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Le prime scelte, le prime opere

Superior stabat lupus

(L. Sciascia, Favole della dittatura)

Il debutto letterario di Sciascia avviene all’insegna della fantasia e del lirismo, tutte e due direzioni che poi ha abbandonato, ma che, tuttavia, lo hanno condotto a temi e stilemi duraturi.

La prima opera, Favole della dittatura72, appare nel 1950. Sciascia l’ha consi-

derata un’opera di apprendistato e, in un certo modo, l’ha ripudiata, visto che non aveva intenzione di inserirla nell’edizione completa delle sue opere. Molti critici, invece, la apprezzano per l’omogeneità dell’ispirazione e la straordinaria perfe- zione stilistica che rivela già un’insolita sedimentazione culturale. Il volume com- prende ventisette favole brevi in prosa, ispirate a Esopo, a Fedro, agli Animali par-

lanti dell’abate Giambattista Casti, forse ai Paralipomeni della batracomiomachia

di Leopardi e alle storielle allegoriche e satiriche del volume Esopo moderno di Pietro Pancrazi. Il volume si apre con due epigrafi che rinviano non ai modelli let- terari del genere, ma a due realtà vicine di scottante attualità: una citazione dalla

70Cf. Giuseppe Traina, op. cit., p. 86. 71Cfr. Giuseppe Traina, op. cit, p. 204. 72Favole della dittatura, Bardi, Roma, 1950.

Fattoria degli animali di George Orwell che suggerisce la ferocia grottesca del

regime stalinista, e una frase di Leo Longanesi che si riferisce alla boria ridicola del regime fascista. Le scenette allegoriche mettono in evidenza la sostanziale somiglianza fra i due regimi totalitari, la loro inesausta arroganza, il trionfalismo, la menzogna, il trasformismo e il servilismo, la fuga da ogni responsabilità e l’a- dulazione da parte degli intellettuali. I modelli letterari appaiono però molte volte in modo esplicito dando vita a un gioco intertestuale in cui la variante sciasciana si costruisce come assunzione e, allo stesso tempo, rovesciamento o critica del modello. Emblematica è la prima favola che cita esplicitamente quella di Fedro del lupo e dell’agnello:

Superior stabat lupus: e l’agnello lo vide nello specchio torbo dell’acqua. Lasciò di bere, e stette a fissare tremante quella terribile immagine specchiata. «Questa volta non ho tempo da perdere», disse il lupo. «Ed ho contro di te un argomento ben piú valido dell’antico: so quel che pensi di me, e non provarti a negarlo. E d’un balzo gli fu sopra a lacerarlo.73 La nuova favola si presenta come riscrittura di quella antica, ma una riscrittura diversa e che la continua, perché il lupo di Sciascia conosce le argomentazioni con cui nella favola di un tempo l’agnello ha cercato di fuggire e sa anche, proprio come allora, che le giustificazioni e le teorie sono una perdita di tempo, quando quello che detiene il potere intende esercitarlo. Il lupo e l’agnello sanno che il gioco ha una sola regola, cioè che le regole le fa e le cambia il piú forte a suo pia- cimento. La morale delle favole di Sciascia è contenuta tutta in questa fretta del lupo: l’umanità è già fin da ora il luogo dove si può essere soltanto o lupo o agnello, dove – come direbbe l’Adelchi di Manzoni – non resta che fare il torto o patirlo, il luogo che non ammette né speranza né utopia.

Un gioco intertestuale appare anche nella favola in cui la volpe si prende gioco del corvo, perché è nero. Ma il corvo ribatte:

«Vedessi che effetto, quando mi poso sul candido busto di Minerva», gracchiò il corvo. La volpe non sapeva di Edgar Poe; ma dentro sentí come una stridula incrinatura di gelo.74 La volpe, che non ha letto Poe, e l’autore che lo ha letto, avvertono entrambi lo stesso pericolo, cioè l’irrazionale che intrappola per sempre il razionale. Questa è, in effetti, la prospettiva che rivelano le favole di Sciascia, cioè la convinzione oscura che il potere può fare a meno della ragione e che è cosí che si comporta quando ne sente il bisogno (idea che sarà esplicitata in Il Contesto). Di piú, l’e- sercizio del potere è tanto piú inebriante e affascinante proprio quando si allon- tana dalla ragione, come nella favola del cane e del coniglio:

73III, 961. 74III, 962.

C’era luna grande; e il cane dell’ortolano e il coniglio, divisi dal filo spinato, quietamente parlamentarono. Disse il coniglio: «Gli ortaggi tu non li mangi; il padrone ti tratta a cru- sca e calci. La notte potresti serenamente dormire, lasciarmi un po’ in pace tra le verdure e i melloni. Che tu mi faccia paura, non vuol dire che la tua sia migliore condizione della mia. Dovremmo riconoscerci fratelli». E il cane lo ascoltava, pigramente disteso, e il muso sulle zampe. E poi: «Quello che tu dici è vero; ma per me non c’è niente che valga il gusto di farti paura».75

Il critico Gianni Scalia osserva che, al pari di Fedro, Sciascia sta dalla parte dei vinti (e a Fedro, diciamo noi, si potrebbero aggiungere Manzoni, Verga o, per restare piú vicino, tutta la generazione dei neorealisti), ma che, a differenza di Fedro, elimina la morale dalla conclusione e con essa la sua antifrasi liberatrice senza lasciare alle vittime nessuna speranza, neppure quella di una lezione per il futuro: lo schermo favolistico non protegge e non si apre verso un futuro, ma si chiude come una conchiglia e reca in sé la realtà come una fatalità immanente e senza speranza.

A partire dalla stessa osservazione, Massimo Onofri76, attira l’attenzione sul

fatto che, in mancanza di una prospettiva pedagogica, di una visione della storia come progresso, di un’ideologia rivoluzionaria che attraversi la visione lucida e priva di speranza della favola, stare dalla parte dei vinti è una scelta fatta al di là di qualsiasi motivazione razionale: è una scelta fideistica e sentimentale. Sebbene questa penetrante analisi sia stata fatta dai critici ricordati molto dopo la com- parsa delle favole, e, in effetti, alla luce degli scritti successivi di Sciascia, ora, osservata retrospettivamente, resta, crediamo, valida. Inoltre, essa mette in luce una sorta di relazione scomoda che Sciascia ha intrattenuto, fin dall’inizio, con il marxismo (e con i partiti che lo professavano) proprio negli anni in cui tutta la sua generazione andava scoprendo con entusiasmo Gramsci e Lukács. In altre parole, Sciascia riconosce l’esistenza e la giustificazione della lotta di classe, ma, in cuor suo, non crede affatto che sia davvero il motore di un processo storico di emanci- pazione che porterà alla fine alla costruzione di una società giusta e razionale. La sua società, come quella di Manzoni, è divisa, in modo manicheo, fra oppressi e oppressori e la sua storia è, proprio come in Manzoni, il luogo della violenza e della prepotenza; ma, a differenza di Manzoni, Sciascia non ha alla base un pro- getto predeterminato, una provvidenza divina che, se non porta la speranza, potrebbe almeno portare la rassegnazione. Abbiamo insistito su Manzoni, un fat- tore non rilevante in questa tappa cronologica di Sciascia, proprio perché diverrà importante piú tardi, cioè proprio quando questa problematica diverrà imperiosa ed esplicita e quando Manzoni offrirà a Sciascia non solo elementi di riflessione,

75III, 966-967.

ma anche fertili formule narrative. Lo stesso Onofri parla proprio di «giansenismo laico» di questo libro, privo però della speranza della «grazia divina». E, tuttavia, esiste una catarsis, un’effettiva purificazione dalle tenebre e dalla crudeltà di que- sta visione e chi l’ha messa in evidenza è stato Pasolini, nella prima recensione al volume. Pasolini scriveva:

Troppo garante di non volgare attualità è questa lingua cosí ferma e tersa […]. L’elemento greve, tragico della dittatura ha grande parte in queste pagine lievi, ma è trasposto tutto in rapidissimi sintagmi, in sorvolanti battute che però possono far rabbrividire. […] Ma anche questi improvvisi bagliori, queste gocce di sangue rappreso, sono assorbiti nel con- testo di questo linguaggio, cosí puro che il lettore si chiede se per caso il suo stesso con- tenuto, la dittatura, non sia una favola.77

Pasolini fa qui un’affermazione la cui importanza oltrepassa il periodo di cui par- liamo. Con la sua eccezionale sensibilità linguistica, è il primo ad attirare l’atten- zione su un fenomeno che, per gli altri, diverrà evidente molto piú tardi, cioè che in Sciascia lo stile si costituisce come la sola forma possibile di ottimismo e di redenzione dalla cupezza del pensiero, come la sola speranza di fare ordine nel caos dell’esistenza. E va anche detto fin da ora che l’approccio stilistico di Paso- lini ha probabilmente salvato Sciascia dal pericolo di una critica esclusivamente contenutistica e, proprio per questo, riduttiva.

Se non è facile comprendere perché Favole della dittatura siano state ripudiate da Sciascia, il volume successivo, l’unico scritto in poesia, La Sicilia, il suo cuore, pubblicato nel 195278, contiene in sé – a detta di Giuseppe Traina – le ragioni per

essere dimenticato in un armadio con altre anticaglie. Secondo questo critico, di tutto il volume, per il resto abbastanza esile, si salverebbero soltanto alcune poe- sie che ricordano il tono alto ed erudito di Salvatore Quasimodo. Per altro, la poe- sia di Sciascia «tende irresistibilmente, e significativamente, alla prosa, o tutt’al piú al verso lungo di Pavese di radice whitmaniana»79. Traina le scarta perciò

come poesie poco riuscite che oscillano, dal punto di vista tematico e stilistico, fra la solitudine di Ungaretti e l’ermetismo tardivo di alcuni poeti del dopoguerra. Meno severi sono altri critici80, ma anche loro sottolineano il ritmo prosaico, la

tendenza alla narrazione e la mancanza di soggettivismo lirico che allontanano Sciascia dal filone principale della poesia italiana del XX secolo. Al di là del giu- dizio di valore applicabile a questi versi, il rifiuto di Sciascia di scrivere ancora poesie vanifica qualsiasi ostinato commento di natura stilistica. Vale la pena,

77Pier Paolo Pasolini, Dittatura in fiaba, in Massimo Onofri, op. cit., p. 28. 78La Sicilia, il suo cuore, Bardi, Roma, 1952.

79Giuseppe Traina, op. cit., p. 204.

invece, di considerare i temi delle poesie, perché torneranno poi con insistenza nella prosa. In primo luogo, le poesie del volume aiutano a delineare un’immagine della Sicilia e delle sensazioni di vivere in un tale luogo. La Sicilia è «un miope specchio di pena», dove «il silenzio è vorace sulle cose», un mondo che si chiude con ipocrisia nella tradizione, poi è la Sicilia oscura delle miniere, ma è soprattutto l’aria di morte che si diffonde sulle cose e sulla memoria. È anche una Sicilia che, a differenza di quella di Quasimodo81, risulta svuotata dei miti e della gioia:

Gli antichi a questa luce non risero, strozzata dalle nuvole, che geme sui prati stenti, sui greti aspri, nell’occhio melmoso delle fonti; le ninfe inseguite

qui non si nascosero agli dèi; gli alberi non nutrirono frutti agli eroi.82

Senza insistere oltre su questi due primi tentativi letterari rinnegati dall’autore, vogliamo aggiungere, tuttavia, alcune osservazioni che riguardano entrambe le opere e che sono rilevanti per la produzione successiva: innanzi tutto un’ipotesi di Traina83relativa al ripudio:

Forse la ragione del «ripudio» di un libro cosí stilisticamente perfetto84va cercata nel fatto

che Sciascia non vedeva risolto ancora in esso un problema che invece avrà compiuta solu- zione nel saggismo delle Parrocchie di Regalpetra e nella narratività impastata di saggismo che già Gli zii di Sicilia indicano come segno peculiare della scrittura sciasciana: la collo- cazione della propria «voce» autoriale, troppo perfettamente assente nella mimeticità di queste favole, viceversa troppo presente nell’esperimento lirico, poco riuscito, di La Sici-

lia, il suo cuore.

Poi il fatto che entrambe dimostrano una grande preoccupazione per lo stile, pro- prio quando Sciascia iniziava la sua attività alla rivista «Galleria»85e la collabora-

zione a molte altre riviste di cultura dell’isola e della penisola («Sicilia del popolo», «Gazzetta di Parma», «Letteratura», «Nuova corrente», «L’esperienza poetica»), cioè a quelle riviste che preparavano la battaglia per un nuovo linguag-

81Ricordiamo di nuovo la distinzione di Natale Tedesco dei due filoni della letteratura Siciliana

e la differenza affermata esplicitamente da Sciascia fra la Sicilia orientale, di spirito greco, appunto quella di Quasimodo, e la Sicilia occidentale di Sciascia e Pirandello.

82La Sicilia, il suo cuore nella raccolta omonima, in III, 972. 83Giuseppe Traina, op. cit., p. 113.

84Il critico si riferisce a Le favole della dittatura.

85È significativo che, in «Quaderni di Galleria» diretto da Sciascia, i primi volumi siano dedi-

cati a Pasolini, Romanò, Roversi e Leonetti, cioè proprio a quei letterati che costituiranno il nucleo della futura redazione della rivista «Officina».

gio poetico e per un realismo sperimentale, battaglia che dopo un po’ di tempo sarà data dall’«Officina» di Pasolini. In terzo luogo, entrambe contemplano una realtà irrazionale e tetra che il gesto letterario cerca, nel senso psicanalitico della parola, di razionalizzare; in questa fase iniziale una simile visione pare rivelare un dato genetico dell’autore, cioè una desolazione ontologica, già prima di una sociale86, il che mette seriamente in discussione l’ipotesi secondo cui le radici del

pessimismo sciasciano dell’ultimo periodo crescessero esclusivamente dalle sue delusioni politiche. E, connessa a questa «desolazione», un’altra caratteristica costante in Sciascia e che non va trascurata: la mancanza di allegria. Ad eccezione di Candido, la scrittura di Sciascia, che conosce fin troppo bene l’ironia, l’irri- sione, il sarcasmo, non conosce l’allegria – qualità che tanto amava negli altri.

86N. Zago, Il primo e l’ultimo Sciascia, in L’ombra del moderno. Da Leopardi a Sciascia, Sciascia,

III.

LA DISINTEGRAZIONE DEL ROMANZO NEOREALISTA (LE PARROCCHIE DIREGALPETRA EGLI ZII DISICILIA)

Scrivere mi pare […] un modo di ritrovarmi, al di fuori delle contraddizioni della vita,

finalmente in un destino di verità

(L. Sciascia, Gli zii di Sicilia)

Come abbiamo detto, Sciascia volle che l’edizione completa delle sue opere, pubblicata da Bompiani a cura di Claude Ambroise, iniziasse con Le parrocchie di

Regalpetra. In tal modo intendeva confermare il valore cardinale del libro, cioè

sottilinearne l’importanza come fondamento etico, tematico e stilistico di tutta la sua storia di scrittore. Nella prefazione all’edizione del 1967 a Le parrocchie di

Regalpetra Sciascia racconta la genesi del volume:

Nel 1954, sul finire dell’anno scolastico, mentre compilavo quell’atto di ufficio che è, nel registro di classe, la cronaca (appena una colonna per tutto un mese: ed è, come tutti gli atti di ufficio, un banale resoconto improntato al tutto va bene), mi venne l’idea di scrivere una piú vera cronaca dell’anno di scuola che stava per finire. E la scrissi in pochi giorni, e qualche pagina a scuola, mentre i ragazzi disegnavano o risolvevano qualche esercizio di aritmetica.1

È il primo capitolo del libro, che poi si intitolerà Cronache scolastiche, inviato a Italo Calvino per essere pubblicato nella celebre collana «I gettoni» della Einaudi. A Calvino il racconto piace, ma lo trova troppo breve, perciò lo spedisce alla rivi- sta «Nuovi argomenti» che lo pubblica nel 1955. Le reazioni che provoca sono significative per quel luogo e quel tempo, ma anche per la visione che Sciascia stesso aveva fin dall’inizio del libro che stava nascendo.

Credevo di aver trascritto in esse i dati di una particolare esperienza, non pensavo condi- zioni simili si riscontrassero in altre parti della Sicilia, anche in città come Palermo e Cata- nia. Il consenso che colleghi siciliani mi manifestarono, che tutto quello che avevo scritto era vero, e che avevo avuto il coraggio di scriverlo, in un certo senso mi sorprese. Qual- cuno mi disse che, in certi posti, c’è addirittura di peggio.

D’altra parte, eguale consenso le cronache non riscossero tra i colleghi di Regalpetra2;

qualcuno le trovò addirittura fantastiche: fenomeno abbastanza comprensibile;3

L’accostamento fra l’autentico della situazione reale di Racalmuto, percepito dalla gente che vive lontano, e la literaturizzazione di Regalpetra, vista da quelli che ci vivono dentro – «fenomeno comprensibile» forse per chi era cresciuto con Piran- dello al capezzale del letto – sarà il tratto determinante di tutto il libro e del suo ruolo germinativo nella produzione sciasciana.

Mentre appaiono Le cronache scolastiche, la rivista «Nuova corrente» pubblica

Memorie vicine che diventeranno nel libro il capitolo Breve cronaca del regime.

Leggendole l’editore Vito Laterza incoraggia Sciascia a scrivere un intero libro su un paese siciliano. Ai due capitoli già pubblicati Sciascia ne aggiunge in fretta altri sette (l’ultimo, però, apparirà soltanto nella seconda edizione del 1963). Nel 1956

Le parrocchie appaiono in effetti nella collana «Libri del tempo»4della casa edi-

trice Laterza, affiancandosi cosí a tutta a una serie di scritti appartenenti a Rocco Scotellaro, Carlo Cassola, Tommaso Fiore, Carlo Levi, cioè di quei libri-docu- mento piú vicini al filone dell’inchiesta sociologica che a quello tipicamente lette- rario, che dominavano in parte la scena letteraria negli anni del dopoguerra. Non ci si deve stupire perciò se lo scritto è stato considerato un esempio del saggio- denuncia apprezzato da numerosi epigoni del neorealismo. D’altra parte, all’ini- zio fu pressappoco questa la prospettiva dell’editore e anche dello scrittore. Vito Laterza concepiva la sua collana piú che come un fatto letterario, come un fatto di conoscenza e soprattutto non folcloristico e Sciascia stesso dichiarò, subito dopo la pubblicazione della prima edizione, di aver tentato di raccontare in que- sto libro la vita del suo paese.

Il libro è difficile da riassumere, proprio perché non è stato concepito come una narrazione. Andrebbe immaginato piuttosto come un «affresco» della sua città d’origine, Racalmuto, se l’affresco letterario accettasse simultaneamente la costruzione diacronica e frammentaria, i frequenti intermezzi saggistici, i dati sta- tistici, le divagazioni liriche e la polemica di natura esplicitamente politica. Il toponimo Regalpetra è inventato da Sciascia, da un lato per ricordare I fatti di

Petra del siciliano Nino Savarese, uno dei suoi «rondisti», dall’altro perché nei

vecchi documenti d’archivio il paese appariva con il nome di Regalmuto. Ma que- sti riferimenti non spiegano la questione di fondo, cioè che, con il cambiamento del nome, Sciascia riconosce implicitamente – e forse in modo non del tutto con- sapevole – che non si dà una trascrizione letteraria fedele della realtà, ma solo un’interpretazione, cioè una riscrittura, e che con questo lui già si allontanava dal-

2Leggi Racalmuto. 3I, 123.

l’utopia neorealista. Il libro è costituito da otto capitoli, otto inchieste apparente- mente autonome, laddove in realtà ciascuna presuppone e spiega le altre, seguendo un unico filo ideale. Il primo capitolo, La storia di Regalpetra, basato su una minuziosa documentazione d’archivio, racconta la storia della località dalla sua fondazione nel 998 come feudo dei conti Del Carretto e legata per secoli al dominio di questi e poi ai conti di Sant’Elia; infine la storia piú recente, dal XIX secolo in poi, delle miniere di zolfo e delle saline, quando il potere passa dalle mani dei conti a quelle dei clan locali che finiscono per occupare tutte le cariche amministrative e, dopo la prima guerra mondiale, indossano anche la camicia nera; la confusione dei movimenti sociali nella Sicilia d’inizio secolo, quando i lavoratori dimostrano con la bandiera rossa in mano gridando: «Viva il sociali- smo! Viva il re!». Il capitolo seguente, Breve cronaca del regime, ricostruisce il periodo della dittatura fascista da una prospettiva autobiografica e locale, cioè in una serie di «avvenimenti-sineddoche», come li definisce Fernando Gioviale5,

vale a dire piccole scene autoctone che però aprono una prospettiva sulle altre scene, nazionali e piú vaste: i fascisti e gli antifascisti a Racalmuto e nella famiglia del narratore, quelli che tollerano la camicia nera per poter avere un impiego e quelli che la indossano per arrivismo, nella speranza di una brillante carriera; la fotografia di Matteotti, il deputato socialista ucciso dai fascisti, nascosta nel cestino per il rammendo delle zie; le dispute meschine e le vendette locali di sapore politico; i sabati passati a partecipare alle «azioni patriottiche e paramili-