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PRESENTAZIONE DELLA TEORIA DELLA TRADUZIONE, CHE DEVE SERVIRE DA BASE ALL’INSEGNAMENTO DELL’INTERPRETAZIONE

PROPUESTA DE TRADUCCIÓN

PRESENTAZIONE DELLA TEORIA DELLA TRADUZIONE, CHE DEVE SERVIRE DA BASE ALL’INSEGNAMENTO DELL’INTERPRETAZIONE

Mariano García-Landa

[Sergio Viaggio]:

Mariano García Landa è, a mio modo di vedere, forse la mente più universale che si sia messa a riflettere sui problemi teorici della traduzione e dell’interpretazione. Uno di quei personaggi, dei quali ve ne sono oramai pochi, che sembra aver letto tutto, che sembra ricordarsi di tutto e che sembra esser capace di mettere in relazione tutto con tutto. Qualcosa di davvero esasperante. Quand’ero ancora agli inizi dei miei tartagliamenti prototeorici, mi trovai un bel giorno a leggere un articolo pubblicato nel Meta – sono trascorsi molti anni da allora – intitolato L’oralité de la traduction orale, di: Mariano García Landa. E sospettai che, con quel nome, norvegese non fosse! Alcuni anni più tardi, mi capitò di lavorare in Canada, e nel team c’era tale Mariano García Landa. Io mi scaraventai su di lui e gli chiesi: “Lei è il Mariano García Landa che dico io?”. E lo era. Lì iniziammo a chiacchierare e via dicendo, e la nostra amicizia cresceva man mano che imparavamo a capirci o, meglio, che io imparavo a capire lui. Perché il modello di Mariano, che è un modello a prima vista scabro, credo io, consente di farci carico della totalità del fenomeno in tutti gli aspetti pertinenti e universali, che è quanto una teoria deve fornire, da un lato. E dall’altro, oltre a ciò che per me ha iniziato a essere la bellezza estetica di un modello ben fatto, il modello è di un’applicazione pratica straordinaria, e di questo parlerò io nella seconda parte.

Mariano si caratterizza per due cose: una, la più immediatamente pertinente per noi, è che è il primo laureato in interpretazione della storia del pianeta, il primo autore di una tesi per il dottorato di ricerca alla ESIT, la Scuola di Parigi. E più mediatamente pertinente è che, inoltre, ha studiato filosofia a Gottinga. In questo modo, vanta una formazione filosofica classica tedesca che gli permette di collocarsi in cima a una torre di vedetta dalla quale può osservare tutti i fenomeni particolari con l’occhio d’aquila di colui che vede tutto, di colui che non si distrae con le provincie per vedere i continenti.

[Mariano García Landa]

Salve, buon pomeriggio. Questo testo se l’è inventato lui, eh?! Non c’eravamo affatto messi d’accordo su quello che avrebbe detto. Sono idee sue. La sua relazione con la realtà è aleatoria. Dunque, vorrei iniziare dicendo che me ne sono andato a dormire un pochino al Parador, per essere riposato e, come sempre, ho schiacciato un bel pisolino, e mi ha svegliato per disgrazia, o per fortuna, alle quattro, una chiamata da Bruxelles: mi chiamava un cliente, un mio ottimo cliente, la compagnia aerea Sabena – mi conosce come interprete – mi chiamava un signore importante della compagnia, mi chiamava per – mi segno a che ora devo terminare – mi chiamava per offrirmi …per vedere se volevo essere direttore della scuola di piloti di Sabena. Eh?! Rimasi di sasso, ma per favore! ... “Perché io?” gli chiedo. “Tu parli diverse lingue.” “Sì, ok, eh sì, sì… i piloti devono parlare lingue, è utile, soprattutto l’inglese, e l’inglese aeronautico, ma, comunque, pilotare è un’altra cosa!” Vero? Ovvio. E riattaccai.

Un altro racconto simile, forse anche migliore, è quello di mia nipote. Ho una nipote a Bruxelles, che vuole studiare piano e se ne va al conservatorio e ritorna molto delusa, a dirmi: “Zio, sai cosa mi è successo? Nel conservatorio di pianoforte non ci sono professori di piano, sono tutti medici, fisiologi, anatomisti, perché dicono che, dal momento che il piano si suona con le mani, quello che dovevo apprendere io è la fisiologia e l’anatomia delle mani…” È una storiella inventata, ma è per far capire che la musica, anche se per suonarla c’è bisogno di due mani, non ha nulla a che vedere con la fisiologia delle mani.

Nell’interpretazione succede la stessa cosa. Per interpretare bisogna avere come minimo due lingue: la lingua di quello che parla e la lingua in cui io parlo, ma l’interpretazione non ha nulla a che vedere con le lingue. L’interpretazione è un’altra cosa, sebbene sia necessario avere due mani, voglio dire due lingue, per suonarla, e questo è quello che si deve tener presente in qualsiasi tipo di scuola. Vale a dire, le scuole create per interpreti, come la Scuola di Ginevra o la Scuola di Parigi, la Scuola di Washington, i professori sono interpreti, Mmh? Dato che non ha nulla a che vedere con lingue, ma con l’interpretariato, c’è bisogno di esperti in interpretazione. Mentre le scuole create su decisione dei Governi, federali o regionali, si basano sul vecchio errore che interpretare o tradurre abbia qualcosa a che vedere con le lingue e mettono come docenti professori di filologia o di linguistica. Questo è un errore gravissimo. Le scuole e facoltà di interpretazione devono avere come professori – questa è una condizione necessaria – devono avere come professori degli interpreti. Tuttavia non è una condizione sufficiente. Non è sufficiente che siano interpreti. Devono essere interpreti che conoscono la teoria

60 della traduzione e interpretazione e che sono in grado di insegnare, bene o male. Poiché anche nelle scuole serie, ovvero dove i professori sono interpreti, gli interpreti a volte commettono gravissimi errori come, per esempio, per insegnare la consecutiva, ci sono scuole – che non nominerò, ma non in Spagna, e non le conosco – dove il professore, cosiddetto professore di consecutiva è un signore che viene, un interprete, ma che si è comprato un giornale nella metro prima di arrivare a lezione, e legge un articolo del giornale per insegnare consecutiva. Questo è un crimine, non si può fare così; questa professione è l’oralità, parlare. È chiaro che conviene terminare le lezioni di consecutiva con la traduzione di testi, perché può succedere. Ma questo è per farvi capire la mia affermazione secondo cui i professori delle scuole debbano essere interpreti: condizione necessaria, ma non sufficiente, posto che l’interpretazione non ha nulla a che fare con le lingue.

Bene, questo, che si dice con frequenza, io ho intenzione di dimostrarlo. La fine della mia teoria della traduzione, di questa, che esporremo qui, sarà questa dimostrazione, e se me ne dovessi scordare, ricordatemelo. Cioè, il fatto di credere che l’interpretazione abbia in qualche modo a che vedere con le lingue è un errore, o meglio, è una convinzione. Immagino che molti di voi ricorderanno il libricino tanto, tanto carino che scrisse Ortega y Gasset molto tempo fa su idee e credenze. Le idee sono cose che si pensano, sono cose individuali, il prodotto di un raziocinio. Le credenze sono cose nelle quali uno vive o, come dice lui, Ortega, “nelle quali uno si trova”. Uno si trova nella convinzione. E fa un esempio: io, quando esco la mattina, io vivo nel credo che il suolo mi supporterà, che ci sarà il suolo, che non affonderò, che non è acqua… no, non lo razionalizzo. Viviamo nelle convinzioni. E una vecchia convinzione trasmessa dalla conversazione quotidiana, in cui nasciamo, in cui muoriamo, è che traduzione e interpretazione riguardano in qualche modo le lingue. È un errore. La scienza consiste – anche prima credevamo che il sole, … che era una piccola biglia di fuoco che si levava dall’Oriente e scompariva dietro le montagne dell’Occidente, finchè la scienza non ci mostrò che era il contrario: siamo noi a essere la biglia.

Vale a dire che la missione della teoria della traduzione consisterà nel demolire questa convinzione aprendo il passo a una scienza che sia capace di sostenere una pedagogia dell’interpretazione, in modo tale che le scuole e facoltà del… stavo per dire del futuro, no, di domani, non avete più scuse per non organizzarvi bene e per evitare il fallimento delle facoltà spagnole quando, lo scorso autunno, vennero dei rappresentanti del Servizio di Interpretazione della Commissione Europea a esaminare i neolaureati in

interpretariato e ne promuovettero solo il sei percento. E oltretutto fu letterale perché si presentarono cento laureati e solo sei passarono l’esame. Quando succede questo, a me sembra francamente scandaloso. Credo che qualcuno debba prendere una decisione. Non c’è da riflettere, il momento della riflessione è già passato. Deve prendere una decisione in questo senso.

Tuttavia, dopo queste parole così dure, voglio aggiungere che è comprensibile che si commetta questo tipo di errore posto che la nostra professione, nonostante sia molto antica, come ha detto il nostro collega Wadi Keiser questa mattina, è, dall’altro lato, nella sua forma di interpretazione simultanea, molto moderna.

Perché… gli interpreti ci sono sempre stati: i faraoni avevano interpreti, i persiani avevano interpreti e, durante il Medioevo, ci sono sempre stati interpreti che, curiosamente, e vi sono molte parole … qui c’è un autore, italiano, che ha scritto un libretto carino sulla traduzione in generale, Gian Franco Foleno, e da lì ho copiato quelle pagine in cui parla dei termini di interprete nel corso del Medioevo: niente meno che… beh: ermeneuti in Grecia – questa è l’origine – e, a Roma, nei mercati di Roma, verso la fine della Repubblica, dei mercanti greci vengono a vendere i loro prodotti – nei mercati si usciva la mattina, a passeggiare, nella Roma repubblicana – e c’erano bancarelle con greci che vendevano i loro prodotti… e avevano bisogno di un mediatore per i prezzi, per negoziare il possibile contratto di compravendita. E questo lo si chiamava con il nome inter-pretium, ossia colui che media tra i prezzi. Evidentemente questo signore era un mediatore bilingue. Si mantenne la parola interpretium per interprete-interpres per il semplice mediatore bilingue, qualunque fosse la transazione. Questa è l’origine, e lo proietto qui1 nonostante vari colleghi abbiano messo in dubbio questa mia interpretazione dell’origine della parola interprete, e io gli dico da dove li ho tirati fuori.

Tuttavia, durante tutto il Medioevo, c’è una parola dominante, è turgumán, che deriva niente meno che dalla lingua sumera, la lingua di quel popolo che inventò la civilizzazione, ossia l’arte di vivere in città, l’agricoltura, nella rivoluzione neolitica e che è ha preso a ripetersi: passò alla lingua accadica e poi all’arabo. In ebraico si dice meturguemán, ed è rimasta nel dragoman inglese. Gli inglesi del XIX secolo, nei loro viaggi in India, Africa, non avevano bisogno di un interprete, ma di una specie di Agenzia Cook, il predecessore dell’agenzia Cook, cioè il signore che risolveva loro tutti i problemi in cui incorrevano quando giungevano presso quei popoli sconosciuti, il dragoman. E c’è

62 un’altra origine, la parola tolmetsch, che sembra provenire dal turco, che diede luogo alla versione tedesca di Dolmetscher.

È molto antica la professione. Ma, in realtà, è molto moderna, poiché così come esiste oggigiorno, socialmente, sociologicamente, è una professione ultramoderna, dal momento che, nella sua forma di interpretazione simultanea, nasce, come voi sapete, dopo la Seconda Guerra Mondiale, a Norimberga. Son passati cinquant’anni e, cosa sono cinquant’anni nell’orologio della storia? I medici e gli avvocati hanno dovuto aspettare più di due millenni perché la loro professione si insegnasse come scienza nelle università. Fino agli inizi del XIX secolo non si insegna né la medicina né l’avvocatura nelle università. Iniziò la Germania e a seguire tutta l’Europa, il che vuol dire che se gli interpreti, nella nuova professione, hanno bisogno di cinquant’anni, è comprensibile.

Ebbene, le scienze sociali non sono come le scienze fisiche. Uno scopre cose rare che attraversano i confini dell’universo visibile o i geni, cose molto piccole che stanno da quelle parti. Io credo che le scienze sociali si occupino di cose che facciamo tutti i giorni, ma che non comprendiamo. Tutti i giorni interpretiamo, noi interpreti e traduttori, e abbiamo un’impressione di ciò che è la nostra professione. Di questa esperienza di vita, di questa esperienza pratica dell’uomo, su cui deve basarsi la teoria. E l’esperienza, l’esperienza di traduttori e interpreti è stata – questa mattina lo ha detto Wadi Keiser e lo vedrete ovunque - : l’interprete interpreta messaggi, non parole. È la famosa frase, tutti i traduttori hanno detto, quelli che hanno voluto lasciare un segno, lo hanno ripetuto nel corso dei secoli, la famosa frase di San Girolamo, colui che tradusse la Bibbia, e che diceva: “non si traduce parola per parola, ma si estrae il senso dal senso”, salvo, bisogna aggiungere, per la traduzione della Bibbia, che dev’essere totalmente letterale.

Questo corrisponde all’esperienza dei traduttori e degli interpreti. In ogni caso, per sapere di cosa stiamo parlando, per essere sicuri che questa frase generale non sia casuale, andiamo a porre un esempio molto concreto. Se mi chiedessero: “Senti, come si dice kickoff in spagnolo? Io, come interprete professionista direi: questo non si traduce, perché non traduciamo mai parole isolate. Io ti posso dare un equivalente del dizionario, uno, due o tre, perché tutte le parole sono polisemiche, però non si traduce. Le parole isolate non hanno vita, vis et potestatem, come dicevano i giuristi latini. Vale a dire, io, traduzione, no. La parola deve perciò trovarsi, se qualcuno la impiega, in un atto linguistico reale (o, come si era soliti dire prima della mia teoria, in un contesto, ossia, noi diciamo, in un atto del parlare). Questo è un atto linguistico, questa è il frontespizio, il frontespizio di un

documento2. Qui, in questo contesto, esce la parola kickoff; qui la parola kickoff non è più una parola morta, è bensì una parola carica del senso della situazione e del contesto, è piena di vita. Qui interviene il traduttore. Questo è ciò che il traduttore addenta. Qui lavora l’interprete cogliendo il senso in questo contesto.

L’interprete non perderà mai tempo, salvo i principianti, cercando di trovare una traduzione esatta della parola kickoff. Kick può essere tirare calci e off è qualcosa che se ne va. E i principianti o quelli che non sanno ancora tradurre s’incaponiscono nel cercare qualcosa di perfettamente equivalente. Non importa. Non è necessario tradurre. Non si chiede all’interprete che traduca ciò. Questo si può tradurre con “una riunione iniziale o inaugurale”… noi che conosciamo l’inglese, sappiamo al volo che kickoff vuol dire dare un calcio a un pallone da calcio, in determinate situazioni, affinché inizi la partita. Valga da esempio, in quanto non si traducono parole, bensì solamente il senso. Questa è l’esperienza della traduzione, l’esperienza millenaria. Tutti i traduttori che hanno scritto sulla traduzione, da Cicerone a Valéry Larbaud, che ha scritto alcuni magnifici paragrafi su ciò che è la traduzione. Questa è un’esperienza millenaria e, tuttavia, non ha mai trovato il modo per esprimersi sotto forma di scienza.

Ora sì. E sono stati gli interpreti, non i traduttori, quelli che hanno trovato il modo di esprimere questo in maniera scientifica. Vi spiegherò un po’ la teoria della traduzione, così com’è stata scoperta, per la prima volta nella storia, da interpreti. La prima versione, formula, è quella di Danitsa Seleskovitch (io ho scritto il nome così come si deve pronunciare3; si scrive Danica, c, a, ma la pronuncia è questa, Danitsa Seleskovitch). Danica Seleskovitch, che creò la Scuola di Parigi e in seguito il seminario di dottorato all’interno della scuola stessa, è quella che propone questa teoria che fui io a battezzare, in un articolo in francese, la teoria del senso, théorie du sens. In realtà lei raccoglie l’esperienza millenaria che l’interprete vive in modo molto più diretto, no? Il fatto che traduciamo messaggi e diménticati delle parole!… le parole le abbandoni, ti si crea nella mente l’idea di ciò che sta dicendo questo signore e tu lo dici nella tua lingua, ma in quel momento le parole sono già scomparse.

Questo è il grande insegnamento di Danica Seleskovitch, che inizia a pubblicare i suoi libri nel 1968. Lei parla sempre del vouloir dire, ciò che la gente vuol dire. E la verità è che io ho assistito al suo seminario per fare la mia tesi di dottorato, e sono rimasto sempre pieno di ammirazione nel vedere con quale esattezza e dettaglio Danica

2

Vedi nota precedente. 3Vedi nota numero 1.

64 Seleskovitch distingueva sempre, in ciascun caso concreto, ciò che è senso e ciò che è della lingua. Per esempio, noi interpreti facciamo molta fatica a tradurre nomi propri. “Diamo la parola al signor Misbumbaschián…” E chi è? Perché? Perché non c’è senso. È pura lingua. Cioè, bisogna captare esattamente i fonemi ed è molto difficile captare fonemi quando non c’è senso di fondo.

Danica Seleskovitch! Ho imparato grazie a lei – cioè, non so se ho imparato tutto – ma ho comunque sempre ammirato tale precisione nel dettaglio della differenza sensazionale tra il senso, che è la vita, la gente che parla, in una situazione discorsiva, e ciò che è la lingua. Eppure, Danica Seleskovitch non è riuscita a esprimere questa visione in maniera scientifica, ossia accettabile dalle università.

Da qui esce la seconda ondata di interpreti che scrivono a proposito della traduzione, l’ondata scientifica degli anni settanta e ottanta, della quale Daniel Gile, che ha pubblicato diversi libri, è il maggior esponente. Questa ondata scientifica – la chiamo così perché criticò, e tutta la critica non solo è sana, bensì necessaria e imprescindibile nella scienza – criticò l’opera della Seleskovitch e il gruppo della Seleskovitch, al quale io appartenevo, proprio perché riteneva che non fosse scientifica. Loro hanno pubblicato tutta una serie di libri che sono “scientifici”, e indubbiamente hanno scoperto aspetti molto interessanti, ma sempre molto parziali.

L’errore di questa ondata scientifica è doppio: da un lato, criticando la Scuola del Senso, per aver commesso il peccato di non essere scientifica, non hanno mai voluto accettare nei loro libri e testi questa esperienza millenaria degli interpreti. Non hanno voluto utilizzare la parola senso né accettare questa spiegazione. Non accettando ciò, gli mancava l’essenziale. Salvo che, come io ho dimostrato in vari articoli, e cito la pagina, Daniel Gile, in realtà, sta esprimendo l’idea del senso indirettamente e senza rendersene conto perché è inevitabile. L’idea che l’interprete traduca sensi e non parole è inevitabile. Questo è il loro errore. E il secondo errore, sebbene nel complesso il loro contributo sia stato molto favorevole, è credere che l’operazione del tradurre o interpretare possa essere oggetto di una scienza stile fisica, chimica, medica, biologica. L’idea che studiando il cervello qualcuno un giorno scoprirà… - loro parlano della scatola nera – loro, alcuni di loro credono che l’operazione di interpretare, ovvero tradurre, sia qualcosa che si fa con il cervello. Certo, ci vogliono due mani, ci vogliono due piedi, ci vuole un cervello, ma non ha nulla a che vedere con questo. La loro idea è che forse studiando il cervello si possa scoprire un giorno come funziona. È la seconda critica che gli faccio. Ma, tutto considerato, il loro contributo è molto positivo.

E qui interviene la nostra teoria, la teoria mia e di Sergio4 - non dirò che è solo mia per non essere l’unico ad accollarsi la responsabilità – che è quella di considerarci eredi di quelle due scuole di pensiero, la Scuola del Senso, che raccoglie l’esperienza millenaria della professione, e la Scuola che vuole… che ha la pretesa di creare qualcosa di scientifico, ma “non, vi prego, di scienze naturali, ma di scienze sociali!” Poco tempo fa, una professoressa dell’Università di Bergen, Sandra Halverson – voi leggete il nome da lì? Si sente adesso in fondo alla sala?

[Fine del nastro]

Ora vi do la citazione bibliografica: nella rivista Target, è una delle molte riviste che si occupano di teoria dell’interpretazione. Target, molto seria. Con il titolo di El concepto de equivalencia en los estudios de traducción. È un articolo interessantissimo nel quale questa professoressa norvegese esamina la posizione di ciò che, secondo lei, sono le due scuole principali della teoria dell’interpretazione, vale a dire, la scuola scientifica e poi la

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