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Nelle grandi città europee, note per la loro configurazione cosmopolita, multi- culturale, più o meno tollerante con le minoranze etniche, possiamo tracciare numerosi casi in cui nuovi gruppi musicali sono nati grazie ai contatti, agli scambi e al confronto tra le comunità immigrate e i musicisti già presenti sul territorio di accoglienza.

Bisogna premettere che le comunità straniere, molto strutturate e radicate nelle maggiori capitali dell’Occidente, sono state formate nei decenni successivi alla fine degli imperi coloniali degli Stati Nazione, per cui l’aggregazione tra i musicisti migranti avviene più generalmente su base identitaria.

Da questi incontri sono nati, negli anni Ottanta e Novanta del Novecento, nuovi stili e pratiche musicali. A tal proposito, ricordiamo che in Gran Bretagna uno stile pop conosciuto come bhangra, di origine punjabi, ha incontrato la popular music inglese,

156 ad esempio il rock o la musica elettronica. Similmente si può dire per il räi, nato in Algeria, che attualmente si ritrova nelle grandi città della Francia intriso di altri suoni, dove si è mescolato con l’hip hop francese. È altresì opportuno ricordare gruppi musicali come Zebda di Tolouse, Mano Negra e l’Orchestre National de

Barbès a Parigi, Asian Dub Foundation di Londra, nati dalle aggregazioni di

musicisti migranti provenienti da una medesima periferia e trovatisi ad agire insieme in città diverse della vecchia “madre-patria” coloniale. Questi artisti non solo hanno creato un incrocio di stili, portandovi le proprie radici, ma servendosi di idiomi internazionali sono riusciti a rendere visibile la propria esistenza, enunciando un proprio racconto di identità (G. Béhague, cit. in Martin 2003: 42) e dimostrando il loro grado di partecipazione alla modernità (benché spesso osteggiata per motivi sociali o razziali).

Se prendiamo invece in considerazione le numerose diaspore (africane e asiatiche, prevalentemente) verso i paesi più ricchi e gli ex imperi coloniali occidentali, notiamo che numerosi musicisti, in virtù del loro successo internazionale sono diventati delle vere e proprie “icone” identitarie (Agamennone 2010). Vale la pena ricordare esperienze come quella di Cesária Évora, recentemente scomparsa, trasformatasi, nell’arco di molti anni, da modesta errabonda cantante nei piccoli locali di Capo Verde in star internazionale amatissima non solo dai capoverdiani; oppure, si può citare la vicenda umana di Nusrat Fateh Ali Khan, cantore sufi, quasi identificato con le prospettive statuali e culturali del Pakistan (Baud 1996: 259-274), il quale ha saputo elaborare, dalla sua devozione tradizionale, esperimenti di “fusion” di alta qualità che gli hanno portato popolarità a livello mondiale. Di esperienze culturali in cui nuovi stili musicali sono nati dall’incontro tra culture in movimento - nel caotico alveo delle metropoli occidentali, frutto della coesistenza, più o meno conflittuale, di differenti strutture musicali - ne esistono molte. Elencarle tutte, ovviamente non è possibile; tuttavia si può cercare di comprendere quali siano alcune differenze rilevabili all’interno dei processi di ibridazione musicale verificatesi nel fare delle orchestre multietniche.

Come abbiamo più volte ripetuto, le orchestre multietniche sono generalmente composte da musicisti con un background molto diverso e anche molto distante tra loro, non solo dal punto di vista geografico, ma anche per il percorso di formazione

157 musicale.

Per quanto concerne l’innesco della produzione musicale, possiamo prendere come esempio una riflessione di Mario Tronco, il direttore dell’Orchestra di Piazza Vittorio:

Ogni musicista porta nelle nostre opere la sua cultura, la sua lingua. Si canta infatti in arabo, inglese, spagnolo, tedesco, portoghese, wolof, italiano. La nostra musica è frutto delle proposte dei musici e intrisa di elementi che provengono dal reggae, dalla musica classica, dal pop e dal jazz, la nostra musica è piena di riferimenti alle altre culture” 38.

Può essere considerata come una descrizione approssimativa, ma corrisponde pienamente ad altre esperienze di formazioni multietniche.

Il processo descritto da Tronco, si può facilmente associare ai procedimenti tipici della “world music”, come rappresentata da Martin Stokes:

Musical encounters are orchestrated by prominent rock and pop stars: Peter Gabriel, Brian Eno, Robert Fripp, Transglobal Underground, Natacha Atlas and others. Though billed as exchanges and fusion, they graft exotic sounds onto a western rock and pop musical infrastructure (Stokes 2007: 8).

I processi di negoziato e scambio tra musicisti di provenienza diversa, intrapresi nei nuovi contesti di migrazione, e le formule di orchestrazione consapevolmente applicate dai direttori delle formazioni multietniche, non si allontanano molto dalle modalità di combinazione sonora già sperimentate dai “padri” della “world music”. La musica delle orchestre multietniche, suscitata dall’incontro di stili e strutture musicali di diversa origine, e le sue concatenazioni armoniche sono governate dal predominio della tonalità di matrice occidentale, capace di integrare strumenti e sonorità “esotiche”, e questa combinazione rende il prodotto finale fruibile e appetibile al pubblico occidentale, affascinato dall’esotismo delle “musiche del mondo”.

L’utilizzo di matrici largamente diffuse rende inoltre più facile l’integrazione di musicisti migranti, che generalmente ne conoscono i procedimenti, essendo abituati a suonare in diversi contesti internazionali.

Nell’intento di descrivere in maniera generale lo stile musicale delle orchestre

38Così si è espresso Mario Tronco intervenuto durante il XX Seminario Internazionale di Etnomusi-

158 multietniche, possiamo dunque riprendere il concetto di “urban ethnic music”, proposto dalla studiosa Adelaida Reyes Schramm (1979), per enfatizzare quanto la produzione musicale sia influenzata dal contesto socio-culturale urbano e dalle diversità culturali che lo compongono: un mélange musicale in cui si ritrovano sonorità riconducibili al jazz, alla salsa, alla cumbia, al reggae e ad altre musiche simili, che si sono affermate principalmente nelle grandi metropoli, in cui la grande mobilità delle persone è più facilmente avvertibile (Reyes- Schramm 1979).