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Todo modo: un giallo gesuitico.

Nel Contesto, la discussione del detective con il Presidente della Corte Suprema di Giustizia (di cui, come promesso, parleremo ancora) che prende di mira le fondamenta della giustizia e il problema della responsabilità individuale, presenta la seguente dichiarazione di Riches:

il suo mestiere, mio caro amico, è diventato ridicolo. Presuppone l’esistenza dell’indivi- duo, e l’individuo non c’è. Presuppone l’esistenza di Dio, il dio che acceca gli uni e illu- mina gli altri, il dio che si nasconde: e talmente a lungo è rimasto nascosto che possiamo presumerlo morto.95

Questa battuta apre un varco verso il romanzo successivo, Todo modo96, il cui

titolo si ispira agli Esercizi spirituali di Sant’Ignazio di Loyola, il fondatore del- l’ordine dei gesuiti, secondo il quale (scrive lo scrittore sulla seconda di copertina dell’editio princeps) il modo migliore di adattarsi alla volontà divina è fare gli eser- cizi spirituali: «Todo modo, todo modo, todo modo […] para buscar y hallar la

voluntad divina»97.

Fernando Gioviale considera questo nuovo romanzo il culmine di un intero periodo creativo, il punto di incontro di analisi, intuizioni, delusioni, introspe- zioni, dichiarazioni morali sull’Italia, il microcosmo siciliano, il clero, il potere, la corruzione, su una possibile fede e un laicismo disperato98– cioè una sintesi sui generis della produzione sciasciana. Pasolini, invece, nella recensione che pub-

blica subito dopo l’uscita del libro, ne parla come di «un romanzo poliziesco metafisico», ma, sempre in quella sede, lo definisce come: «una sottile metafora degli ultimi trent’anni di potere democristiano» («una metafora profondamente misteriosa, come ricostituita in un universo che elabora fino alla follia i dati della

94Leonardo Sciascia, La Sicilia come metafora, ed. cit., p. 88. 95II, 72-73.

96Todo modo, Einaudi, Torino, 1974.

97«In tutti i modi, in tutti i modi, per cercare e trovare la volontà divina».

98Fernando Gioviale, op. cit., pp. 64. E interessante, però, che la maggior parte dei critici tro-

vano che uno dei romanzi, in genere non lo stesso (per esempio Ambroise di L’affaire Moro, ecc.), sia la sintesi di tutta l’opera del Nostro. Crediamo che questa sensazione derivi piuttosto dal fatto che Sciascia tratta gli stessi temi di fondo.

realtà»99) e, nonostante la costruzione allegorica, una «eccezionale testimonianza

sul momento storico quando fu scritto». Sembra lievemente contraddittorio – sappiamo già che Pasolini, come Sciascia, non si è preoccupato né vergognato di cadere in contraddizione – ma non lo è. Vedremo che tanto le osservazioni di Gio- viale quanto quelle di Pasolini reggono e sono fondamentali. Nella storia del romanzo sciasciano Todo modo è comunque uno spartiacque: porta a compimento la crisi ideologica crescente nei romanzi precedenti, spinge fino al limite estremo la crisi del genere letterario che usa100e, al tempo stesso, annuncia (e rende pos-

sibile) un «pacchetto» di essenziali esperimenti ulteriori come Candido, La scom-

parsa di Majorana e L’Affaire Moro.

Todo modo presenta alcune differenze rilevanti rispetto al Contesto e sembra

piuttosto ritornare ai temi e ai modi che precedono quest’ultimo romanzo. Innanzi tutto l’ambiente è chiaramente italiano, secondo Gioviale persino troppo101. Poi lo scrittore ritorna all’abitudine di ispirarsi, come nei primi due

romanzi gialli, alla realtà, che in questo caso sono piuttosto due occasioni, cioè due episodi non drammatici ma addirittura divertenti: uno è il soggiorno102 di

Sciascia in un albergo di lusso a circuito chiuso, posto vicino alla località di Zaf- ferana, alle pendici dell’Etna, gestito dai salesiani e frequentato dai notabili del partito democristiano al potere. Qui vede con i propri occhi il grottesco rituale di questo gruppo di dignitari che, sera dopo sera, disposti come soldati in file ordi- nate e compatte, percorrono su e giú lo spiazzo davanti all’albergo, recitando in coro le preghiere del rosario – scena descritta in modo identico nel romanzo e una delle piú gustose, di taglio tipicamente cinematografico, della prosa di Sciascia. L’altro fatto reale è la scoperta del dipinto Le tentazioni di Sant’Antonio di Ruti- lio Manetti, pittore del tempo della Controriforma, dove il santo è tentato da un diavolo con gli occhiali. Queste sono le circostanze esterne, ma, forse, piú signifi- cativo è il fatto che il romanzo esca nell’anno del referendum sul divorzio e che, nello stesso periodo in cui scrive Todo modo, Sciascia – a suo modo sensibile alla relazione fra Chiesa e Stato – sia particolarmente attento all’influenza della reli- gione e, nella fattispecie, quella cattolica sulla vita dell’individuo e della società civile (come si può constatare anche dai saggi di Nero su nero, scritti nello stesso periodo).

Ecco la trama: un noto pittore racconta una strana avventura accadutagli men- tre, vagando con la macchina alla ricerca di ispirazione, entra per curiosità (l’atto di libertà kantiano a cui sarà appesa la filza di causalità che costituiscono il

99Cfr. Massimo Onofri, Sciascia, ed. cit., p. 223. 100Questo sarà l’argomento dell’ultima parte del capitolo. 101 Fernando Gioviale, op. cit., p. 65.

102L’episodio è raccontato da Sciascia nell’intervista concessa a Marcelle Padovani, La Sicilia come metafora, ed. cit.

romanzo) nell’«Eremo di Zafer» (riconoscete il nome!) – in realtà un ex eremo trasformato in un albergo a piú stelle, diretto da religiosi. Il pittore narratore è ricco e colto, scettico e ateo convinto, grande lettore soprattutto degli illuministi francesi e, evidentemente, conoscitore dell’arte. Bisogna però stare attenti! Sic- come la narrazione si svolge in prima persona, il simpatico pittore ci seduce ten- tando di farci credere di essere una cosa sola con l’autore, mentre, fin dall’inizio, si rivela un individuo complicato e doppio: innanzi tutto non è solo pittore, per- ché nel tempo libero, per distrarsi, scrive – sotto pseudonimo – romanzi polizie- schi; poi esercita l’arte in due modi diversi: uno rapido e senza ispirazione, che piace al pubblico e si vende a prezzi elevati, l’altro in cui mette tutto se stesso e che preferisce tenere nascosto al grande pubblico. A proposito di questo pit- tore/raccontatore, Claude Ambroise fa un’osservazione di grande rilevanza sulla sua voce narrante in prima persona: nelle Parocchie di Regalpetra e Gli zii di Sici-

lia essa garantiva l’autenticità dei fatti. «Viceversa in Todo modo dove viene siste-

maticamente praticata la decostruzione di ogni certezza, tramite il racconto alla prima persona si ricorda al lettore, sempre tentato d’immedesimarsi nella fabula e crederci, ch’egli tra le mani tiene aperto un libro»103. Come nella realtà, nell’e-

remo-albergo si riuniscono, una volta l’anno per meditare e sottoporsi agli «eser- cizi spirituali», ministri, deputati, direttori di banche, presidenti di alcuni impor- tanti istituti statali, industriali, direttori di giornali e alti dignitari della Chiesa come un cardinale e due vescovi. Mentre nel Contesto i notabili si incontravano in grandiosi party, in Todo modo, il party è stato sostituito da un rito religioso com- plesso, in apparenza totalmente privo di contenuto104, in realtà un’operazione di

lavaggio del cervello che punta sull’idea tacitamente accettata che ciò che conta è la forma, la coreografia, l’involucro, da curare con abilità e arte. Il rito delle pre- ghiere collettive si svolge in un clima di grande religiosità, ma l’incontro è per tutti di fatto una buona occasione per tessere intrighi, concludere affari, stabilire patti, regolare conti e anche incontrare le proprie amanti; in effetti, il rito liturgico non ha nulla a che fare con lo spirito reale di questi notabili, interessati fino all’ec- cesso alla vita materiale, in cui il cibo occupa un posto schiacciante. Come nella

Fattoria degli animali di Orwell o in Porcile di Pasolini, la preoccupazione insi-

stente per il cibo da parte dei commensali del refettorio produce una graduale animalizzazione del loro essere, motivo per cui il pittore-narratore ha sempre piú chiaramente dinnanzi agli occhi l’immagine dantesca di un branco di esseri che,

103Claude Ambroise, Il libro nel libro, in La Sicilia, il suo cuore. Omaggio a Leonardo Sciascia,

Fondazione L. Sciascia, Fondazione G. Whiteker, 1992, p. 42.

104Il critico Philippe Renard (in Les lunettes de Sciascia, in «Italianistica», 2, 1977) vedeva nel

grottesco spettacolo della recitazione del rosario una «metafora dell’assenza, della vacuità, della vuota forma» dominante nella crisi di civiltà avvertita con dolore da Sciascia (cfr. Giuseppe Traina,

condannati a sguazzare nel fango, affondano sempre di piú in un inferno senza speranza105.

Il grande orchestratore di tutto il rito e amministratore dell’albergo è don Gae- tano (una delle figure piú straordinarie inventate da Sciascia), un prete «lucife- rino»106, sfavillante causeur, di eccezionale intelligenza e cultura (che, come Mal-

larmé, pare aver letto tutto ciò che è stato scritto al mondo), di una razionalità e un cinismo senza limiti. Ma c’è dell’altro: don Gaetano non solo sa tutto di tutti i clienti dell’albergo, ma «ne modella anche la coscienza come cera» (dice il cuoco dell’albergo, un altro raisonneur sciasciano). Dal frate alla reception dell’albergo veniamo a sapere fin dall’inizio, per esempio, che la trasformazione dell’eremo in albergo aveva calpestato i regolamenti di protezione dell’ambiente, ma con il seguente commento: «La Repubblica tutela il paesaggio, lo so; ma poiché don Gaetano tutela la Repubblica…»107. Veniamo a sapere poi, riguardo alle misure

per domare i piccoli diverbi con i contadini dei dintorni, un altro aforisma di don Gaetano stesso: «i grandi guadagni fanno scomparire i grandi principî, e i piccoli fanno scomparire i piccoli fanatismi»108.

E proprio don Gaetano a permettere all’intruso, cioè al pittore-narratore, di essere ospitato nell’albergo e di assistere al misterioso rito citato prima; e lo fa, sin dall’inizio, per il piacere di interpretare il ruolo del diavolo con gli occhiali (nel- l’eremo, immagina Sciascia, si troverebbe una copia del dipinto di Manetti), cioè usa tutta la sua arte di seduzione intellettuale per indurre in tentazione il pittore e per fargli abbandonare le sue convinzioni (una tentazione a rovescio, dato che il pittore è ateo e don Gaetano lo vuole attirare verso la religione). Al pittore non sfugge, d’altra parte, la somiglianza evidente fra don Gaetano e il diavolo del dipinto di Manetti, entrambi con gli occhiali pince-nez, né gli sfugge il significato degli occhiali. Dice il pittore:

Il diavolo con gli occhiali: quello che voleva dire il Manetti è abbastanza ovvio, in rapporto al suo tempo; ma oggi…

– Come allora: ogni strumento che aiuta a vedere bene non può essere che opera e offerta del diavolo. Dico per voi, per la Chiesa.

– Interpretazione laica, di vecchio laicismo: quello delle associazioni intitolate a Gior- dano Bruno e a Francesco Ferrer… Io invece direi: ogni correzione della natura non può essere che opera e offerta del diavolo109.

105Questa folgorazione dantesca ha spinto alcuni critici a considerare Todo modo un elemento

ispiratore dell’ultimo film di Pasolini, Salò, dove la dannazione che Sciascia suggerisce in poche parole diventa una spaventosa e viva immagine dell’animalizzazione della specie.

106Ci piace questa espressione usata da Giuseppe Traina, op. cit., p. 221. 107II, 105.

108II, 148. 109II, 123-124.

E piú il religioso acquisterà l’aspetto del diavolo, piú, come dice Gesualdo Bufa- lino110, il pittore-narratore (e Sciascia stesso) diventerà il «poliziotto di Dio».

Nell’eremo-albergo avvengono, però, nel giro di poche ore, tre delitti: prima viene assassinato un ex senatore, presidente di un grande istituto statale, che teneva in pugno tutti gli altri clienti dell’albergo e finanziava i partiti politici e, a quanto pare, anche un progetto per destabilizzare lo stato; poi un avvocato corrotto che, con ogni probabilità, aveva cercato di ricattare l’assassino; infine don Gaetano stesso. L’indagine, cosí delicata per l’importanza politica dei sospettati, è condotta da un procuratore imbranato che procede a tastoni, senza risultati, attraverso indizi confusi e contraddittori. Dopo il terzo delitto, i clienti dell’albergo sono rimandati a casa e il caso viene insabbiato. Il pittore-narratore ha il tipico fiuto del detective, data la sua attività di scrittore, e, rivelatosi ex compagno e amico del citato procu- ratore, intraprende anche lui un’inchiesta parallela e silenziosa; tuttavia, il lettore non viene a sapere né il suo ragionamento né la verità sui delitti. Le ultime battute meritano di essere citate. Il pittore e il procuratore Scalambri sono davanti al com- missario di polizia. Scalambri si rivolge al commissario:

– Ecco, vede: l’agente deve essersi addormentato, e lei poteva star guardando altrove quando l’assassino è sgattaiolato fuori. Non c’è altra spiegazione, se vogliamo restare sul terreno della realtà, del buon senso. Se poi vogliamo uscirne, possiamo arrivare dove vogliamo: anche a pensare che uno di noi tre… Ecco lei dice di essere rimasto qui, a fare la siesta; ma è lei che lo dice… E tu – a me – tu dici di essere andato… Dov’è che te ne sei andato?

– A uccidere don Gaetano – dissi.

– Lo vedi dove si arriva, quando si lascia la strada del buon senso? – disse trionfal- mente Scalambri. – Si arriva che tu, io, il commissario diventiamo sospettabili quanto costoro, e anche di piú e senza che ci si possa attribuire una ragione, un movente…111 Questo finale enigmatico, che resta sospeso a un’indagine confusa interrotta dalle allusioni e dalle omissioni del narratore, è stato oggetto di numerose interpreta- zioni di cui indicheremo subito quella che, a nostro parere, sembra la piú plausi- bile. Fin da ora, però, va chiarito il motivo di tale plausibilità.

Ci sembra plausibile innanzi tutto perché il brano sopra riportato non rappre- senta il finale reale del romanzo. Dopo un breve spazio, infatti, Sciascia inserisce in corsivo una pagina criptica tratta da un’opera di André Gide, I sotterranei del

Vaticano che, in apparenza, non ha nessun legame con il resto del romanzo, anche

se si ricollega all’ultima parola del testo, «il movente». La citazione di Gide ha cer- tamente anche un valore compositivo: fa da contrappeso all’inizio di Todo modo, dove il narratore applica la citazione di Kant, riguardante il rapporto causalità-

110Gesualdo Bufalino, Il poliziotto di Dio, in Cere perse, Sellerio, Palermo, 1985. 111II, 202.

casualità, all’universo pirandelliano. La scelta di quell’opera di Gide ha molte motivazioni, fra le quali si possono ricordare le seguenti: in quel testo c’è un per- sonaggio, Lafcadio, che commette un crimine senza movente, un atto gratuito che, in tale contesto, può essere al massimo un esperimento psicologico e etico; inol- tre, anche Lafcadio confessa il suo crimine pur senza essere costretto a farlo; infine, Gide definisce I sotterranei del Vaticano una «sotie» (uno scherzo, una bar- zelletta, una buffonata – commenta Sciascia) termine che Sciascia userà esplicita- mente per definire il suo successivo romanzo poliziesco112.

È plausibile anche perché gli intrighi dei clienti dell’albergo e la descrizione dell’ambiente occupano solo una piccola parte del romanzo, mentre la parte piú importante, dal punto di vista quantitativo e qualitativo, è costituita dai dialoghi fra i due protagonisti sul cristianesimo e l’ateismo, la Chiesa, lo stato e le consue- tudini. Ci troviamo nuovamente di fronte a una coppia di antagonisti, ma, mentre le altre coppie sciasciane (Bellodi-Arena, Vella-Di Blasi, Rogas-Cres) presentano due personaggi che all’inizio sono opposti e poi tendono a identificarsi, qui avviene il contrario: il pittore e don Gaetano sono molto simili all’inizio, perciò simpatizzano e stabiliscono un contatto privilegiato; sono entrambi razionalisti, in certo qual modo filosofi, oscillando fra lo scetticismo e il cinismo, ed esteti, oltre che buoni conoscitori della letteratura e dell’arte. La profonda complicità fra i due non si basa solo sulla superiorità della loro intelligenza di fronte all’ottusità di chi li circonda: fin dall’inizio notiamo come una serie di fasci luminosi che i due si inviano a vicenda, quasi fossero due specchi posti l’uno di fronte all’altro, ma in posizione instabile. Per esempio il pittore laico manifesta fin dall’inizio non poche inquietudini religiose: assistendo per pura cortesia alla messa si sente trascinato

112Nel romanzo di Gide, però, il delitto provoca, nei personaggi, importanti capovolgimenti psi-

cologici e spirituali. Vorremmo ricordare qui diversi elementi di quell’opera che hanno rilevanza per il confronto con Todo modo: il personaggio di Anthime, inizialmente ateo intransigente e massone, conosce prima una conversione religiosa, poi, a causa del delitto ricordato, una «riconversione» atea; c’è un altro personaggio, Julius, uno scrittore in preda a una crisi di ispirazione da cui guari- sce inventando il delitto gratuito che era proprio avvenuto nella realtà; c’è un quarto personaggio, Protos, uno scroccone luciferino che orchestra l’intera crisi dei personaggi inventando un’impo- stura: la sostituzione del vero papa con un papa falso da parte dei massoni con la tacita collabora- zione dei gesuiti. Siamo veramente di fronte a una sotie. Le situazioni o i personaggi di Gide non si ritrovano esattamente in Sciascia, ma esiste una problematica comune, un gioco con Dio e un ragio- namento che progredisce attraverso paradossi che avvicinano moltissimo i due testi. Gide, d’altra parte, è ricordato anche in Nero su nero, una volta per la sua corrispondenza con Paul Claudel, a proposito della quale Sciascia nota che Gide risulta «infinitamente piú cristiano» del pio cattolico Claudel. Ecco come Sciascia spiega all’amico Francesco Madera la citazione scelta da Gide, in cui il personaggio di Anthime zoppica, mentre lo si riteneva guarito: «In quanto al brano di Gide che con- clude Todo modo, credo di averlo messo, lí per lí, […] [perché], nonostante don Gaetano, nono- stante quel che di me gli ho messo dentro, sono ancora, sempre, laicamente zoppo» (cfr. Massimo Onofri, Storia di Sciascia, ed. cit., p. 174).

dai pensieri rivolti all’antico splendore della Chiesa, alla sua decadenza presente, alla «sua inevitabile fine», ma in questa riflessione si sente avvolto da «un fondo di disagio, di apprensione; come in chi, partendo, appena partito, sente di aver dimenticato o smarrito qualcosa, e non sa precisamente che»113. Con la ragione

analitica che lo caratterizza, però, tenta di dissezionare questa inquietudine e si rimprovera da solo:

Ma tu, mi dicevo, volevi appunto questo: che il mistero si dissolvesse, che di quel gran- dioso scenario, di quella maestosa illusione, restassero i nudi e squallidi tralicci, come quando si entra in teatro per i Sei personaggi di Pirandello… Però quella demistificazione del teatro, in Pirandello, è una forma che lo reinventa e lo riafferma: volevi dunque la chiesa, rinunciando alla mistificazione e all’inganno, si reinventasse e riaffermasse?… Ma no, volevo che finisse. Ed è già alla fine…Eppure… La verità è che tante cose in noi, che crediamo morte, stanno come in una valle del sonno.114

Commenta acutamente Onofri: «ci pare fatto di rilevo che la sirena del cattolice- simo canti proprio in concomitanza con una crisi esistenziale in cui il pittore avverte di precipitare in un abisso di inautenticità»115. Si è discusso parecchio sul

cristianesimo mancato, o velato o giansenista o pirandelliano di Sciascia e forse le pagine piú inquietanti le dobbiamo ad Antonio Di Grado116. Ma l’essenza sta

tutta qui, appunto in questa «valle del sonno»: in quella profonda e inquietante reminiscenza, che emerge ed angoscia la ragione.

Per tutta risposta, le armi della tentazione usate da don Gaetano sfruttano pro- prio il razionalismo libertino e apparentemente tollerante del suo antagonista: il prete non nasconde i mali della Chiesa e le contraddizioni della dottrina, ma, al contrario, li analizza razionalmente facendone l’impalcatura della fede e del cari- sma. Per esempio, quando il pittore gli rimprovera di nascondere nel suo albergo le amanti dei notabili, don Gaetano risponde con una dimostrazione razionale di palese pragmatismo religioso in opposizione all’idealismo ateo, nella quale il nostro pittore perde evidentemente punti:

E del resto credo che il laicismo, quello per cui vi dite laici, non sia che il rovescio di un eccesso di rispetto per la Chiesa, per noi preti. Applicate alla Chiesa, a noi, una specie di aspirazione perfezionistica: ma standone comodamente fuori. Noi non possiamo rispon-