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Le pratiche: traduzioni, mediazione delle versioni francesi, censura e lettori

PARTE I Prospettive metodologiche ed inquadramenti preliminari per uno studio

2.2 Dalla “età d'oro delle traduzioni” alla rivalutazione dell'esprit des traductions: momenti d

2.2.2 Le pratiche: traduzioni, mediazione delle versioni francesi, censura e lettori

Una storia delle traduzioni che, come ho suggerito nel primo capitolo, abbia la pretesa di fornire indicazioni metodologiche valide per consentire a studiosi di altre discipline di utilizzare i testi tradotti come fonti per ricerche di più ampio respiro, non può risolversi, ovviamente, entro i confini – ed i limiti – di un'analisi delle teorie che si sono sviluppate nel corso dei secoli.

Partendo dal presupposto – ormai sufficientemente acquisito anche nell'ambito degli studi storici – che le traduzioni siano un fenomeno complesso, risultato di diverse dinamiche di adattamento e di manipolazione degli originali, per ricostruirne la storia è necessario confrontarsi anche con quelle che erano le pratiche più diffuse, le «esperienze di

traduzione» come le ha di recente definite Nunzio Ruggiero126, ovvero le strategie che

venivano adottate nel concreto delle loro attività tanto dai traduttori quanto dagli stampatori, e che erano determinate dalle contingenze storiche, dalle caratteristiche culturali, sociali e politiche del contesto di ricezione127.

Modalità di esecuzione che diventavano ancora più significative e delicate in un secolo come il Settecento, nel quale le traduzioni avevano raggiunto un'importanza considerevole, dal momento che da un lato erano «the tool of Enlightenment cosmopolitarism» – tanto per

citare nuovamente un'efficace espressione di László Kontler128 – ossia uno degli strumenti

privilegiati al servizio della vocazione cosmopolita degli Illuministi, che si servivano, soprattutto, della mediazione delle versioni francesi per far circolare le loro opere all'interno della “repubblica delle lettere”, ma dall'altro diventavano anche il veicolo di diffusione di contributi di vario genere tra una fascia di “nuovi” lettori. Un pubblico in grado di accedere esclusivamente a testi scritti nella propria lingua, per il quale, data la sua variegata composizione sociale e culturale, era necessario predisporre versioni particolarmente accurate dal punto di vista dell'adattamento delle idee potenzialmente “pericolose” contenute negli originali.

126 N. Ruggiero, La civiltà dei traduttori, cit., p. 7.

127 Nel presente paragrafo cercherò di proporre alcune osservazioni su quelle che, riprendendo la

terminologia impiegata negli studi sulla traduzione da Gideon Toury e, soprattutto, da Anthony Pym, possono essere definite le “norme procedurali particolari”, ossia quell'insieme di fattori che condizionavano nell'immediato le pratiche traduttive. Il quadro presentato è schematico e in esso terrà fatto accenno a questioni specifiche che saranno poi descritte più nel dettaglio in relazione all'esame dei casi particolari oggetto di studio della mia ricerca.

128 L. Kontler, What is the (Historians') Enlightenment Today, cit., p. 364. Uno strumento, quello delle

traduzioni, che veniva usato anche per circolazione di opere contenenti tesi “rivoluzionarie” rispetto all'ordine istituzionale o religioso costituito in un dato contesto.

Anche se, come puntualizzava Fania Oz-Salzberger nel suo già citato saggio The

Enlightenment in Translation, risulta difficile ricostruire un quadro complessivo esaustivo

della situazione settecentesca dell'attività traduttiva in Europa, a causa dell'evidente disparità dei dati disponibili per ciascun contesto di produzione, tuttavia le informazioni reperibili per l'area francese, inglese e tedesca paiono evidenziare un'effettiva, consistente intensificazione di tali pratiche, che raggiunsero livelli mai verificatisi in precedenza sia per quanto concerneva il numero degli esemplari realizzati, sia per la varietà tipologica di opere proposte – favorita quest'ultima dall'esigenza di venire incontro alle richieste del nuovo pubblico – ma anche per la velocità di esecuzione dei progetti e per la loro distribuzione geografica129. Provando ad allargare rapidamente lo sguardo all'intera età

moderna e a proporre qualche considerazione generale e meramente quantitativa sullo sviluppo delle imprese di traduzione a partire dall'invenzione della stampa, può essere rilevato, come all'inizio l'attenzione fosse rivolta in prevalenza – e non sorprendentemente

– ai testi religiosi130. Al primo posto, naturalmente, figurava la Bibbia, tradotta in poco più

di due secoli in 51 lingue differenti, seguita da altri testi, quali l'Imitatio Christi, attribuita al canonico agostiniano tedesco Tommaso da Kempis, di cui si ebbero 52 versioni in 12 lingue tra il XVI e il XVIII secolo, o il catechismo del gesuita italiano Roberto Bellarmino, tradotto soprattutto, per ovvie ragioni evangelizzatrici, all'interno dei gruppi missionari della Compagnia di Gesù, in 40 lingue, compreso l'arabo, il Quechua e il Tamil131.

Seguivano poi i volgarizzamenti dei classici greci e latini e le traduzioni nei principali volgari europei di opere moderne di argomento letterario, dalla Gerusalemme liberata di Torquato Tasso all'Orlando Furioso di Ludovico Ariosto, dalle commedie di Molière al

Don Chisciotte di Miguel de Cervantes, ma non erano assenti anche versioni di testi a

carattere storiografico – degli autori classici come Tacito e Tucidide o dei moderni Francesco Guicciardini e Paolo Sarpi – politico o scientifico; opere che in quest'ultimo caso, ma non solo, potevano essere tradotte, come è noto, anche in latino, per garantire loro

129 F. Oz-Salzberger, The Enlightenment in Translation, cit., p. 388 e segg. «The vast network of Europe's

eighteenth-century translation industry is yet to be mapped. Only a few of its hubs and outpost have been thoroughly studied» (p. 392). Un discorso analogo, nonostante lo sviluppo di importanti progetti di ricerca come quello di Peter Burke, potrebbe essere fatto anche per i secoli precedenti.

130 I dati riportati in questo quadro riassuntivo sulle “european cultures of translation” in età moderna sono

ricavati principalmente da P. Burke, Cultures of Translation, cit., per quanto riguarda i secoli XV, XVI e XVII e da F. Oz-Salzberger, The Enlightenment in Translation, cit., per quanto concerne, invece, il XVIII secolo, I ragionamenti proposti nel corso del paragrafo sui traduttori e sulle modalità di adeguamento dei testi tengono in conto i risultati presentati in tali saggi, ma anche più direttamente delle informazioni ricavate dalla mia ricerca specifica sui testi scozzesi e da un confronto, anche se tutt'altro che sistematico, con altri casi di traduzione di opere inglesi già analizzati singolarmente dagli studiosi.

un'ampia circolazione tra le élites intellettuali europee, secondo una prassi che sarebbe

stata destinata ad essere abbandonata solo nella metà del XVIII secolo132.

Durante il Settecento vi fu poi un importante incremento delle traduzioni di quelle opere che rispecchiavano gli interessi di un'ampia fascia di lettori, come i romanzi, le opere teatrali, i manuali di diritto, medicina, scienza, i libri di viaggio e di arte, ma ebbero un significativo aumento anche quelle di testi filosofici e poetici, come testimonia il celebre caso della circolazione dei poemi ossianici, e, naturalmente, occuparono un posto di rilievo in tale panorama anche le versioni dei periodici, basti pensare al già citato esempio delle

pubblicazioni francesi, veneziane e toscane di estratti dello Spectator di Joseph Addison133.

Dal punto di vista della distribuzione geografica delle aree maggiormente coinvolte nei processi traduttivi, nel corso dell'età moderna si erano delineate differenti situazioni. La penisola italiana, ad esempio, grande esportatrice di testi durante il periodo rinascimentale, era successivamente diventata in prevalenza importatrice di autori francesi e spagnoli – ed inglesi a partire dal XVIII secolo – mentre la Francia aveva sempre avuto un ruolo di primo piano in ambedue le fasi del “commercio” delle traduzioni. L'Inghilterra e gli spazi tedeschi erano, almeno fino alle soglie di metà Settecento, soprattutto contesti di ricezione, così come lo erano, in maniera molto più consistente, i paesi dell'Europa centrale ed orientale, nei quali le esportazioni raggiungevano percentuali di poco conto se paragonate a quelle delle importazioni134. Nello specifico, e soprattutto per quanto riguarda la fase

settecentesca, tra i centri editoriali più importanti per la stampa dei testi tradotti figuravano

132 Per quanto riguarda la situazione europea dal punto di vista della configurazione e dell'evoluzione delle

lingue nazionali, uno dei testi di riferimento è ancora P. Burke, Languages and Communities in Early

Modern Europe, Cambridge, Cambridge University Press, 2004 (tr. it. Lingue e comunità nell'Europa moderna, Bologna, Il Mulino, 2006). Sull'uso e, soprattutto, sulla persistenza dell'impiego del latino

nell'Europa moderna rimando, invece, a F. Waquet, Le latin a l'empire d'un signe. XVIe-XXe siècle, Paris, Albin Michel, 1998 (tr. it. Latino. L'impero di un segno, XVI-XX secolo, Milano, Feltrinelli, 2004) e, relativamente al tema delle traduzioni in latino, si veda anche P. Burke, Translating into Latin in Early

Modern Europe, in P. Burke, R. Po-chia Hsia (eds), Cultural Translation in Early Modern Europe, cit.,

nel quale viene sottolineato come nel periodo di tempo compreso tra il 1475 e il 1799 furono date alle stampe più di 1140 traduzioni in latino di opere moderne di vario contenuto.

133 Per quest'ultimo caso cfr, ad esempio, M. L. Pallares-Burke, The Spectator, or the Metamorphoses of the

Periodical: a Study in Cultural Translation, in P. Burke, R. Po-chia Hsia (eds), Cultural Translation in Early Modern Europe, cit.

134 Il definire la circolazione delle traduzioni nei termini “commerciali” di un rapporto tra importazioni ed

esportazioni di testi implica naturalmente, come rilevato da Peter Burke nel saggio più volte citato

Cultures of Translation, delle considerazioni su quali fossero le aree culturalmente dominanti nelle varie

fasi dell'età moderna. A mio avviso, però, tali osservazioni non devono portare alla conclusione che i contesti prevalentemente importatori fossero gioco forza arretrati e marginali. Come ho sottolineato in più occasioni – dal momento che è un presupposto teorico fondamentale della mia tesi – le traduzioni non vanno analizzate come semplice passaggio da un sistema linguistico ad un altro, ma sono complesse operazioni di rielaborazione culturale nelle quali i contesti riceventi svolgono un ruolo di primo piano, adattando i testi in base a specifiche esigenze.

Parigi e Londra, seguiti poi da Lipsia, Amsterdam, Amburgo e Zurigo, ai quali andavano a sommarsi – sempre secondo quanto rilevato da Fania Oz-Salzberger – località minori come Dublino, Edimburgo, Copenaghen, San Pietroburgo, Stoccolma, Berlino, Lisbona ed, infine, Napoli, una serie alla quale aggiungerei, in base alle specifiche risultanze della mia ricerca, almeno Firenze, Siena e Venezia135.

Focalizzando, poi, l'attenzione più direttamente sul dato linguistico, non può non essere sottolineato come la lingua “d'arrivo” ed allo stesso tempo “di partenza” più coinvolta nelle operazioni di traduzione fosse, come ho già avuto modo di mettere in evidenza in più di un'occasione, quella francese. In particolare, essa assunse una posizione preminente nel periodo compreso tra la fine del Seicento e la prima metà del Settecento, quando, acquisendo di fatto l'eredità dell'antico universalismo del latino – oramai sempre meno capace di «adeguarsi al ritmo dello sviluppo [lessicale] scientifico, tecnologico e

filosofico»136 – divenne la lingua franca di quella koinè culturale ed intellettuale ricercata

dagli Illuministi. Le edizioni delle più importanti opere dei philosophes circolavano, infatti, in originale ed erano presenti nelle biblioteche di ogni colto lettore, le loro ristampe venivano pubblicate in numerosi altri paesi, come nel celebre caso delle edizioni dell'Encyclopédie che videro la luce a Lucca e a Livorno, rispettivamente tra il 1758 e il

1771 e tra il 1770 e il 1779137, e le principali produzioni inglesi e tedesche raggiungevano

ogni parte del continente attraverso le loro – rimaneggiate – versioni francesi. La conoscenza dell'idioma d'oltralpe era diffusa in tutta l'Europa, compresa la penisola italiana, nella quale è presumibile supporre che coloro i quali ne avevano una competenza, almeno passiva, discreta raggiungessero, in linea di massima, un numero vicino a quello dei 150.000 eruditi indicati dall'anonimo estensore dell'articolo Colpo d'occhio su lo stato

presente della letteratura italiana, apparso, in più puntate, sul «Nuovo giornale letterario

135 F. Oz-Salzberger, The Enlightenment in Translation, cit., p. 388 e pp. 392-394. La studiosa, che nelle sue

ricerche si è concentrata soprattutto sugli spazi tedeschi, evidenzia anche come in essi fosse presente una fiorente attività editoriale di traduzioni in piccoli centri (cfr anche B. Fabian, The English Book in

Eighteenth-Century Germany, London, British Library, 1991).

136 A. Dardi, Uso e diffusione del francese, cit., p. 348. «French was the cosmopolitan language of the well-

bred, well-read and well-travelled throughout the century», F. Oz-Salzberger, “Translation”, in

Encyclopedia of the Enlightenment, cit., p. 181. Più in generale sulla diffusione della lingua e della

cultura francese rimando a M. Fumaroli, Quand l'Europe parlait français, Paris, Editions de Fallois, 2001 e alla bibliografia in esso citata.

137 Sulle edizioni dell'Encyclopédie stampate in Toscana, annotate e commentate in francese, si vedano C.

Mangio, Censura granducale, potere ecclesiastico ed editoria in Toscana: l'edizione livornese

dell'Encyclopédie, «Studi settecenteschi», XVI (1996), pp. 191-221, P. Bellucci, Le edizioni toscane dell'Encyclopédie, «Rassegna storica toscana», XXXIV (1988), pp. 185-223 e G. Benucci, Le edizioni toscane dell'Encyclopédie e la questione delle note. Un confronto, «Nuovi studi livornesi», III (1995), pp.

d'Italia», tra il 1788 e il 1789138. Una consolidata supremazia linguistica che sarebbe stata

promossa dagli stessi letterati francesi – e non solo – fino all'Ottocento, come testimoniato, ad esempio, dalla memoria De l'universalité de la langue française presentata

all'Accademia delle Scienze di Berlino nel 1784 dal conte Antoine de Rivarol139, ma che,

come detto, non avrebbe tardato a manifestare anche i suoi limiti. Da un lato, infatti, si sarebbe rivelata inadeguata in un panorama editoriale come quello settecentesco, del quale stavano diventando protagonisti anche lettori senza alcuna dimestichezza col francese, e dall'altro sarebbe stata messa in discussione anche da un pubblico composto da colti letterati, critici nei confronti del modello culturale e delle modalità di esecuzione delle traduzioni teorizzate in Francia, e, perciò, desiderosi di accedere ai contributi più innovativi e avanzati del pensiero illuminista inglese o tedesco avendo a disposizione versioni condotte sugli originali. Ciascuno di questi due aspetti, se considerato dal punto di vista specifico dalla prospettiva di analisi adottata nella mia indagine, acquisisce una valenza significativa, in quanto entrambi inducono a riflettere sul significato stesso attribuito alle pratiche traduttive nel secolo dei Lumi, l'uno perché chiama in causa lo stretto rapporto tra traduzioni e tipologia di pubblico al quale in prevalenza si rivolgevano, e l'altro perché consente di entrare nel vivo di un ragionamento sulla prassi del tradurre

direttamente le opere inglesi, senza mediazioni140. Lasciando per un attimo da parte il

primo aspetto, sul quale mi riservo di tornare a breve con la dovuta attenzione – dal momento che, a mio avviso, si tratta di uno dei nodi cruciali da affrontare in uno studio sulle traduzioni – vorrei ora provare a sviluppare qualche riflessione complessiva relativa al secondo caso, che mi permette di delineare alcune ulteriori caratteristiche delle “italian

138 «Persone colte, che fanno versi, che conoscono la storia […] che si intendono di musica e di pittura, che

leggono il francese», Colpo d'occhio su lo stato presente della letteratura italiana, «Nuovo giornale letterario d'Italia», tomi I e II (1788-1789), citato in A. Dardi, Uso e diffusione del francese, cit., p. 349. L'articolo, riprodotto anche in M. Berengo, Giornali veneziani del Settecento, Milano, Feltrinelli, 1962, è stato attribuito dallo stesso Berengo a Giuseppe Compagnoni, mentre Carlo Capra ne ha proposto come autore Giovanni Ristori, un'identificazione oggi accettata dalla maggior parte degli studiosi (C. Capra,

Giovanni Ristori da illuminista a funzionario, 1755-1830, Firenze, La Nuova Italia, 1968). Sulla

conoscenza della lingua francese in Italia rimando ancora a A. Dardi, op. cit., nel quale vengono, naturalmente, evidenziate differenze presenti nei vari contesti italiani.

139 A. de Rivarol, Discours sur l'universalité de la langue française, memoria che si aggiudicò il premio

dell'Accademia delle Scienze prussiana nel 1784 e fu edita successivamente a Parigi, chez Cocheris, nel 1797. In essa, il conte de Rivarol, di origini italiane, passava in esame le lingue europee sostenendo come la superiorità di quella francese fosse determinata, soprattutto, dalla sua estrema chiarezza, che la rendeva adatta ad esprimere pensieri razionali. Cfr ad esempio J. Norbert, La France et l'Italie au siècle des

Lumières. Essai sur les échanges intellectuels, Paris, Champion, 1994.

140 Il ragionamento proposto in queste pagine si riferisce nello specifico alla situazione verificatasi nel

contesto italiano in rapporto alla realizzazione di traduzioni dirette di opere in inglese. Alcune osservazioni su quali accorgimenti venissero usati da traduttori e stampatori che continuavano, invece, a servirsi delle versioni francesi come supporti verranno proposte in seguito.

cultures of translation” settecentesche ed ottocentesche.

A partire dalla seconda metà del Settecento, nell'ambito della già ricordata “questione della lingua” – e più in generale in ambito politico e culturale – prese vigore la polemica nei confronti di quel fenomeno che, non molto tempo dopo, sarebbe stato definito con il termine “gallomania”, ritenuto tra i principali responsabili della corruzione del buon stile

italiano141. Se Giuseppe Baretti non mancava di constatare, infatti, come la lingua toscana,

al pari di quella moderna inglese, si stesse «imbastardendo tanto con tanti vocaboli e frasi francesi» entrati prepotentemente nell'uso « a forza di leggere dei libri francesi, e a forza di tradurre delle frasi lorenesi»142, Carlo Gozzi riteneva, ancor più polemicamente, che

l'idioma d'oltralpe fosse «il maggior guastatore, rovesciatore e difformatore dell'eccellente

idioma» italiano143. Due posizioni – alle quali ne potrebbero, naturalmente, essere aggiunte

altre – molto chiare nella loro perentorietà, che sintetizzavano con efficacia i caratteri fondamentali di quel clima culturale di presa di distanza dalla Francia, che ebbe risvolti concreti anche sull'attività traduttiva, con il manifestarsi di una volontà precisa di rinuncia all'impiego delle versioni francesi. Tra i molteplici esempi che ho potuto riscontrare a tal proposito nel corso delle mie ricerche, vorrei almeno richiamare l'attenzione su quanto sostenuto dal senese Pietro Crocchi, traduttore di William Robertson, il quale, in una lettera a James Boswell già menzionata precedentemente, lamentava la scarsa «perizia» degli Italiani nella lingua inglese e le difficoltà che si incontravano per venire a conoscenza delle

«produzioni più belle di codesti [britannici] spiriti illuminati»144. Se qualcuna di quelle

opere giungeva in Italia – proseguiva Crocchi – essa lo faceva «cambiando Linguaggio sulla Loira, o la Senna, quasi cambiando vestito» e, così facendo, perdeva «la sua maschia robustezza di stile» e si rivestiva «di una sì languida ed effemminata elocuzione, che appena si può riconoscere nei pensieri sì travisati e scontraffatti l'immagine originale di

141 Sul concetto di gallomania e su quello ad essa correlato di gallofobia si vedano ancora gli studi di A.

Graf, L'anglomania e l'influsso inglese, cit. e, per quanto concerne più direttamente la questione della lingua, M. Vitale, La questione della lingua, cit., e S. Morgana, L'influsso francese, in Storia della lingua

italiana, a cura di L. Serianni e P. Trifone, III, Le altre lingue, Torino, Einaudi, 1994. Il termine

“gallomania” è attestato a fine Settecento e S. Morgana ne individua un primo impiego in G. B. Garducci,

Del carattere nazionale del gusto italiano e di quello di certo gusto dominante in letteratura straniera ,

Vicenza, per Francesco Modena, 1786.

142 G. Baretti, Lettere famigliari di Giuseppe Baretti ai suoi tre fratelli Filippo, Giovanni e Amedeo, in Opere

di Giuseppe Baretti scritte in lingua italiana, V, Milano, per Luigi Mussi, 1814, pp. 26-27. La lettera dalla

quale ho tratto la citazione era stata scritta da Plimouth il 21 agosto 1760.

143 C. Gozzi, Un accademico burlesco contro un accademico togato, ossia Carlo Gozzi contro Melchior

Cesarotti. Scritti inediti sulla lingua italiana e sui doveri accademici a cura di N. Vaccalluzzo, Livorno,

Giusti, 1933, p. 57.

144 Lettera di P. Crocchi a J. Boswell, Siena 2 gennaio 1769, riprodotta in J. Boswell, The General

quel genio, che gli produsse»145. I testi inglesi venivano, dunque, a detta del traduttore

senese, “travisati” e “scontraffatti” dal momento che lo stile che li contraddistingueva era, in un certo qual senso, depotenziato, ma, non di meno – come abbiamo già visto per la vicenda della traduzione toscana dello Spectator – altri letterati e stampatori erano inclini ad entrare più nel dettaglio di un esame delle modalità di traduzione francese, mettendo in evidenza anche altri aspetti negativi, quali la prassi di intervenire copiosamente e troppo arbitrariamente sugli originali, in nome delle loro teorie sulle “belles infidèles”. A tal proposito, è a mio avviso interessante un commento apparso sulle «Novelle letterarie» di Pisa nel settembre 1747, nel quale veniva criticato apertamente il modello traduttivo proposto da d'Ablancourt. «Io per me ho lette delle Traduzioni dal Greco in Francese, che certamente sembrano eleganti a chi non ha mai veduto l'originale, come sembrerebbe quella di Luciano fatta dal Sig. d'Ablancourt, ma guai al Sig. D'Ablancourt se si legge Luciano in fonte, tante belle cose lascia, tante di suo ne aggiunge, e così lo trasforma. Le

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