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5.5 – PRIME CONCLUSIONI

Nel documento UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI PARMA (pagine 48-51)

L’analisi di quest’ultima sentenza ci aiuta a capire che anche la tutela per i marchi rinomati non è assoluta e nemmeno astratta, richiede anzi che l’uso di un segno eguale o simile al marchio, da parte di un soggetto non autorizzato dal titolare, sia in grado di istituire un “nesso”, cioè un collegamento tra il segno dell’imitatore ed il marchio imitato, in mancanza del quale non sarebbero concepibili né l’indebito vantaggio né il pregiudizio ai quali l’art. 20 comma 1 lett. c) CPI fa riferimento89. Si delinea così la centralità della funzione comunicativa del marchio e il fatto che la sua tutela attiene strettamente alla sua capacità di comunicare un messaggio rilevante nel giudizio del pubblico. Secondo i giudici del Benelux sarebbe stata sufficiente la base giuridica insita nella nozione di rischio di associazione, non così invece per la Corte di Giustizia che, in un certo senso, l’ha sdoppiata, ritenendola, da un lato, come riportata letteralmente anche dalle legislazioni degli Stati Membri, contenuta nell’alveo dell’art. 5.1 lett. b) della Direttiva, mentre dall’altro lato e con l’uso di altra terminologia, legata all’art. 5.2 della Direttiva.

89 Vedi GALLI, commento art. 20, par. 5, D.Lgs. 10.2.2005, n. 30, in GALLI-GAMBINO (a cura di). CCPI, 274-275.

Sulla base delle conclusioni cui giunge la Corte di Giustizia, tuttavia, a mio giudizio, le ipotesi di cui alla lettera b) e c) dell’art. 20 comma 1 CPI, in un certo qual modo si possono compensare e completare, dovendosi riservare ai marchi rinomati la tutela dettata dalla lett. c), ove per la sua applicazione basta l’esistenza di un “nesso” tra i segni in contestazione che porti ad un agganciamento al segno conosciuto altrui, a prescindere dal pericolo di confusione; mentre a tutti gli altri marchi si applica la tutela di cui alla lett.

b), ove tra i segni in contestazione deve effettuarsi un giudizio sulla confondibilità, che deve aver esito in concreto positivo per aversi contraffazione.

Rimane, sullo sfondo di entrambe le ipotesi, la centralità, come abbiamo detto prima, della funzione comunicativa del marchio e quindi del messaggio di cui esso è intriso e che trasmette al pubblico90. Questo marchio comunica informazioni che non possono non influenzare l’impressione dei consumatori sul fatto di ritrovarsi di fronte ad un marchio appartenente alla medesima impresa (o ad una ad essa collegata), quando vedono un segno uguale o simile usato nello stesso o in un diverso settore merceologico.

Come ha ben sottolineato autorevole dottrina, anche nel giudizio di confondibilità è dunque necessario considerare il messaggio che un qualsiasi segno reca con sé, riconoscendo “un pericolo di confusione quando il pubblico è in grado di riferire questo messaggio anche ai prodotti o servizi in relazione ai quali viene usato il segno dell’imitatore, ritenendo che la presenza di tale segno stia a indicare la provenienza di essi dalla stessa fonte (in senso stretto o in senso lato) di quelli che già conosce con il marchio originale; il consumatore quando vede il segno dell’imitatore è indotto a confrontare, spesso senza rendersene conto, questo segno e le informazioni che esso comunica in relazione al contesto in cui viene usato con il ricordo

90 Importanti contributi per ricercare che tipo di messaggi un marchio reca con sé e la sua portata distintiva li troviamo in SANDRI, Ricezione percettiva del marchio e ricettore molecolare, in Il Dir. Ind., 2007, 357 ss e SANDRI, Percepire il marchio: dall'identità del segno alla confondibilità, 2007, secondo il quale la valutazione giuridica delle fattispecie che si esaminano deve necessariamente integrarsi con i risultati a cui pervengono gli studiosi di marketing e di comunicazione.

del marchio imitato e del messaggio ad esso collegato”91, se si rinviene una coerenza, tra messaggio e prodotti o servizi per il quale viene usato il segno dell’imitatore, tale da indicare, secondo la percezione del pubblico, che essi abbiano origine dalla medesima impresa, allora siamo in presenza di pericolo di confusione, a prescindere dalla distanza merceologica dei settori (anche perché i consumatori potrebbero ritenere che si tratti di una nuova linea di prodotti o di c.d. marchi in serie).

Da un altro punto di vista, fondamentalmente, ritengo che chi abbia intenzione di entrare sul mercato, spesso voglia in un qualche modo, istituire una sorta di. “nesso”, ossia un richiamo a qualcosa di già esistente, per poter approfittare, anche solo lievemente, della condizione di un segno altrui, solitamente o apparentemente conosciuti. Non tutte le volte, tuttavia, siamo di fronte a marchi che possono definirsi rinomati e dunque in tale caso si dovrebbe applicare esclusivamente la fattispecie relativa al pericolo di confusione: si pensi ai segni utilizzati in ambito puramente locale che relativamente, ossia nella zona in cui usati, possono comunque godere di una certa forma di notorietà, ad esempio un bar o una pizzeria di città molto frequentati, difficilmente saranno però conosciuti in altre parti d’Italia e nemmeno nelle province limitrofe, tuttavia se un soggetto apre, sempre nella stessa città o in un comune limitrofo, un bar o una pizzeria con insegna identica o molto simile, la clientela che se ne imbatte potrebbe facilmente pensare che il titolare della prima abbia aperto un altro punto vendita o che comunque questo locale sia sotto la sua diretta o indiretta responsabilità.

Tale comportamento certamente potrebbe recar danno all’attività del primo imprenditore. Anche questo è uno degli esempi che dimostra la potenziale applicazione della norma esaminata in questo capitolo, anche se in un ambito certamente meno ampio di quello che la dottrina italiana considerava fino a qualche anno fa.

91 Così GALLI, Funzione del marchio e ampiezza della tutela, 1996, 106. La giurisprudenza sempre restando nell’ambito del pericolo di confusione ha effettuato tali rilievi già negli anni ’70 e ’80 per ampliare la protezione dei marchi c.d. celebri, ad esempio in Trib. MI, 6.11.1978, in GADI 1978, 652 per il marchio Cartier e Trib. MI, 9.2.1989, in GADI 1989, 263 per il marchio Krizia, puntando al carattere simbolico e suggestivo che evocano i marchi in esame.

A chiosa di questa lunga dissertazione sull’art. 20, comma 1 CPI, sia per le ipotesi di cui alla lett. b) che per la lett. c), mi sembra logico sposare tali considerazioni: “la contraffazione nasce dall’esistenza di un richiamo al marchio originale da cui può derivare alternativamente o contemporaneamente un pregiudizio o un approfittamento legati ai suoi valori di comunicazione, siano essi riferiti alla componente più propriamente distintiva del messaggio (l’esistenza di un’esclusiva e quindi la confondibilità), ovvero alle componenti qualitative e suggestive di esso (il

“nesso” e quindi la contraffazione non confusoria), peraltro di regola inscindibilmente connesse le une con le altre, il che rende la distinzione tra queste diverse protezioni inattuale e inattuabile”92. A prescindere dunque dalla fattispecie cui fare riferimento normativo, l’importante è apprestare protezione contro l’uso illecito di marchi altrui.

CAPITOLO 6

LA CONTRAFFAZIONE PER L’USO DI UN MARCHIO

Nel documento UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI PARMA (pagine 48-51)