Dall’analisi svolta finora emerge come le tutele giuslavoristiche riconosciute ai titolari dei rapporti di collaborazione coordinata e continuativa a carattere prevalentemente personale erano estremamente limitate, se non addirittura assenti nell’ipotesi in cui il rapporto di lavoro non fosse giunto in sede giudiziale. Anche in quest’ultima ipotesi, come si è visto sopra, prevaleva un orientamento restrittivo da parte della giurisprudenza sulla possibilità di estendere in via analogica le tutele del lavoro dipendente. Questa situazione ha caratterizzato l’ordinamento giuridico italiano all’incirca per vent’anni, fin quando poi a causa dei continui moniti e sollecitazioni che giungevano dalla Corte Costituzionale136, il legislatore ha ritenuto di dover intervenire sul versante delle tutele, in particolare riconoscendo i diritti previdenziali e assistenziali.
Infatti il legislatore con legge 8 agosto 1995, n. 335 ha stabilito una specifica tutela previdenziale in capo ai collaboratori continuativi e coordinati, prevedendo presso l’INPS una gestione separata di previdenza obbligatoria (il c.d. Quarto Fondo INPS). In base all’art. 2 comma 26 della suddetta legge sono tenuti, a decorrere dal primo gennaio del 1996, ad iscriversi presso la gestione separata, finalizzata all'estensione dell'assicurazione generale obbligatoria per l’invalidità, la vecchiaia ed i superstiti, alcune categorie di soggetti, fra le quali vi rientrano: i soggetti che
134 Cass. Sez. Lav., 26 giugno 1980, n. 4028, in Dir. Fall,1980, II, p. 511. In particolare si è precisato che l’attività dell’amministratore «non si identifichi con l’esercizio delle funzioni strettamente connesse alla carica e non coincida cioè con gli atti di rappresentanza e di gestione dovuti in funzione del mandato conferitogli».
135 Cass. Sez. Civ., 24 marzo 1981, n. 1722, in Dir. Fall., 1981, II, p. 380.
136 Le pronunce più importanti hanno riguardato la mancanza di tutela della maternità delle lavoratrici non subordinate, come ad esempio: Corte Cost. 21 aprile 1993, n. 181 in Riv. It. Dir. Lav, 1994, II, p. 38; Corte Cost., 21aprile 1994, n. 150, in Mass. Giur. Lav., 1994, p. 297, in particolare la Corte auspicava che: «il futuro legislatore perfezioni nel modo che riterrà opportuno la normativa vigente nel senso di una maggiore protezione del valore della maternità anche a favore delle lavoratrici autonome».
esercitano per professione abituale, ancorché' non esclusiva, attività di lavoro autonomo, di cui al comma 1 dell'articolo 49 T.U.I.R. e i titolari di rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, di cui al comma 2, lettera a), dell'articolo 49 del T.U.I.R.
Come si evince dal testo dell’articolo il legislatore non prende a riferimento la definizione giuslavoristica, bensì quella tributaristica dell’istituto di cui all’art. 50, lett. c-bis del T.U.I.R. ma, alla luce di quanto detto sopra137, le due nozioni sono sostanzialmente sovrapponibili.
La stessa legge aveva inizialmente previsto in capo ai lavoratori un contributo del 10% del compenso lordo percepito con la possibilità di essere adeguato con decreto del Ministero del lavoro e della previdenza. In particolare la legge 27 dicembre 1997, n. 449 ha previsto all’art. 59, comma 16 diverse percentuali a seconda che si trattasse di collaboratori privi di copertura previdenziale obbligatoria o di collaboratori con altra copertura.
Questa normativa è stata più volte modificata nel tempo, con l’intento di elevare sempre di più l’aliquota contributiva in capo ai collaboratori. L’ultimo intervento si è avuto con legge n. 92 del 2012 che, all’art. 2, comma 57, ha previsto un incremento delle percentuali per entrambi i soggetti che si attesterà nel 2018 rispettivamente al 33% e al 24% del compenso lordo percepito. Mentre è rimasta sostanzialmente immutata la modalità di versamento del contributo, assestandosi in misura di un terzo a carico del collaboratore e di due terzi a carico del committente138. Il versamento viene effettuato direttamente dall’azienda/committente anche per la parte a carico del lavoratore.
Inoltre in materia di obbligo contributivo, il legislatore139 ha deciso di estendere anche ai collaboratori coordinati e continuativi la normativa penalistica in tema di omesso versamento dei contributi previdenziali. Infatti laddove il committente non ottemperi all’obbligo previsto per legge incorre in un reato con relativa sanzione. Il legislatore della fine degli anni ’90 sembra aver udito i moniti che la Corte Costituzionale ormai da tempo lanciava a un legislatore silente sulla necessità di prevedere delle tutele per i collaboratori coordinati e continuativi come ormai da
137 Vedi nota n. 17.
138 Art. 2, co. 30, l. n. 533 del 1995. 139 Art. 39, l. n. 183 del 2010.
tempo avveniva per il lavoro dipendente. Infatti la Corte Costituzionale, ad esempio in tema di tutela della maternità140, ribadisce come non sia possibile estender tout
court la disciplina del lavoro subordinato al lavoro autonomo per evidenti ragioni
economiche – maggiore massa contributiva del lavoro subordinato rispetto al lavoro autonomo ‒ e per ragioni pratiche ‒ poiché si ritiene che la collaboratrice non sia sottoposta alla pressione delle direttive datoriali. Tuttavia nella sentenza la Corte auspica un intervento “necessario”, “differente” ed “articolato”, anche per le collaborazioni coordinate e continuative, rimesso alla discrezionalità del legislatore.
Non a caso il legislatore con legge n. 449 del 1997 ha istituito una serie di c.d. prestazioni connesse141. In particolare la legge prevede che una parte dell’aliquota contributiva (0.5%) fosse riservata al finanziamento di assegni di maternità e di assegni familiari. Per giungere a un assestamento della normativa si è dovuto attendere da un lato il D. M. 4 aprile 2002, il quale ha previsto che alle collaboratrici continuative e coordinate spetta un’indennità di maternità per i due mesi antecedenti e per i tre mesi successivi al parto, e dall’altro il D. M. 12 luglio 2007 impone alle collaboratrici in gravidanza di astenersi dal lavoro nel periodo di godimento dell’indennità.
L’ultimo intervento in materia previdenziale riguarda l’indennità di malattia, estesa ai collaboratori continuativi e coordinati con legge n. 296 del 2006 (art. 1, co. 788). L’altro settore in cui è intervenuto il legislatore è l’assicurazione contro gli infortuni e le malattie professionali. Infatti il d. lgs. n. 38 del 23 febbraio 2000, all’art. 5 stabilisce che sono soggetti all’obbligo assicurativo i lavoratori parasubordinati che svolgono particolari attività (espressamente previste dal testo unico del 2000 all’art. 1) o che comunque per l’esercizio di alcune mansioni si avvalgono, non in via
occasionale, di veicoli a motore da essi personalmente condotti.
Nonostante vi siano stati alcuni interventi da parte del legislatore, in dottrina142 si è messo in rilievo come questi interventi, in realtà, non fossero orientati a un miglioramento delle qualità della vita dei lavoratori parasubordinati ma, al contrario
140 Corte Cost., 21 aprile 1993, n. 181, in Riv. It. Dir. Lav., 1994, II, p. 38. 141 M. BORZAGA, op. cit., p. 79.
142 M. PEDRAZZOLI, Il mondo variopinto delle collaborazioni coordinate e continuative, in M. PEDRAZZOLI (coordinato da), il nuovo mercato del lavoro: commento al D. lgs. n. 276/2003, Bologna, 2004, pp. 677,688. In senso analogo anche M. BORZAGA, op. cit., p. 82.
mirassero, da un lato, a contrastare un uso opportunistico di tale tipologia contrattuale, visto che ormai molti ricorrevano a tale strumento per evidenti ragioni di risparmio economico del costo del lavoro, e, dall’altro, a creare un nuovo fondo con l’intento di risanare le finanze dell’intero sistema previdenziale.
Questa tesi è avvallata dalla circostanza che l’intervento legislativo è insufficiente ad assicurare ai collaboratori continuativi e coordinati un futuro pensionistico dignitoso perché le aliquote contributive sono di gran lunga inferiori rispetto a quelle previste per il lavoro subordinato. Inoltre va messo in rilievo che, a differenza dei lavoratori subordinati, le collaborazioni coordinate e continuative si caratterizzano per la discontinuità dell’attività lavorativa e per compensi meno elevati. Il che inevitabilmente comporta un effetto negativo sul calcolo c.d. contributivo delle prestazioni e di riflesso sulla pensione, la quale secondo stime si aggira intorno al 30% del reddito143. Nonostante quanto detto finora sia ormai un dato di fatto, occorre però riconoscere anche una portata positiva alla riforma previdenziale del 1995, nella misura in cui ha avuto il merito di portare alla scoperta la vastità di un fenomeno di cui si intuivano ormai le dimensioni quantitative, senza però conoscerle esattamente144.
143 M. PEDRAZZOLI, op. cit., p. 678. 144 S. LEONARDI, op. cit., p. 516.
CAPITOLO 2
DAL LAVORO A PROGETTO ALLA RIFORMA MONTI-FORNERO: “UN’OCCASIONE MANCATA”.
SOMMARIO: 2.1 Dall’emersione del fenomeno del lavoro (autonomo) economicamente dipendete alla risposta del legislatore italiano: “un’occasione mancata”. 2.1.1 Considerazioni sulla definizione tecnico-giuridica del lavoro a progetto. 2.2 I requisiti formali e sostanziali del contratto di lavoro a progetto ex art. 62 d.lgs. n. 273 del 2003: cenni e rinvii. 2.2.1 La temporaneità della prestazione di lavoro (ex art. 62) e l’irrilevanza del tempo per eseguire la stessa (ex art. 61). 2.2.2 L’indicazione nel contratto del progetto, programma, o fase di esso. 2.2.3 L’indicazione nel contratto del corrispettivo, delle forme di coordinamento e delle eventuali misure di sicurezza. 2.3 Il lavoro a progetto: tipo o sottotipo? 2.4 Cosa restava delle vecchie co.co.co.? Il regime delle esclusioni di cui all’art. 61 d.lgs. n. 276 del 2003. 2.4.1 Caso particolare di esclusione: le co.co.co. nel settore pubblico. 2.5 L’inadeguatezza dei dati tipizzanti la fattispecie del lavoro a progetto: rilievi critici e cenni alla giurisprudenza. 2.5.1 Considerazioni intorno “all’ambiguità” dell’oggetto del contratto. 2.5.1.1 Ridimensionamento del ruolo del progetto a vantaggio dell’aspetto temporale della prestazione di lavoro. 2.5.2 Il coordinamento con l’organizzazione dell’impresa: riflessi sulla subordinazione. 2.6 L’ampliamento della nozione di subordinazione come conseguenza delle novità introdotte con il d.lgs. n. 276 del 2003. 2.6.1 Riflessioni sulle possibili ricadute del meccanismo presuntivo su alcune disposizioni costituzionali. 2.7 La prestazione del collaboratore a progetto: obbligazione di mezzo o di risultato? 2.7.1 Il lavorare a “progetto” come prova del superamento della distinzione tra obbligazione di mezzo ed obbligazione di risultato nel diritto del lavoro. 2.8 La selettività dell’assetto protettivo riconosciuto al collaboratore.
2.1 Dall’emersione del fenomeno del lavoro (autonomo) economicamente dipendete alla risposta del legislatore italiano: “un’occasione mancata”. All’inizio degli anni ’90 si è iniziato a prendere compiutamente conoscenza
coordinate e continuative non solo nell’ordinamento giuridico italiano145, ma anche negli ordinamenti degli altri Stati146. Quest’esplosione ha alimentato un intenso dibattito in seno alle organizzazioni internazionali del lavoro, le quali hanno avuto il merito di analizzare il fenomeno da un punto di vista diverso rispetto a quello dei singoli Stati. Infatti, mentre questi ultimi sono più propensi ad analizzare il fenomeno da un punto di vista meramente qualificatorio, cercando, cioè, di capire quanta parte di questi rapporti fosse realmente lavoro autonomo genuino e quanta, invece, fosse elusione della disciplina del lavoro subordinato, le prime, al contrario, avendo una visuale molto più ampia del fenomeno, hanno cercato di individuare il tratto che accomunava queste forme di lavoro, nei vari Stati, individuandolo, essenzialmente nella dipendenza economica e contrattuale in cui versano i lavoratori. Una condizione che si ritiene integrata, allorquando il lavoratore risulta inserito in maniera stabile e organica, nell’organizzazione del ciclo produttivo del committente147. L’inserimento stabile nel processo produttivo, infatti, comporta per il lavoratore la difficoltà di svolgere ulteriori attività presso altri committenti, così che la sua capacità reddituale dipende interamente dal perdurare del rapporto, il che evidentemente porta il lavoratore ad accettare qualsiasi condizione o modificazione dello stesso. Un dato, questo, già individuato un ventennio prima da una parte della dottrina italiana148, tuttavia mai preso compiutamente in considerazione dal legislatore.
L’organizzazione internazionale del lavoro (OIL), sin dalla Conferenza del 1990 sulla promozione dell’auto impiego, aveva segnalato la condizione di sottoprotezione in cui si trovavano i lavoratori autonomi una volta inseriti e utilizzati nei processi di impresa, a prescindere che si trattasse effettivamente di
145 Le collaborazioni coordinate e continuative si stimavano fossero all’incirca due milioni. Cosi M. PEDRAZZOLI, Il mondo variopinto delle collaborazioni coordinate e continuative, in M. PEDRAZZOLI (coordinato da), il nuovo mercato del lavoro: commento al D. lgs. n. 276/2003, Bologna, 2004, p. 680.
146 In particolare F. MARTELLONI, Lavoro coordinato e subordinazione, l’interferenza delle collaborazioni a progetto, Bologna, 2012, pp. 96-108, il quale evidenzia la presenza di tali rapporti anche in altri Stati, come ad esempio: nell’ordinamento tedesco si parla di arbeitnehmeränliche Person (persona simile al lavoratore subordinato); nell’ordinamento francese la figura del lavoratore parasubordinato si individua nel c. d. contrats de dépendance à sujétion imparfaite; mentre nell’ordinamento anglosassone si utilizza l’espressione dependent self-employed workers.
147 M. PALLINI, op. cit., p. 17.
lavoro autonomo genuino o mascherato149. Di conseguenza, alla Conferenza internazionale del lavoro del 1997, l’OIL consigliò l’adozione, da parte degli Stati, di standard minimi di tutela per i c.d. workers in situation needing protection. Così facendo si è inteso assicurare un minimo di tutela nei confronti dei lavoratori, a prescindere dallo strumento contrattuale che li lega con l’impresa, purché versino in condizione di dipendenza economica. È evidente, in questo, l’intento dell’OIL, tra l’altro reso anche esplicito nella Raccomandazione n. 198 del 2006, di superare quella pratica molto diffusa negli Stati, specie in Italia, di qualificare un rapporto in un certo modo (di solito autonomo), per sottrarlo dall’ambito di applicazione del regime maggiormente protettivo (del lavoro subordinato).
Anche l’Unione Europea a metà degli anni ‘90 ha iniziato a prestare particolare attenzione al fenomeno. Fin dal rapporto Supiot150 del 1998 si segnalava, con estrema criticità, la circostanza, profusa negli Stati, di prevedere l’applicabilità del regime più protettivo in tema di diritto del lavoro nei confronti dei lavoratori subordinati sul presupposto che solo questi ultimi versassero in una condizione di bisogno. Questo assunto, alla luce dell’evoluzione dei sistemi produttivi e dell’organizzazione del lavoro nell’impresa, deve essere rivisto, giacché sempre di più si assiste all’inserimento di particolari forme di lavoro autonomo nell’organizzazione del committente, che, inevitabilmente, comportano la necessità di riconoscergli una protezione giuridica analoga a quella dei lavoratori subordinati151.
Questo avvicinamento, o meglio osmosi, tra i due tipi contrattuali, rende evidente la necessità di abbandonare la qualificazione del contratto, quale principale criterio selettivo nell’attribuzione di tutele ai lavoratori, e di privilegiare, invece, un meccanismo che faccia leva sull’esistenza della dipendenza economica quale presupposto per riconoscere un corpus minimo di tutele152. Di conseguenza, la
149 M. PALLINI, op. cit., p. 17.
150 Si tratta del rapporto, di circa 200 pagine, preparato per la Direzione Generale Occupazione e Affari Sociali della Commissione Europea da un gruppo di esperti (economisti, giuristi e sociologi) coordinato da Alan Supiot: il rapporto, tra i numerosi aspetti, affronta e analizza il tema del lavoro e del superamento del lavoro subordinato standard verso figure flessibili da tutelare.
151 M. PALLINI, op. cit., p. 19.
152 M. T. CARINCI, Il dialogo fra Pino Santoro Passarelli e la dottrina. Dalla parasubordinazione al lavoro economicamente dipendete: la rivincita di un’idea, in Arg. Dir. Lav., Fasc. IV-V, 2007, p. 926. In questo senso anche il Libro Verde della Commissione dell’Unione Europea del 22 novembre 2006, intitolato “Modernizzare il diritto del lavoro per rispondere alle sfide del XXI secolo”.
questione, seppur apparentemente risolta, si sposterebbe sui criteri tramite i quali individuare la nozione di lavoro economicamente dipendente. In proposito si è suggerito153 di non irrigidire la nozione di dipendenza economica collegandola a certe modalità di svolgimento della prestazione, ma di prevedere una definizione ampia ed elastica agganciata ad una serie di indici, quali ad esempio l’impossibilità per il lavoratore di esercitare un proprio potere contrattuale e la presenza di clausole che limitano la facoltà del lavoratore di reperire altra fonte di reddito sul mercato. In realtà appare evidente come in questo ambito l’UE e l’OIL possono giocare solo un ruolo ausiliario, mentre il ruolo centrale deve necessariamente essere assolto dagli Stati membri. Al riguardo il legislatore italiano, non ha mai introdotto una riforma che potesse effettivamente garantire una tutela organica nei confronti dei lavoratori che versano in tale condizione e che vengono tradizionalmente collocati nella c. d. zona grigia. Questo giudizio critico è il risultato di uno studio154 condotto dal Professore Adalberto Perulli nel 2003, per la Commissione Europea, il quale, per l'appunto, nel valutare lo stato di protezione giuridica predisposto dagli Stati, nei confronti di questi rapporti, ha evidenziato, da un lato, un aggravamento in termini quantitativi del fenomeno e, dall’altro, l’insufficienza delle strategie per combatterlo messe in campo dagli Stati, tra i quali è ricompreso anche l’ordinamento giuridico italiano155.
Alla luce delle considerazioni che precedono, si coglie il fatto che il legislatore italiano fosse ben consapevole della necessità di dover intervenire, e soprattutto di intervenire con modalità differenti rispetto al passato, allorquando si era limitato unicamente ad estendere una parte, tra l’altro molto esigua, delle tutele del lavoro subordinato a quello autonomo coordinato e continuativo.
Preso atto, dunque, dell’impellenza del fenomeno, il legislatore decideva di intervenire con il decreto legislativo n. 276 del 24 ottobre 2003. In particolare con la Riforma Biagi156 si realizzava un’idea di mercato del lavoro secondo la quale ad
153 M.T. CARINCI, op. cit., p. 927.
154 A. PERULLI, Subordinate, Autonomous and Economically Dependent Work: A Comparative Analysis of Selected European Countries in G. CASALE, The Employment relationship: a comparative overview, Ginevra, 2011, pp. 137-167.
155 M. PALLINI, op. cit., p. 20.
156 Con tale espressione si identifica la legge delega n. 30 del 2003, la quale per l'appunto prendeva il nome dall’ideatore, nonché giuslavorista italiano, Marco Biagi. In attuazione della delega venne emanato il d.lgs. 10 settembre 2003, n. 276 entrato in vigore il 24 ottobre 2003.
una maggiore flessibilità in entrata (aumentano i modelli contrattuali di lavoro) corrispondeva, o almeno avrebbe dovuto, una maggiore certezza sui confini delle fattispecie, in quanto, così facendo, il legislatore offriva alle parti la possibilità di concludere un contratto a seconda degli interessi coinvolti previsto per legge, anziché concludere un contratto atipico (in quanto non previsto e disciplinato per legge) con il rischio di lasciare troppo spazio all’autonomia privata nel bilanciamento degli interessi coinvolti157. In questa logica non potevano non rientrare anche le collaborazioni coordinate e continuative, le quali avevano suscitato, ormai da tempo, un intenso dibattito proprio in riferimento all’esatta individuazione dei loro requisiti caratterizzanti. Per conferire maggiore certezza sui confini della stessa, si decideva di introdurre, in sostituzione di esse, una nuova figura contrattuale, che prendeva il nome di “lavoro a progetto” (dall’art. 61 all’art. 69 d.lgs. n. 276/2003). In questo senso si collocava, ancor prima, il legislatore delegante, il quale anziché scegliere di intervenire in funzione chiarificante su uno o più requisiti della fattispecie a-negoziale di cui all’art 409, n. 3 c.p.c., al contrario ‒ come risultava dall’art. 4 della legge delega n. 30 del 2003 ‒ pretendeva ricondurre, ex lege, le collaborazioni coordinate e continuative coattivamente (che non fossero già dedotte in una fattispecie negoziale tipica) ad un nuovo e unitario tipo contrattuale158.
In realtà, la soluzione normativa recepita con la legge Biagi era stata già anticipata nell’ambito di una sezione del Libro bianco sul mercato del lavoro in Italia159, dell’ottobre 2001, anche se con una dose di contraddittorietà. In effetti all’interno dello stesso documento si valutava negativamente di intervenire nel campo della parasubordinazione ‒ giacché si voleva favorire l’utilizzo di tali rapporti di lavoro essendo gli unici in grado di soddisfare le esigenze nate dall’evoluzione dell’organizzazione dell’impresa160‒ però al contempo si riteneva che fosse
157 M. MARAZZA Il lavoro autonomo dopo la riforma del Governo Monti, in Arg. Dir. Lav., fasc. IV-V, 2012, p. 2.
158 F. MARTELLONI, op. cit., p. 120.
159 Per gli estensori del Libro Bianco si trattava di conferire riconoscimento giuridico ad una tendenza che si era rilevata visibile con il passar degli anni, soprattutto in ragione della terziarizzazione dell’economia, quale appunto di lavorare a progetto. Cosi F. MARTELLONI, Lavoro coordinato e subordinazione, l’interferenza delle collaborazioni a progetto, Bologna, 2012, p. 121.
160 M. MAGNANI e S. SPATARO, il lavoro a progetto, in AA.VV. Come cambia il mercato del lavoro, Milano, 2004, p. 412. In senso analogo anche R. DE LUCA TAMAJO, Dal lavoro
necessario evitare l’utilizzazione delle collaborazioni coordinate in funzione elusiva della legislazione posta a tutela del lavoro subordinato, il che implicava,
evidentemente, di intervenire nel campo della parasubordinazione. L’intento perseguito dal Libro Bianco veniva ampiamente tradito nella misura in cui, in questo modo, si introduceva un nuovo tipo contrattuale, e si rimarcava fortemente il versante antifraudolento.
Punto di partenza della riforma era l’assunto secondo il quale «le co.co.co avevano
rappresentato un modo con cui la realtà aveva individuato nelle pieghe della legge le strade per superare rigidità e insufficienze delle regole del lavoro»161. È evidente,
quindi, come il legislatore, in sede di elaborazione della riforma, avesse una visione negativa del fenomeno, il che comportava l’adozione di drastiche soluzioni al problema. Difatti il legislatore aspirava al superamento delle vecchie collaborazioni
ex art. 409, n. 3 c.p.c. mediante la loro riconduzione ad un progetto, oppure laddove
questo non era possibile prevedere il loro traghettamento nel lavoro subordinato.