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PRINCIPALI RIFERIMENTI NORMATIVI

Nel documento UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI PARMA (pagine 73-76)

L’obiettivo della seconda parte di questo lavoro è di individuare quali siano le limitazioni a cui deve sottoporsi il titolare di un marchio nell’ambito della sua esclusiva, o, in altri termini, dove si arresta la possibilità per un terzo di utilizzare segni distintivi, appartenenti ad un soggetto imprenditoriale diverso, in modo lecito. Insomma il potere di godere in via esclusiva del proprio segno deve essere esercitato a condizione che ciò non si ponga in contrasto con la struttura concorrenziale dei mercati: il rischio, infatti, di una tutela troppo ampia può concretizzarsi, soprattutto per i marchi rinomati, data la loro proteggibilità anche per beni non affini, con un monopolio esteso ben oltre i confini nazionali, anche mediante l’uso di licenze esclusive, che potrebbe rappresentare un’insuperabile barriera all’ingresso di nuovi competitors anche in tutta l’Unione Europea, contraddicendo irrimediabilmente i principi cardine del sistema concorrenziale, fondato sulla libera circolazione di merci e servizi132.

Abbiamo già avuto modo di constatare, nella prima parte del lavoro, che vi sono diverse ipotesi di usi che non possono essere impediti da parte del legittimo proprietario di un marchio o addirittura che il titolare può, tramite suo espresso consenso, accordare. Ad esempio, nel capitolo 1, abbiamo citato i casi di licenza di marchio e di accordi di coesistenza133.

Inoltre nell’analisi delle fattispecie all’interno dell’art. 20 CPI, esaminate nei capitoli 4 e 5, si è potuto avere un quadro sull’uso identico o simile di un marchio altrui, identificando, tramite l’interpretazione giurisprudenziale e le teorie dottrinali, quando potesse dichiararsi lecito tale uso, ossia, prendendo in esame la normativa stessa: nel caso dell’art. 20, comma 1, lett. b) CPI, qualora non sussista il rischio di confusione; mentre per la lett. c), in

132 Vedi GHIDINI, Brevi note metodiche sulla “intersezione” fra disciplina della proprietà intellettuale e normative della concorrenza, in Studi in memoria di Paola Frassi, 2010, 426.

133 Vedi per approfondimenti dottrinali e giurisprudenziali, GALLI, commento all’art. 20, D.Lgs. 10.2.2005, n. 30, in GALLI-GAMBINO (a cura di) CCPI, 264.

riferimento ai marchi rinomati, quando tale uso non abbia recato ad essi pregiudizio o non sussista approfittamento ai loro danni, facendo coincidere tale liceità nel “vantaggio non indebito”, oppure in ipotesi di “giusto motivo”.

Tra i principali riferimenti normativi, che vanno citati e che approfondiremo nel corso del lavoro, vi è l’art. 5 CPI, sul principio di esaurimento dei diritti di proprietà industriale, tra cui il marchio, dopo la prima immissione in commercio del prodotto, e la fattispecie di pubblicità comparativa, di cui all’art. 4 del D.Lgs. n. 145/2007, nella quale si rinviene, nella quasi totalità dei casi, un utilizzo del marchio altrui, o comunque un riferimento ad esso o al suo titolare, per effettuare il confronto tra prodotti o servizi, requisito necessario ed inevitabile per aversi tale fattispecie.

Il riferimento normativo più diretto per analizzare la liceità dell’uso del marchio altrui, tuttavia, è sicuramente all’art. 21 CPI, intitolato “Limitazione del diritto del marchio” in cui viene con precisione descritto, in particolare al comma 1, quale uso, nell’attività economica, il titolare del marchio non può vietare a terzi. Vale la pena riportare integralmente il suddetto articolo:

“1. I diritti di marchio d’impresa registrato non permettono al titolare di vietare ai terzi l’uso nell’attività economica, purché l’uso sia conforme ai principi della correttezza professionale: a) del loro nome e indirizzo;

b) di indicazioni relative alla specie, alla qualità, alla quantità, alla destinazione, al valore, alla provenienza geografica, all’epoca di fabbricazione del prodotto o di prestazione del servizio o ad altre caratteristiche del prodotto o del servizio;

c) del marchio d’impresa se esso è necessario per indicare la destinazione di un prodotto o servizio, in particolare come accessori o pezzi di ricambio.

2. Non è consentito usare il marchio in modo contrario alla legge, né, in specie, in modo da ingenerare un rischio di confusione sul mercato con altri segni conosciuti come distintivi di imprese, prodotti o servizi altrui, o da indurre comunque in inganno il pubblico, in particolare circa la natura, qualità o provenienza dei prodotti o servizi, a causa del modo e del contesto

in cui viene utilizzato, o da ledere un altrui diritto di autore, di proprietà industriale, o altro diritto esclusivo di terzi.

3. È vietato a chiunque di fare uso di un marchio registrato dopo che la relativa registrazione è stata dichiarata nulla, quando la causa di nullità comporta la illiceità dell’uso del marchio.

Ovviamente anche questa norma è stata inserita per dare attuazione alla Direttiva Comunitaria, 21.12.1988, n. 89/104/CEE, ora divenuta, Direttiva n. 2008/95/CE, approvata il 22 ottobre 2008, e precisamente all’art. 6, par.

1, della stessa; essa di fatto corrisponde anche all’art. 12 del Regolamento CE, 26.2.2009, n. 207 sul marchio comunitario.

E’ necessario, inoltre, tener presente che l’art. 21 CPI va comunque coordinato con ulteriori disposizioni del Codice stesso quale, ad esempio, quella all’art. 8, comma 2, in materia di registrazione di nome altrui come marchio, ove si specifica anche che “In ogni caso, la registrazione non impedirà a chi abbia diritto al nome di farne uso nella ditta da lui prescelta, sussistendo i presupposti di cui all’art. 21 comma 1”, mentre se si tratta di nomi notori è necessario il consenso dell’avente diritto, altrimenti solo la persona “famosa” stessa, potrà registrare il proprio nome come marchio e, come già abbiamo visto al capitolo 4.3, anche il suo pseudonimo134.

Un ulteriore riferimento si trova, altresì, a proposito dei marchi collettivi, di cui all’art. 11, comma 4, CPI, dove si riporta che: “L’avvenuta registrazione del marchio collettivo costituito da nome geografico non autorizza il titolare a vietare a terzi l’uso nel commercio del nome stesso, purché quest’uso sia conforme ai principi della correttezza professionale”135, risultando palese il richiamo all’art. 21 CPI e dunque la sua centralità nel fissare i limiti alla protezione dei marchi.

I riferimenti normativi, che abbiamo sopra citato, assumono a pieno titolo un rilievo giuridico pro-concorrenziale: si tratta, infatti, di un’esigenza

134 Per tutti gli approfondimenti del caso si rimanda a MAGGI, commento dell’art. 8, D.Lgs. 10.2.2005, n. 30, in GALLI-GAMBINO (a cura di) CCPI, 83-95.

135 Per un analisi accurata si rimanda a LIGUORI, commento dell’art. 11, D.Lgs. 10.2.2005, n. 30, in GALLI-GAMBINO (a cura di) CCPI, 138-141 e GALLI, Marchio, in Il diritto, Enc. giur., IX, Milano, 2007, 410 e ss.

necessaria, valorizzata da tante sentenze della Corte di Giustizia, che hanno imposto, ad esempio, in alcune circostanze, che un segno potesse essere utilizzato o restare a disposizione di chiunque; esigenza che si contrappone e si affianca a quella di carattere monopolistico, che i casi e le norme analizzate nella prima parte del lavoro contenevano, col fine ultimo di cercare il giusto punto di equilibrio tra esclusiva e concorrenza136. Questo bilanciamento tra interessi contrapposti del titolare del marchio e degli altri operatori economici, che vuole assicurare i consumatori sulla garanzia dell’origine dei prodotti e sui benefici economici ricavati dalla sana concorrenza tra prodotti capaci di appagare gli stessi bisogni, fornisce probabilmente la chiave di lettura dell’intera disciplina dei marchi con l’obiettivo di far convergere gli interessi degli imprenditori con quelli dei consumatori.

CAPITOLO 9

Nel documento UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI PARMA (pagine 73-76)