilmente si poteva presupporre, che gli Stati Membri hanno adottato misure legislative che si discostano considerevolmente dalla Raccomandazione 1418. Successivamente il Consiglio Europeo affrontava nuovamente ed in più occasioni la questione: nel 2000 veniva sottolineata la complessità dell’argomento e, contestualmente, si rilevava l’esistenza di legislazioni contrastanti tra i vari Stati Membri; nel 2002 il Comitato dei Ministri, allineandosi con le posizioni dell’Assemblea, confermava il “divieto assoluto di porre

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intenzionalmente fine alla vita dei malati incurabili e dei morenti” poiché “il desiderio di morire espresso da un malato incurabile e da un morente non può valere in sé come giustificazione legale per l’esecuzione di azioni destinate a comportare la morte”.

Sulla scorta di quanto sancito dall’Assemblea, la Corte di Strasburgo si pronunciava sul caso Diane Pretty – malata terminale richiedente la possibilità di morire – come di seguito: “... l’articolo 2 [della Convenzione Europea, ndr]

non potrebbe interpretarsi, salvo distorsioni linguistiche, come conferente un diritto diametralmente opposto, vale a dire il diritto di morire; e neppure potrebbe dare vita al diritto di autodeterminazione, nel senso che darebbe all’individuo il diritto di scegliere la morte invece della vita. La Corte ritiene perciò che non è possibile dedurre dall’articolo 2 della Convenzione il diritto di morire, che sia per mano di terzi o con l’assistenza di una pubblica autorità”.

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Ciononostante i legislatori olandesi e belgi approdavano a, come noto, differente interpretazione. In entrambe i Paesi, a seguito di matura riflessione e piena informazione, da parte del personale sanitario, concernente il suo stato di salute, il paziente può formulare richiesta legale di eutanasia. Naturalmente occorre che sussistano taluni requisiti fondamentali quali l’insopportabile sofferenza, la presumibile impossibilità di miglioramento dello stato di salute e il consenso di un medico. A questo punto, un secondo medico non direttamente coinvolto nella storia clinica del paziente e comunque indipendente, dovrà convalidare o meno l’ipotesi prognostica. In detti Paesi è inoltre possibile formulare preventivamente richieste relative al fine vita onde evitare l’eventuale limitazione nell’espressione della volontà da parte di pazienti il cui stadio di malattia non lo permettesse.

Riallacciandoci a quanto appena esposto è interessante notare come l’articolo 9 della Convenzione sui diritti umani e la

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biomedicina 11 disponga che le volontà precedentemente esposte da un soggetto in tema di fine vita debbano essere prese in considerazione nel decidere se un individuo, non più in grado di esprimere il proprio consenso, possa o meno essere sottoposto ad un determinato intervento. Come evidente la possibilità di prendere in considerazione le volontà precedentemente esposte non coincide con l’attribuzione di carattere giuridicamente rilevante delle stesse. Nonostante ciò, circa un quarto degli Stati membri ha emanato normative volte a rendere giuridicamente vincolanti, seppur in casi ben determinati, le direttive anticipate del paziente.

Successivo (2004) atto europeo rilevante in materia di eutanasia risultava essere il Rapporto Marty 12 titolato

“Assistenza ai pazienti alla fine della vita”. Tale documento,

11 http://www.coe.int/t/e/legal_affairs/legal_cooperation/bioethics/texts_a

nd_documents/ETS164_Italian.pdf]

12 Marthy D. Raccomandazione 1418- La posizione del Consiglio

d’Europa. In: L’eutanasia- Diritto e prassi in Italia, Europa e Stati Uniti, Sapere 2000 ed., 2004

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però, non possedeva finalità attuative bensì veniva stilato solo a titolo di sprone affinché gli Stati Membri prendessero coscienza della vastità e della complessità dell’argomento e lo affrontassero nelle dovute sedi onde pervenire ad una regolamentazione. Il Rapporto denunciava, inoltre, forme di eutanasia praticate in assenza di apposita legislazione e ne denunciava una portata ben più imponente rispetto a quanto precedentemente creduto, palesando il rilevante contrasto tra la pratica reale ed i sistemi legali degli Stati, fatto, questo, contrario agli elementari principi di democrazia ed al ruolo della Legge.

Il Rapporto Marty veniva respinto dal Consiglio d’Europa con 138 voti contrari, 26 favorevoli e 5 astenuti.

Allo stato attuale le legislazioni concernenti tematiche connesse più o meno strettamente al tema dell’eutanasia differiscono considerevolmente tra i diversi Stati Membri; si possono individuare i seguenti orientamenti:

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- Olanda: legali dal 2001 eutanasia e suicidio assistito; - Belgio: l’eutanasia è stata legalizzata dal Parlamento nel

2002 ed estesa ai minori dal 2014; - Svizzera: legale il suicidio assistito; - Finlandia: è legale l’eutanasia passiva;

- Svezia: legale l’eutanasia passiva dal 2010, tollerato il suicidio assistito, illegale l’eutanasia attiva;

- Spagna: ammessi dal 2005 eutanasia passiva e suicidio assistito;

- Francia: introdotta nel 2015 una normativa che, pur non prevedendo esplicitamente la legalizzazione dell’eutanasia, permette l’interruzione delle terapie

“salvavita” previa induzione di sedazione profonda;

- Lussemburgo: nel 2008 l’eutanasia è stata depenalizzata;

- Norvegia: l’eutanasia risulta illegale ma la pena è ridotta se dimostrati elementi caritatevoli;

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assistito

- Ungheria: l’eutanasia passiva è consentita; - Portogallo: illegale qualsiasi forma di eutanasia;

- Regno Unito: qualsiasi forma di eutanasia è illegale su tutto il territorio;

- Irlanda: qualsiasi contributo alla morte di un soggetto viene considerata illegale;

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A

PPROCCIO ITALIANO IN TEMA DI EUTANASIA

L’ordinamento normativo italiano attuale si caratterizza per una evidente lacuna legislativa in ordine al tema del fine vita e del rifiuto alle cure, costringendo, da un lato, la dottrina, dall’altro, la giurisprudenza, di merito e di legittimità, a una riflessione finalizzata a delinearne i connotati giuridici, fondando, necessariamente, il ragionamento sui principi esposti dalla Carta Costituzionale, con la disamina, in particolare, di quel diritto soggettivo della personalità, rappresentato dalla vita umana.

Il diritto alla vita, più in dettaglio, rientra nel novero dei diritti inviolabili dell’uomo (sentenza Corte Costituzionale 54/1979 e 223/1996), appartenendo così “all’essenza dei valori supremi

sui quali si fonda la Costituzione italiana” (Corte

Costituzionale n. 1146/1988), che appaiono meritevoli di tutela ai sensi dell’art. 2 della Costituzione: “La Repubblica

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riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”.

Identica salvaguardia a tale connotato è garantita dalla legislazione ordinaria che recepisce normative di tenore sovranazionale, quali la legge 4/8/1955, n. 848, con cui fu ratificata e resa esecutiva la “Convenzione europea per la

salvaguardia dei diritti dell’uomo e le libertà fondamentali”,

con la previsione che “il diritto alla vita di ogni persona è

protetto dalla legge. Nessuno può essere intenzionalmente privato della vita, salvo che in esecuzione di una sentenza capitale pronunciata da un Tribunale, nei casi in cui il delitto sia punito dalla legge con tale pena” (art. 2 comma 1), e la

legge 25/10/1977, n. 881, che ratifica e rende esecutivo il

“Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici”, in cui

si prevede che “il diritto alla vita è inerente alla persona

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Nessuno può essere arbitrariamente privato della vita” (art. 6

comma 1).Ulteriori fondamenti, di indole sovranazionale, a sostegno di tale impostazione sono rinvenibili nella

“Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo” in cui si

proclama che “ogni individuo ha diritto alla vita”, nella risoluzione del Parlamento Europeo del 12/4/1989, relativa alla Dichiarazione CEE dei diritti e delle libertà fondamentali, secondo cui “chiunque ha il diritto alla vita” e nella “Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea” , ove si prevede, all’art. 2, che “Ogni individuo ha diritto alla vita”.

Improntate ad una analoga difesa del bene vita nell’ambito del Codice Penale, sono da una parte gli articoli 575 (omicidio), 579 (omicidio del consenziente) 580 (istigazione o aiuto al suicidio) e 584 (omicidio preterintenzionale) che sanzionano qualsiasi condotta che ne leda la integrità e dall’altra l’art. 583 (omissione di soccorso) che impone ai consociati un dovere positivo di salvaguardia dello stesso.

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Volendo vagliare adesso i dispositivi penali che salvaguardano la vita umana, occorre premettere che l’omicidio può essere definito, seguendo una nota descrizione del celebre docente di diritto criminale dell’Università di Pisa, Giovanni Carmignani, come “hominis caedes ab homine iniuste patrata13”, ovvero

l’uccisione di un uomo, con dolo o colpa, cagionata, ingiustamente (cioè in assenza di cause di giustificazione14), da un altro uomo.

L’omicidio doloso è disciplinato all’art 575 c.p. alla rubrica “Omicidio”: “Chiunque cagiona la morte di un uomo è punito

con la reclusione non inferiore ad anni ventuno”.

L’elemento psicologico di tale fattispecie consiste, dal tenore letterale dell’articolo in premessa, l’intenzione di cagionare la morte altrui, come conseguenza, voluta e prevista della propria condotta: in mancanza di circostanze che evidenzino ictu oculi l'animus necandi, la valutazione dell'esistenza del dolo può essere raggiunta attraverso un procedimento logico di

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deduzione da altri fatti accertabili, quali i mezzi usati, la direzione e l'intensità dei colpi, la distanza del bersaglio, la parte del corpo attinta, le situazioni di tempo e di luogo che favoriscano l'azione cruenta.

L’omicidio è un reato a forma libera, potendo essere consumato sia con una condotta attiva che con una condotta omissiva (qualora, in capo al soggetto sussista il dovere giuridico di impedire tale evento) che cagioni l’evento “morte” di un uomo.

E’ da ricordare che la nozione di uomo, in ambito penale, ricomprende anche il feto durante il parto, a partire, cioè dal distacco di quest’ultimo dall’utero materno, ancor prima della nascita vera e propria, rappresentata dalla fuoriuscita del prodotto del concepimento dall’alveo materno e l’inizio della respirazione autonoma.

Perché sussista omicidio, sarà dunque necessario che il soggetto passivo sia in vita, in assenza della quale il reato

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sarebbe impossibile, ex art. 4915, ma non occorre che sia vitale, ovvero abbia l’attitudine alla vita, configurandosi, dunque, il delitto di omicidio anche nel caso di uccisione di una persona

in limine vitae o agonizzante.

La legge penale prevede delle circostanze aggravanti per l’omicidio, le quali possono essere suddivise in comuni (in altri termini, riguardano anche altri delitti) e speciali (ovvero specifiche).

Per le prime, ex art. 61 c.p. si rimanda a quanto supra espresso.

Ricorrono le aggravanti speciali, come previsto dal combinato disposto degli articoli 576 e 577, per cui verrà applicata la pena dell’ergastolo, se l’omicidio è commesso:

- Contro l’ascendente o il discendente, in caso di motivi abietti o futili, ovvero avendo adoperato sevizie o agito con crudeltà verso le persone, ovvero quando è

15Art. 49 c.p. Reato supposto erroneamente e reato impossibile “…La

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adoperato contro di essi un mezzo venefico o un altro mezzo insidioso o quando vi è premeditazione (c.d. parricidio aggravato);

- Dal latitante per sottrarsi all’arresto, alla cattura o alla carcerazione, ovvero per procurarsi i mezzi di sussistenza durante la latitanza (la dottrina non pare concorde nell’applicazione di tale aggravante in caso di evaso);

- Dall’associato per delinquere per sottrarsi all’arresto, alla cattura o alla carcerazione;

- In occasione di taluno dei seguenti delitti: maltrattamenti contro familiari o conviventi, prostituzione minorile, pornografia minorile, violenza sessuale, atti sessuali con minorenne e violenza sessuale di gruppo;

- Dall’autore del delitto di atti persecutori, nei confronti della stessa persona offesa;

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- Contro un ufficiale o agente di polizia giudiziaria, ovvero un ufficiale o agente di pubblica sicurezza, nell’atto o a causa dell’adempimento delle funzioni o del servizio;

- Contro l’ascendente o il discendente (c.d. parricidio semplice)16;

- Col mezzo di sostanze venefiche , ovvero con un latro mezzo insidioso;

- Con premeditazione (si veda, per tale fattispecie, supra); - Per motivi abietti o futili;

- Con sevizie o con crudeltà verso le persone.

Per mezzo venefico si intende qualsiasi sostanza idonea a provocare la morte di una persona attraverso un’azione tossica, mentre per insidiosi (nel novero dei quali si enumerano i mezzi venefici), quei mezzi che comportano un pericolo nascosto, tale da sorprendere, traendola in inganno. la vittima

16 La legge distingueva il parricidio semplice da quello aggravato,

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impedendole qualsiasi difesa (come ad esempio, la corrente elettrica, radiazioni, agenti patogeni et c.)

Se l’omicidio è commesso contro il coniuge, il fratello o la sorella, il padre o la madre adottivi, il figlio adottivo o contro un affine17in linea retta, la pena è da ventiquattro a trenta anni. Esistono infine circostanze attenuanti comuni (previste dall’art. 62) e generiche (art. 62 bis).

Omicidio preterintenzionale

Tale fattispecie delittuosa è prevista dall’art. 584 del c.p., in base al quale, “Chiunque, con atti diretti a commettere uno dei

delitti preveduti dagli articoli 581 e 582, cagiona la morte di un uomo, è punito con la reclusione da dieci a diciotto anni”.

L’omicidio preterintenzionale, dunque, si configura allorquando si verifichi la morte dell’individuo quale diretta conseguenza di atti diretti a commettere il delitto di percosse o di lesioni personali (dolose) di cui agli artt. 581 e 582 c.p.

17 L’affinità è il rapporto giuridico che intercorre tra il coniuge e i parenti

dell’altro coniuge, con equiparazione del grado di affinità con quello di parentela.

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Trattasi, pertanto, di un reato di evento, che si perfeziona, perciò, con l’avverarsi della morte che non è voluta dal soggetto attivo, la cui condotta è caratterizzata dagli “atti

diretti”, dolosamente, a percuotere o a ledere.

Ai fini della sussistenza del reato, pertanto, è sufficiente che dalla condotta, attiva o omissiva, diretta intenzionalmente a commettere il delitto di percosse o lesioni, derivi la morte, seppur non effettivamente voluta o perseguita, quale conseguenza della stessa condotta.

Non occorre, dunque, che la volontà dell’agente “di

percuotere o di ledere abbia avuto il suo esito materiale, essendo sufficiente che l’autore dell’aggressione abbia commesso atti diretti e percuotere o a ledere, incluso quindi anche il tentativo [di percosse o di lesioni personali]”

(Cassazione n. 6403/1990), e “l’ipotesi di cui all’art. 584 c.p.

non è legata neppure al presupposto di un tipico tentativo di percosse o di lesioni, poiché nella formula ‘atti diretti a commettere uno dei delitti previsti dagli artt. 581 e 582 c.p.’

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deve ritenersi compreso anche un semplice comportamento minaccioso ed aggressivo, sempre che sia tendente a ledere o a percuotere” (Cass. n. 6403/1990).

L’elemento soggettivo del reato è la “preterintenzione”, ossia la condotta volontaria del soggetto agente di realizzare un dato evento, dalla quale deriva un evento più grave di quello voluto. Sull’elemento psicologico dell’omicidio preterintenzionale, peraltro, la giurisprudenza non è unanime: secondo un orientamento, si tratterebbe di un dolo misto a responsabilità oggettiva: il primo sarebbe ravvisabile nel delitto di base, costituito dalle percosse o dalle lesioni, la seconda, invece, sarebbe attribuita all’agente per l’evento letale, non voluto, sulla base del mero nesso di causalità che collega tale evento ulteriore al delitto originario, “prescindendosi da ogni

indagine di volontarietà, di colpa o di prevedibilità dell'evento più grave” (Cass. n. 10134/1982).

Secondo una diversa interpretazione, invece, l’elemento soggettivo richiesto per la configurazione del reato andrebbe

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individuato nel dolo, per il reato di percosse o lesioni, misto alla colpa, per l’evento ulteriore non voluto dal soggetto agente, il quale intende porre in essere una condotta volta a percuotere o a ledere il soggetto passivo, ma ottiene, per colpa, la morte della stessa. (Cass. n. 9294/1983; n. 10994/1981). Secondo un terzo orientamento, l’omicidio preterintenzionale

“deve ritenersi caratterizzato, quanto all’elemento psico-logico, non dalla coesistenza di dolo e colpa, ma dalla sola presenza del dolo, costituito dalla coscienza e volontà di attentare all’incolumità del soggetto passivo mediante percosse o lesioni; nel che resta assorbita la prevedibilità dell’evento omogeneo più grave costituito dalla morte” (Cass.

n. 50557/2013; n. 27161/2013; n. 35582/2012; n. 13673/2006). Ricorrerà, invece, l’ipotesi dell’omicidio doloso, se il soggetto attivo abbia agito con dolo alternativo, ovvero con la volontà di procurare lesioni personali o di uccidere indifferentemente. Secondo l’art. 585 c.p., la pena prevista per il reato di omicidio preterintenzionale è aumentata, quando concorre una delle

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circostanze aggravanti speciali dell’omicidio doloso, previste,

ut supra ricordato, dall’art. 576 c.p., e dall’art. 577 c.p. , “ovvero se il fatto viene commesso con delle armi o con sostanze corrosive, ovvero da persona travisata o da più persone riunite”.

Il delitto di omicidio per colpa è normato all’art. 589 del c.p. che espressamente recita: “Chiunque cagiona per colpa la

morte di una persona è punito con la reclusione da sei mesi a cinque anni.

Se il fatto è commesso con violazione delle norme sulla disciplina della circolazione stradale o di quelle per la prevenzione degli infortuni sul lavoro la pena è della reclusione da uno a cinque anni.

Nel caso di morte di più persone, ovvero di morte di una o più persone e di lesioni di una o più persone, si applica la pena che dovrebbe infliggersi per la più grave delle violazioni commesse aumentata fino al triplo, ma la pena non può superare gli anni dodici.”

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L’omicidio colposo consiste, pertanto, nel causare per colpa (ovvero per imperizia, imprudenza, negligenza ovvero per inosservanza di leggi, ordini, regolamenti o discipline) la morte di una persona.

Non vi sono, peraltro, dubbi che la vita sia tutelata non solo a partire dalla nascita, ma anche durante la vita uterina, quando il feto non è dotato di vita autonoma, come si evince dal combinato disposto dell’art 1 della legge 22/5/1978 e articolo aborto.

In altre parole, la vita, per il nostro ordinamento è un bene indisponibile di cui il titolare non può disporre al fine di elidere l’antigiuridicità del fatto tipico di omicidio.

Imprescindibile, appare, in tema di eutanasia il riferimento agli artt. della Costituzione italiana 13, che recita testualmente:

“La libertà personale è inviolabile. Non è ammessa forma alcuna di detenzione, di ispezione o perquisizione personale, né qualsiasi altra restrizione della libertà personale, se non

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modi previsti dalla legge. In casi eccezionali di necessità ed urgenza, indicati tassativamente dalla legge l'autorità di pubblica sicurezza può adottare provvedimenti provvisori, che devono essere comunicati entro quarantotto ore all'autorità giudiziaria e, se questa non li convalida nelle successive quarantotto ore, si intendono revocati e restano privi di ogni effetto. E` punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà. La legge stabilisce i limiti massimi della carcerazione preventiva” e 32

in base al quale: “La Repubblica tutela la salute come

fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti. Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”.

Operativo nell’intero ordinamento giuridico, ancorché reperibile in una fonte di diritto privato quale è il Codice Civile, risulta l’art. 5 rubricato “atti di disposizione del

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proprio corpo” che sancisce che “Gli atti di disposizione del proprio corpo sono vietati quando cagionino una diminuzione permanente della integrità fisica, o quando siano altrimenti contrari alla legge, all’ordine pubblico o al buon costume”.

L’occasio legis di approvazione dell’art 5 c.c. fu un celebre caso giudiziario, di trapianto di una ghiandola sessuale da un giovane studente a beneficio di un facoltoso anziano brasiliano affinché riprendesse vigore sessuale. Si veda, a tal proposito, Cass. Pen., 31 gennaio 1934, in Foro It., 1934, II, 146 ss., con nota di Arangio Ruiz G., “Contro l’innesto Voronoff da uomo

a uomo”.

Dal tenore letterale del precetto in esame e dagli orientamento giurisprudenziali consolidatisi nel tempo, si può desumere come l’integrità fisica sia disponibile illimitatamente quando l’atto di disposizione del corpo sia funzionale alla salvaguardia della salute, come in ipotesi di asportazione di un organo affetto da patologia. L’integrità fisica è, di contro, disponibile soltanto entro i limiti quantitativi e qualitativi fissati dell’art. 5

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cc qualora esso vada a svantaggio della salute del disponente. Per quanto attiene al limite della diminuzione permanente, questo non sarà superato quando il consenso riguardi interventi che interessano tessuti e organi in grado di autoriprodursi, mentre, sarà superato e, dunque, il consenso inefficace qualora abbia ad oggetto un organo non autoriproducibile.

Dal combinato disposto degli artt. 579, 580 Cp e 5 del cc deve desumersi come da un lato la disponibilità ad una lesione

manu propria del bene vita, sia giuridicamente tollerata –

ancorché carica di disvalore sociale, secondo il Legislatore, che per mere ragioni di opportunità si astiene da sanzionarla- l’indisponibilità della vita nei confronti delle etero aggressioni e dunque l’inoperatività dell’art. 50 del codice penale al fine di elidere l’antigiuridicità insita nel fatto tipico dell’omicidio. Date queste premesse, occorre domandarci se in un ordinamento giuridico come quelle italiano, che sancisce l’indisponibilità e la sua tutela della vita umana possa trovare

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spazio di riconoscimento un diritto a sottoporsi a forme eutanasiche pietatis causa nelle sue varie forme.

Si può premettere, fin da subito, come l’illiceità dell’eutanasia attiva nel nostro ordinamento sia evidente, dovendo ricondursi, in presenza di consenso del soggetto passivo, a seconda degli elementi entro cui si articola il fatto-reato tale forma entro l’alveo delle fattispecie di omicidio volontario (575 c.p.), omicidio del consenziente (579 c.p.), ovvero istigazione o aiuto al suicidio (580 c.p.).

Il discrimine tra omicidio del consenziente e il reato di istigazione o aiuto al suicidio, come emerge dal tenore letterale della sentenza della Cassazione Penale, Sez. I, 6 febbraio 1998, n. 3147 “va quindi più correttamente individuato nel

modo in cui viene ad atteggiarsi la condotta e la volontà della vittima in rapporto alla condotta del soggetto agente. Si avrà omicidio del consenziente nel caso in cui colui che provoca la morte si sostituisca in pratica all'aspirante suicida, pur se con il consenso di questi, assumendone in proprio l'iniziativa, oltre

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che sul piano della causazione materiale, anche su quello della generica determinazione volitiva; mentre si avrà istigazione o agevolazione al suicidio tutte le volte in cui la vittima abbia conservato il dominio della propria azione, nonostante la presenza di una condotta estranea di determinazione o di aiuto alla realizzazione del suo proposito, e lo abbia realizzato, anche materialmente, di mano propria. Esempi di scuola: si ha omicidio del consenziente quando l'agente, con il consenso della vittima, esplode contro quest'ultima un colpo di pistola uccidendola, mentre si avrà agevolazione al suicidio se l'agente si limita a fornire alla vittima, su richiesta di quest'ultima e conoscendo l'uso che ne farà, l'arma che poi essa utilizzerà contro se stessa. O ancora, commette omicidio ex art. 579 c.p. l'infermiere che inietta al paziente, affetto a una malattia incurabile che gli provoca dolori atroci, con il di lui consenso, una dose mortale di veleno, mentre è responsabile di istigazione al suicidio lo stesso infermiere che, prendendo lo spunto dalle condizioni di

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sofferenza del paziente, lo determini a porre fine alle sue sofferenze suicidandosi, o ne agevoli il proposito suicida, ponendogli a disposizione i mezzi per farlo”.

La distinzione tra omicidio e omicidio del consenziente, che possono coincidere in termini di condotta posta in essere al fine di cagionare la morte, risiede, invece, nell’assenza di consenso da parte del soggetto passivo, ovvero in presenza di un consenso che per le condizioni in cui versa la vittima debba essere ritenuto non valido: 1) contro una persona minore degli anni diciotto; 2) contro una persona inferma di mente, o che si trova in condizioni di deficienza psichica, per un'altra infermità o per l'abuso di sostanze alcooliche o stupefacenti; 3) contro una persona il cui consenso sia stato dal colpevole estorto con violenza minaccia o suggestione, ovvero carpito con inganno.

Nel tentativo di mitigare questa impostazione, in caso di eutanasia su soggetto consenziente, la dottrina ha elaborato alcune teorie che, tuttavia, non hanno trovato unanime

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accoglimento in sede giurisprudenziale e paiono, pertanto, non percorribili; la possibilità di attribuire particolare rilievo al movente pietistico, correlato alla condotta di chi provoca la morte per determinarla fine delle sofferenze altrui, ai fini dell‘applicazione dell’attenuante generale dei motivi di particolare valore morale e sociale, ex art. 62 n. 1 del Codice Penale, non pare convincente in quanto tale attenuante sarebbe già ricompresa nell‘operatività dell‘art. 579 c.p. Alcuni autori18, hanno proposto l‘esclusione della punibilità per l’autore materiale del fatto, considerandolo incapace d’intendere o di volere al momento della esecuzione materiale, scaturente dallo stato emozionale o passionale del soggetto innanzi allo stato di afflizione in cui versa il soggetto; trattasi, tuttavia, a nostro avviso di posizione in netto contrasto con la lettera dell‘art. 90 c.p., per cui gli stati emotivi e passionali non escludono né diminuiscono l‘imputabilità.

18 M. Adamo, Il problema giuridico e medico-legale dell’eutanasia, Arch.

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Differente impostazione deve tenersi in ordine al tema del rifiuto delle cure e dell’eutanasia passiva: verso discorso vale invece per il diritto a rifiutare le cure, ovvero la c.d. eutanasia passiva: pronunce di rilievo, a livello giurisprudenziale, hanno affrontato, difatti, il problema, affermandola netta e chiara distinzione tra l’eutanasia sensu strictu ed il rifiuto di terapie medicochirurgiche da parte del paziente, correttamente informato in ordine alle conseguenze della propria rinuncia, giungendo alla conclusione che “il rifiuto delle terapie

medico-chirurgiche, anche quando conduce alla morte, non può essere scambiato per un’ipotesi di eutanasia, ossia per un comportamento che intende abbreviare la vita, causando positivamente la morte, esprimendo piuttosto tale rifiuto un atteggiamento di scelta, da parte del malato, che la malattia segua il suo corso naturale” (Cassazione Civile, Sezione I

sentenza n. 21748 del 16/10/07). In altri termini, la scelta cosciente alla cessazione delle cure rappresenta un diritto del soggetto atteso che, se, da un lato, l’eutanasia debba

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configurarsi quale “accelerazione del percorso biologico

naturale per la persona capace di intendere e volere, che, affetta da sofferenze insopportabili e senza prospettive di miglioramento, chiede le venga praticato un farmaco mortale, se non in grado di autosomministrarselo, ovvero (e si parla, nell'ipotesi, di suicidio assistito) di fornirglielo in modo che possa assumerlo”, “il caso del capace che rifiuti o chieda di interrompere un trattamento salvifico e il caso dell'incapace che, senza aver lasciato alcuna disposizione scritta si trovi in una situazione vegetativa clinicamente valutata irreversibile e rispetto al quale il Giudice si formi il convincimento, sulla base di elementi probatori convincenti, che la complessiva personalità dell'individuo cosciente era nel senso di ritener lesiva della concezione stessa della sua dignità la permanenza e la protrazione di una vita vegetativa” “rientrano, all'opposto, nel diritto, allo stato dell'ordinamento già compiutamente ed esaurientemente tutelato dagli art. 2, 13 e 32 Cost., di autodeterminazione della persona al rispetto del

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percorso biologico naturale” (Tribunale di Modena, decreto

13 maggio 2008 - Giudice G. Stanzani). Ed ancora “In base

agli artt. 13 e 32 Cost. ogni persona, se pienamente capace di intendere e di volere, può rifiutare qualsiasi trattamento terapeutico o nutrizionale fortemente invasivo, anche se necessario alla sua sopravvivenza”. (Sentenza n. 21748 del 16

ottobre 2007 Sezione Prima Civile)

Ne deriva che è non solo lecita, bensì, doverosa la condotta del sanitario che si astiene dal praticare terapie, qualora tale interruzione sia espressione della libera e informata autodeterminazione del paziente. La base di tale assunto, come visto supra, è di rango costituzionale ed è rinvenibile nell’art. 32 della Costituzione, in base al quale “nessuno può essere

obbligato ad un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge”, precisando che “la legge non può in alcun caso violare i limiti imposti dal rispetto per la dignità umana” e nell’art. 13 della Costituzione che sancisce

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che il fondamento del rifiuto delle cure sia rappresentato dagli stessi articoli che rendono necessario il consenso informato agli atti terapeutici, dal momento che il consenso non solo è il necessario presupposto della liceità dell’atto medico ma è anche il limite della posizione di garanzia del medico, per cui un’inequivocabile richiesta del paziente stesso di non essere sottoposto a cure fa venir meno a riguardo del medico lo stesso obbligo giuridico di curarlo, in quanto manca il titolo di legittimazione dell’esecuzione del trattamento. Nessuna responsabilità penale potrà, dunque, essere ascritta al medico che ometta di praticare trattamenti vitali ad un paziente che esprima liberamente e scientemente il suo diritto a non essere curato, nell’ipotesi in cui sopraggiunga la morte.

Alcune problematiche sono insorte nel caso in cui il rifiuto cosciente ed informato, investa non già terapie ordinarie ma i c.d sostegni vitali artificiali, ossia quelle misure sanitarie senza la cui attivazione il processo di malattia minaccerebbe,

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in tempi rapidi, di condurre alla morte19, nel novero dei quali si enumerano la ventilazione assistita, la dialisi e secondo taluni anche l’alimentazione e l’idratazione artificiale. Orbene, anche in questi casi la tesi preponderante appare quella secondo cui l’autodeterminazione del paziente consenta la sospensione di tali presidi, in coerenza con l’idea secondo cui voluntas

aegroti suprema lex esto; destituita di fondamento, pare l’idea,

essendo, in questi caso, la condotta del medico naturalisticamente ascrivibile a un facere (es. spegnimento del respiratore), rispetto a un mero non facere in ipotesi di rifiuto di cure, secondo cui la diversità materiale possa ingenerare il convincimento di trovarsi in un caso più di eutanasia attiva (procurare la morte) piuttosto che a un legittimo rifiuto di un trattamento (lasciar morire): una disamina più approfondita, infatti, porta a ricondurre entrambe le ipotesi al presupposto di un legittimo rifiuto di terapie; una volta fondata sul consenso del paziente la legittimità della praticabilità iniziale delle cure

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è necessario anche il suo consenso a proseguirle, per cui il consenso iniziale è revocabile una volta espresso. Ciò è suffragato, sul piano giuridico, dalla richiesta, tra i requisiti del consenso, della attualità, ovvero della sua sussistenza durante lo svolgimento di tutta l’attività medica. Per questi motivi, una condotta del medico volta ad interrompere un trattamento in atto a seguito della richiesta del paziente, rappresenta l’attuazione del diritto di quest’ultimo a non essere costretto a

subire un trattamento medico indesiderato divenendo la sua

prosecuzione “illecita” a seguito dell’espressione del rifiuto, senza contare il fatto che si ingenererebbe una sostanziale ingiustizia se si permettesse a chi deve sottoporsi a cure di rifiutarle e si costringesse a subire chi a quelle cure ha inizialmente deciso a sottostare.

In coerenza con tali conclusioni, appare, in ultimo, legittima anche la previsione in base alla quale il soggetto, in ipotesi di una futura situazione di incapacità provocata da uno stato di incoscienza per malattia terminale o lesione traumatica

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cerebrale irreversibile, abbia lasciato specifiche disposizioni di volontà volte ad escludere trattamenti salvifici artificiali che lo mantengano in vita in stato vegetativo, coerentemente con la sua personalità, il suo stile di vita, le sue inclinazioni, i suoi valori di riferimento e le sue convinzioni etiche, religiose, culturali e filosofiche, con atto rituale ed esplicito che investa l’amministratore di sostegno ex lege n. 6 del 9 gennaio 2004, del dovere di esigere che ci si astenga da tutti gli interventi tecnologici e sanitari a null'altro finalizzati se non alla protrazione di una inerte sopravvivenza e che la malattia segua il proprio iter biologico. A nulla rileva, infatti, l'obiezione di un possibile, ancorché non esplicito, ripensamento da parte del paziente prima del verificarsi dello stato di incapacità, atteso che “costituisce principio consolidatosi ab immemorabile nell’ordinamento quello per cui una volontà negoziale, in quanto tale idonea a produrre effetti giuridici, resta ferma fino a sua revoca” (Tribunale di Modena, Decreto 5 novembre 2008, Giudice Guido Stanzani).

(64)

C

ASI ITALIANI

PIERGIORGIO WELBY

Piergiorgio Welby (Roma, 26 dicembre 1945 – Roma, 20 dicembre 2006) balzava agli onori delle cronache negli ultimi anni di vita quando, gravemente ammalato, nei sui scritti chiedeva ripetutamente l’interruzione delle cure che lo mantenevano in vita.

Il Welby risultava affetto dalla nascita da distrofia muscolare progressiva – probabilmente distrofia facio-scapolo-omerale come riportato dalla Associazione Luca Coscioni di cui era co-presidente anche se alcune fonti riportano quali possibili patologie la distrofia muscolare di Becker (Avvenire) o la distrofia di Duchenne (www.sclerosi.org) – che, manifestandosi già dall’età di 10-12 anni, lo costringeva nel 1997 ad un esistenza sostenuta da presidi di ventilazione meccanica ed alla completa immobilità. Già il questo periodo l’uomo manifestava ripetutamente la volontà di mettere fine ad

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una esistenza che percepiva come insopportabile ma le sue richieste non venivano accolte poiché parevano contrastanti con le leggi in vigore20.

Nel settembre 2006 Piergiorgio Welby inviava una lettera all’allora Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano con la quale richiedeva il riconoscimento del diritto all’eutanasia; nella sua risposta il Presidente della Repubblica si limitava ad auspicare un confronto politico sull’argomento.

Pur senza nessun tipo di interpello la Chiesa Cattolica, attraverso il Consiglio Episcopale Permanente, il 21 novembre 2006 riaffermava la sua contrarietà all’eutanasia poiché per i religiosi, a loro dire, “Chi ama la vita si interroga sul suo significato e quindi anche sul senso della morte e di come affrontarla[...]Ma non cade nel diabolico inganno di pensare di poter disporre della vita fino a chiedere che si possa

legittimarne l'interruzione con l'eutanasia, magari

mascherandola con un velo di umana pietà”.

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Il 16 dicembre 2006 il tribunale di Roma respingeva le richieste avanzate dai legali di Welby di porre fine all’accanimento terapeutico dichiarandole inammissibili in ragione del presunto vuoto legislativo in materia.

La Chiesa Cattolica, nuovamente motu proprio, il 20 dicembre 2006 tramite il Cardinale Javie Lozano Barragan interveniva con la seguente richiesta “I medici dicano se la macchina che

aiuta a respirare Welby è inutile o sproporzionata e se non fa altro che prolungare l’agonia di una imminente morte”.

Lo stesso giorno Piergiorgio Welby si congedava dai sui cari e, coadiuvato dal dr Mario Riccio, previa sedazione chiedeva di essere staccato dal ventilatore meccanico pervenendo a morte alle ore 23:45 circa.

Il 1/02/2007 l’Ordine dei medici di Cremona riconosceva che il dr Riccio aveva agito nella piena legittimità etica e professionale.

Il 08/06/2007 il Gip imponeva al PM competente l’imputazione del medico per omicidio del consenziente,

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respingendo l’archiviazione del caso ma, il giorno 23 luglio 2007 il GUP di Roma , Zaira Secchi, lo proscioglieva definitivamente ordinando il non luogo a procedere poiché il fatto non costituisce reato.

La sentenza con cui è stato prosciolto il medico anestesista muove dall’analisi del “diritto della persona a rifiutare le

terapie mediche”, come discendente dall’art. 32, comma 2

Cost. e dal quale deriverebbe, secondo il GIP, che “rifiutare le

cure o… interromperle… non può voler significare l’implicito riconoscimento di un diritto al suicidio, bensì soltanto l’inesistenza di un obbligo a curarsi a carico del soggetto”.

In particolare, viene riconosciuto come “il diritto al rifiuto dei

trattamenti sanitari fa parte dei diritti inviolabili della persona, di cui all'art. 2 Cost. e si collega strettamente al principio di libertà di autodeterminarsi riconosciuto all’individuo dall’art. 13 Cost”.

“Appare, quindi, evidente – continua il giudicante –come, alla luce del dettato chiarissimo dell’art. 32. comma 2, della

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