Lo studio di parte della ritrattistica del Rinascimento – per Bronzino questo pare particolarmente vero, non solo per la sua duplice attività di pittore e poeta ma per gli intensi legami che intrattenne con i letterati della corte medicea – non può prescindere da una valutazione dei rapporti che, da Francesco Patrarca in avanti, andarono sempre più rinsaldandosi tra artisti e letterati. Rapporti che videro un lento ma significativo mutamento dei tradizionali equilibri tra le due parti e che condussero gli artisti – determinati ad emancipare le loro discipline, tradizionalmente collocate alle ultime posizioni delle gerarchie di tutte le arti liberali, in virtù del fare “meccanico” ad esse connaturato – a contendere ai letterati il primato che questi vantavano su arti quali la pittura e la scultura, nel tentativo di ottenere il riconoscimento della dignità intellettuale del loro lavoro. Un processo in realtà complesso e articolato, che vede gli artisti, oltre che umanisti quali Leon Battista Alberti407, compiere sforzi significativi in questo senso, operando su più fronti:dalla creazione di sistemi teorici, come quelli albertiani, a trattati che ponessero le arti e la prospettiva su basi matematiche, si pensi al De prospectiva pingendi di Piero della Francesca408, al primo tentativo, condotto da Lorenzo Ghiberti409 nei Commentari, di scrivere “biografie” degli artefici più significativi – procedendo ad una trattazione storica organica, scandita dall‟antichità fino alla sua autobiografia – al fine di farne conoscere le opere. Gli artisti, ora eruditi, escono dalle botteghe e partecipano della vita culturale delle corti, toccando livelli di consapevolezza prima impensabili, fino a giungere alle osservazioni leonardesche e al ribaltamento, da lui proposto, del tradizionale sistema delle arti, con la pittura che assurgere a scienza e l‟occhio, in virtù di un suo presunto primato sugli altri sensi, a strumento
407 Si veda in particolare il De pictura, ed. consultata, R
OCCO SINISGALLI, Il nuovo De pictura di Leon Battista
Alberti, Roma, Edizioni Kappa, 2006.
408 P
IERODELLA FRANCESCA, De prospectiva pingendi, a cura di Giusta Nicco Fasola, Firenze, Sansoni, 1942.
409 L
ORENZO GHIBERTI, I commentarii: (Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, II, I, 333), introduzione e cura di Lorenzo Bartoli, Firenze, Giunti, 1998.
108 conoscitivo per eccellenza. La pittura si eleva in Leonardo ad arte guida, superiore di molto alla poesia, come alla scultura410.
Tali teorizzazioni contribuiscono notevolmente a creare quella figura di artista erudito sempre più diffusa presso le corti rinascimentali, e richiesta con insistenza dai principi. Questi ultimi, difatti, compreso da tempo il ruolo che le arti potevano svolgere in termini di “propaganda politica” – proprio agli artisti si affidavano per la progettazione di fortificazioni, come per l‟edificazione e la decorazione dei propri palazzi, per la realizzazione di apparati effimeri o ancora di ritratti. D‟altra parte, la grandezza di figure quali Leonardo, Michelangelo, Raffaello – i cui esiti artistici raggiunsero livelli a tal punto eccezionali da ribaltare, in alcune circostanze, i rapporti di forza con gli stessi principi – costrinse i letterati a interagire con gli artisti alla pari, oltre a interrogarsi sulla legittimità del pregiudizio della supremazia della parola sull‟immagine, la cui validità fin a quel momento era stata indiscussa, e a ripensare i confini tra le due discipline. Confini, che seppure strenuamente difesi dai letterati, erano tuttavia formali e nella prassi continuamente valicati dall‟una e dall‟altra parte, come dimostrano le contaminazioni e collaborazioni tra le categorie: i letterati e gli eruditi si interessano alle arti, come committenti e teorici o ancora come ideatori di programmi iconografici, gli artisti scrivono versi e trattati e si accostano ai classici attraverso i volgarizzamenti. Amicizie intense e scambi costanti che portano gli artisti a giovarsi significativamente, nella realizzazione delle loro opere, della consultazione con i letterati e questi ultimi, non meno, ad aprirsi, in versi e in prosa, ad un‟espressività descrittiva tale da evocare le arti visive411. Uno scambio ben sintetizzato, pur se condotto all‟interno di un discorso che sancisce la subalternità della pittura rispetto alla poesia, da Benedetto Varchi nell‟ambito dell‟Inchiesta sulla maggioranza delle arti, da lui organizzata la terza domenica di Quaresima del 1546 (1547, stile comune) presso l‟Accademia Fiorentina. A proposito di questo argomento, nel corso della terza disputa della seconda Lezzione, dal titolo In che siano
simili et in che differenti i poeti et i pittori, il letterato annota:
non ho dubbio nessuno che l‟essere pittore giovi grandissimamente alla poesia, così tengo per fermo, che la poesia giovi infinitamente a‟ pittori; onde si racconta che Zeusi, che fu tanto eccellente, faceva le donne grandi e forzose, seguitando in ciò Omero; e Plinio racconta, che Apelle dipinse in modo Diana fra un coro di vergini che sacrificavano, ch‟ egli vinse i versi d‟Omero che scrivevano questo medesimo. Il che si può ancora vedere nella Lupa che allatta e lecca Romolo e Remo, descritta prima da Cicerone, e poi da Virgilio in quell‟atto e modo medesimo che si vede oggi nel Campidoglio.
410
Si veda a proposito: Leonardo da Vinci‟s Paragone. A Critical interpretation with a New Edition of the text in
the Codex Urbinas, a cura di Claire J. Farago, Leida, Brill, 1992.
411 Si veda: G
IORGIO PADOAN, ʻUt pictura poesisʼ: le «pitture» di Ariosto, le «poesie» di Tiziano, in ID.,
109
E io per me non dubito punto, che Michelagnolo, come ha imitato Dante nella poesia, così non l‟abbia imitato nelle opere sue, non solo dando loro quella grandezza e maestà, che si vede ne‟ concetti di Dante; ma ingegnandosi ancora di fare quello o nel marmo o con i colori, che aveva fatto egli nelle sentenze e colle parole412
Un gioco di rimandi tra testi e immagini che prevede più di un punto di contatto: Apelle guarda alle descrizioni omeriche per la precisazione del canone di bellezza femminile messo a punto nelle sue pitture; Cicerone e Virgilio paiono evocare la Lupa capitolina quando narrano la storia di Romolo e Remo; infine, il parallelismo ormai noto in ambito toscano, tra due delle principali glorie fiorentine, Dante e Michelangelo. Un‟idea che assume una volta di più i contorni del topos e prevede l‟associazione di un grande artista ad un grande poeta, tuttavia concretizzatasi nella prassi nel corso dei secoli XV e XVI, nelle ripetute collaborazioni tra artisti e letterati per l‟elaborazione di cicli ad affresco, di dipinti mobili e apparati effimeri. Uno scambio che tuttavia, nonostante i progressi compiuti dalle discipline artistiche, i letterati non intendevano considerare come paritario. L‟inchiesta varchiana, sulla quale si avrà modo di ritornare successivamente, rappresenta un‟evoluzione ulteriore del dibattito, all‟interno del quale la differenza tra pittura e poesia – che nella terza disputa sembra profilarsi proprio in relazione al genere del ritratto – si scioglie principalmente come dialettica tra sostanza e forma, tra essere e apparire, tra interiorità ed esteriorità.
Non in questi termini, circa un ventennio prima, era stato affrontato il problema da Pietro Bembo nelle Prose della volgar lingua. In questa sede, il poeta veneto pone l‟accento della sua disamina sul problema della durata dell‟opera d‟arte, la cui caducità ostacola, per gli artisti, il raggiungimento di una gloria imperitura. Gloria che può essere conferita solo dagli scritti, che invece sopravvivono nel tempo:
Questo hanno fatto più che altri, monsignore messer Giulio, i vostri Michele Agnolo fiorentino e Rafaello da Urbino, l‟uno dipintore e scultore e architetto parimente, l‟altro e dipintore e architetto altresì; e hannolo sì diligentemente fatto, che amendue sono ora così eccellenti e così chiari, che più agevole è a dire quanto essi agli antichi buoni maestri sieno prossimani, che quale di loro sia dell‟altro maggiore e miglior maestro. La quale usanza e studio, se, in queste arti molto minori posto, è come si vede giovevole e profittevole grandemente, quanto si dee dire che egli maggiormente porre si debba nello scrivere, che è opera così leggiadra e così gentile, che niuna arte può bella e chiara compiutamente essere senza essa. Con ciò sia cosa che e Mirone e Fidia e Apelle e Vitruvio, o pure il vostro Leon Battista Alberti, e tanti altri pellegrini artefici per adietro stati, ora dal mondo conosciuti non sarebbono, se gli altrui o ancora i loro inchiostri celebrati non gli avessero, di maniera che vie più si leggessero, della loro creta o scarpello o pennello o archipenzolo le opere, che si vedessero413
412
Due lezzioni, cit., I, pp. 56-57.
413 C.D
IONISOTTI, Prose e Rime, cit., pp. 183-185. Nell‟editio princeps del testo [Venezia 1525], come sostenuto da Dionisotti (Ivi, p. 184, nota 3), Michelangelo era detto scultore e pittore, così come Raffaello pittore e architetto e solo nell‟edizione postuma curata da Benedetto Varchi (1548), il Buonarroti è ulteriormente
110 La questione non è legata strettamente alla gloria degli artefici, ma anche e soprattutto a quella degli insigni personaggi rappresentati. Le arti, destinate a perire, non assicurano la gloria, fondamentale per i poeti, i quali speravano attraverso le loro opere di superare la morte e di farsi conoscere presso i posteri. Tema questo, intimamente legato anche alla poesia petrarchesca, che è al centro di un sonetto inviato dal Bembo proprio al Varchi all‟incirca nel 1542:
Varchi, le vostre pure carte e belle, che vergate talor per onorarmi, più che metalli di Mirone e marmi di Fidia mi son care e stil d‟Apelle.
Ché se già non potranno e queste e quelle mie prose, cura di molt‟anni, o carmi, nel tempo, che verrà, lontano farmi, eterna fama spero aver con elle414
In virtù della maggiore durevolezza della poesia rispetto alle arti, pensiero che sottintende l‟intero componimento, Bembo sostiene di apprezzare i versi inviatigli da Varchi per onorarlo, molto più delle opere di Mirone, Fidia e Apelle, poiché se non potranno eternarlo le sue stesse prose, o i suoi carmi, fama imperitura avrà almeno nelle «carte» dell‟amico. Per Bembo il raggiungimento della fama è di primaria importanza e non casualmente, nel brano della Prose che segue subito dopo di quello precedentemente analizzato, il letterato menziona Omero, la gloria da lui conferita ad Achille e il rammarico provato da Alessandro Magno davanti la tomba dell‟eroe, deluso di non avere incontrato un poeta che ne eternasse le gesta in egual misura:
Quantunque non pur gli artefici, ma tutti gli altri uomini ancora di qualunque stato, essere lungo tempo chiari e illustri non possono altramente. Anzi eglino tanto più chiari sono e illustri ciascuno, quanto più uno, che altro, leggiadri scrittori ha de‟ fatti e della virtù sua. Perché ragionevolmente Alessandro il Magno, quando alla sepoltura d‟Achille pervenne, fortunato il chiamò, così alto e famoso lodatore avendo avuto delle sue prodezze; quasi dir volesse, che egli, se bene molto maggiori
qualificato come architetto. Tale inserto più che rimandare ad una maggiore conoscenza dell‟opera dell‟artista da parte del Bembo, potrebbe essere dovuta alla mano dello stesso Varchi, forse intervenuto sul testo, nell‟ambito della sua prospettiva fiorentinocentrica, al fine di rimarcare la superiorità di Michelangelo su Raffaello. Tale ipotesi, a parer mio convincente, è avanzata da Marco Collareta. M.COLLARETA, Pietro Bembo e la nozione di
arte classica, (in corso di pubblicazione).
414 C. D
IONISOTTI, Prose e Rime, cit., p. 614, n. CXXXI, vv. 1-8. Tali versi furono scritti, come ricorda Dionisotti, sicuramente prima del 1542, anno in cui il sonetto fu edito a Venezia ne l‟Opera nova nella quale si
contiene un capitolo del s. Marchese del Vasto, stanze del s. Alvise Gonzaga, sonetti di mons. Pietro Bembo e del divino P. Aretino. Sulle due terzine del componimento, fondamentali per documentare il legame del Bembo
111
cose facesse, non andrebbe così lodato per la successione degli uomini, come già vedeva essere ito Achille, per lo non avere egli Omero che di sé scrivesse, come era avenuto d‟avere allui415
La scelta, operata da Bembo, di citare Alessandro è mirata e, nel contesto sopra descritto, una volta di più finalizzata a scardinare la consapevolezza degli artisti, che proprio dell‟intimo rapporto intessuto dal condottiero macedone con Apelle e Lisippo e della gloria pervenuta ai due artisti dall‟averlo ritratto, avevano fatto uno dei vessilli nella corsa per l‟elevazione del proprio status416. Sebbene difatti, nei testi antichi fosse ben radicato il pregiudizio dell‟inferiorità delle arti rispetto alle lettere417
, allo stesso tempo le fonti trasmettevano le storie di principi che stimarono così tanto alcuni artisti da instaurare con loro un legame quasi paritario (il caso di Apelle in questo senso è esemplare). Tali racconti costituivano una spinta propulsiva per i moderni, che speravano, come gli antichi, di raggiungere uno status sociale di maggiore prestigio, e di recuperare per le loro discipline quella dignità che un tempo sembrava avessero avuto e poi gradualmente perso418.
In questo processo, determinante era stato il recupero di due importanti testi dell‟antichità, la Poetica di Aristotele e l‟Ars poetica di Orazio, la cui autorità indiscussa si sperava aiutasse a sostenere che pittura e poesia erano “arti sorelle” senza alcun debito di subalternità della
415 Ibidem.
416 Non meno importante è l‟eco del sonetto petrarchesco «Giunto Alessandro a la famosa tomba», nel quale il
poeta d‟Arezzo in parte piange la sfortuna di Laura, le cui doti e il cui valore avrebbero meritato un cantore come Orfeo e Virgilio, o ancora come Omero, a cui si deve l‟eterna gloria di Achille. F.PETRARCA, Canzoniere, cit., pp. 812-815, n. CLXXXVII («Giunto Alexandro a la famosa tomba/ del fero Achille, sospirando disse:/ O fortunato, che sì chiara tromba/ trovasti, et chi di te sì alto scrisse!// Ma questa pura et candida colomba,/ a cui non so s‟al mondo mai par visse,/ nel mio stil frale assai poco rimbomba:/ così son le sue sorti a ciascun fisse.// Ché d‟Omero dignissima et d‟Orpheo/ o del pastor ch‟anchor Mantova honora,/ ch‟andassen sempre lei sola cantando,// stella difforme et fato sol qui reo/ commise a tal che ‟l suo bel nome adora,/ ma forse scema sue lode parlando»).
417 Per un repertorio di testi antichi sull‟argomento si veda A
DOLF REINECH, Textes grecs et latins relatifs a
l‟histoire peiture ancienne. Recueil Milliet [1921], premessa di Salomon Reinach, introduzione e note di Agnes
Rouveret, Oaris, Macula, 1985. Un numero considerevole di aneddoti sugli artisti si ritrova nel XXXV libro della Naturalis Historia di Plinio il Vecchio, ed. consultata GAIO SECONDO PLINIO, Storia naturale, prefazione di Italo Calvino, saggio introduttivo di Gian Biagio Conte, nota biobibliografica di Alessandro Barchiesi, Chiara Frugoni, Giuliano Ranucci, 5 voll., Torino, Einaudi, 1982-1988. Grande diffusione, nel corso del Quattrocento, avevano avuto inoltre due importanti raccolte di epigrammi, l‟Appendix Planudea e l‟Antologia Palatina, nelle quali sono presenti numerosi versi dedicati ad opere antiche, generalmente eroi o divinità. Si veda a proposito JAMES HUTTON, The Greek Anthology in Italy to the Year 1800, Ithaca, Cornell University Press, 1935.
418 È Plinio a ricordare che la pittura su tavola, nell‟antichità, aveva raggiunto lo stato di arte liberale ed era
praticata anche dai principi. G.S.PLINIO, Storia naturale, cit., V, p. 377 (« [In relazione a Panfilo, maestro di Apelle] Per la sua autorità ne conseguì che prima a Sicione, poi in tutta la Grecia, i ragazzi nati liberi prima di tutto imparassero la graphiké, cioè la pittura su legno, e tale arte fosse accolta al primo stadio delle arti liberali. E sempre essa ebbe tale onore che la esercitavano i cittadini liberi, poi anche persone di rango, mentre fu per sempre interdetto che la si insegnasse agli schiavi. Pertanto né in questa né nella statuaria, sono celebrate opere di schiavi»). Il brano pliniano è traslitterato da molti umanisti del Cinquecento, tra questi da Castiglione. BALDASSAR CASTIGLIONE, Il Libro del Cortegiano [Venezia 1528], con introduzione di Amedeo Quondam, note di Nicola Longo, Milano, Garzanti, 2006, pp. 102-103 («Né vi meravigliate s‟io desidero questa parte, la qual oggidì forsi par mecanica e poco conveniente a gentiluomo; ché ricordomi aver letto che gli antichi, massimamente per tutta la Grecia, voleano che i fanciulli nobili nelle scole alla pittura dessero opera come a cosa onesta e necessaria. E fu questa ricevuta nel primo grado dell‟arti liberali»).
112 prima nei confronti della seconda419. Sia il filosofo greco che il poeta latino avevano difatti sostenuto analogie tra le due discipline. Analogie, come ricordato da Lee, finalizzate a chiarire concetti poetici e in nessun modo volte all‟equiparazione delle due, che tuttavia i teorici delle arti, e non solo, reinterpreteranno al fine di sostenere le proprie ragioni. Centrale era stato il brano aristotelico in cui il filosofo aveva definito il fare umano come oggetto di imitazione sia per il poeta che per il pittore:
Poiché coloro che imitano, imitano persone che compiono azioni e queste persone sono necessariamente o elevate o di bassa levatura (infatti, a questi soli tipi seguono quasi sempre i caratteri, giacché, quanto ai caratteri, tutti differiscono per il vizio e per la virtù), [imiteranno] persone o migliori rispetto a noi, o peggiori, o della nostra stessa qualità, come i pittori. Infatti, Polignoto raffigura persone migliori, Pausone persone peggiori, Dionisio persone di pari qualità420
Un concetto più volte volutamente frainteso e che Benedetto Varchi, profondo conoscitore della filosofia aristotelica, vuole subito chiarire in apertura della terza disputa, evidenziando che nonostante si pensi che l‟imitazione della natura sia oggetto della pittura come della poesia, tra le due ci sono differenze sostanziali in termini di competenze e metodologie:
essendo il fine della poesia e della pittura il medesimo secondo alcuni, cioè imitare la natura quanto possono il più, vengono ad essere una medesima e nobili ad un modo; e però molte volte gli scrittori danno a‟ pittori quello che è de‟ poeti, e così per lo contrario421
Entrambe sono simili «perché amendue imitano la natura»422, ma diverse nella sostanza, come avrà modo di dimostrare nel corso della trattazione, chiarendo uno per uno i nodi della questione. Imitazione – in questo senso risulta prepotentemente che il testo di Varchi è di ispirazione aristotelica ma allo stesso sincretizza istanze platoniche, oltre che concetti legati alla tradizione cristiana – che tuttavia risulta complessa sia per la poesia che per la pittura, poichè la natura è un prodotto divino. In questo senso, il processo imitativo non sarà mai a tal punto perfetto da eguagliare il modello rappresentato. Nell‟espressione «quanto possono il più» – che certamente non sarebbe stata sottoscritta da Aristotele, il quale credeva
419
Sul concetto di ut pictura poesis, ancora fondamentale è il saggio di RENSSELAER W.LEE, Ut pictura poesis:
the humanistic theory of painting, «The Art Bulletin», XXII, 1940, 4, pp. 197-269, ed. consultata ID., Ut pictura
poesis, la teoria artistica della pittura (trad. it. Catervo Blasi Foglietti), Sanzoni, Firenze, 1974.
420 A
RISTOTELE, Retorica e Poetica, a cura di Marcello Zanatta, Torino, UTET, 2004, p. 591. Il filosofo greco conduce un‟ulteriore analogia tra l‟intreccio della tragedia e il disegno per la pittura. Ivi, p. 603 («Inoltre, ne è segno il fatto che pure coloro che intraprendono a poetare prima sono in grado di essere precisi con l‟elocuzione e con i caratteri che di comporre i fatti: per esempio, anche quasi tutti quanti i primi poeti. Dunque il racconto è il principio e come l‟anima della tragedia; in secondo luogo vengono i caratteri (ché, all‟incirca è così anche nel caso della pittura: infatti se uno pasticciasse alla rinfusa con i colori più belli, non procurerebbe piacere, in modo simile a cui dipinge un‟immagine in bianco)»).
421 Due lezzioni, cit., p. 53. 422
113 fermamente nelle possibilità delle arti di imitare la natura – come mi suggerisce Marco Collareta è ravvisabile un contatto con la filosofia di San Tommaso, che aveva integrato l‟aristotelica frase «Ars imitatur natura»/ «L‟arte imita la natura» con l‟espressione «in quantum potest»/ «per quanto può». Frase celebre, che a Varchi poteva essere giunta attraverso la lettura di Dante, che ripropone il concetto in alcuni versi del IX canto dell‟Inferno:
«Filosofia», mi disse, «a chi la ‟ntende, nota, non pur in una sola parte,
come natura lo suo corso prende dal divino ‟nteletto e da sua arte; e se tu ben la tua Fisica note, tu troverai, non dopo molte carte,
che l‟arte vostra, quella, quanto pote, segue, come ‟l maestro fa ‟l discendente;
sì che vostr‟arte a Dio quasi è nepote (vv. 97-105)423
Orazio offriva, per parte sua, due spunti significativi per sostenere la causa della pittura. In apertura dell‟Ars poetica, aveva difatti concesso a pittori e poeti la medesima licenza nella