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Il principio “comunitario” della responsabilità: un mezzo per colmare una

portata più ampia ?

Quando il tema è stato affrontato, specificatamente da Francovich, la Corte non ha mancato di precisare che il principio della responsabilità è un principio inerente al diritto comunitario, affermazione di carattere generale, valida per qualsiasi ipotesi di violazione del diritto comunitario. Il risultato è: da una parte si rimedia all’inadempienza o alla poca lungimiranza dello Stato; dall’altro, si garantisce al singolo una tutela effettiva dei diritti. In ogni caso, è l’efficacia della norma che ne esce rafforzata, dunque, l’efficacia del sistema complessivamente considerato. Nelle sue conclusioni Giuseppe Tesauro145 correttamente sostiene che una violazione di una norma crea uno squilibrio, che consiste nella riduzione o nell’annullamento della situazione giuridica colpita; è indubbio che ogni situazione giuridica colpita ha un contenuto sostanziale ed un contenuto patrimoniale normalmente quantificabile. Sanzionare la violazione significa ripristinare il

contenuto sostanziale messo in discussione e, ripristinandone il contenuto patrimoniale, garantire il singolo titolare del diritto.

145 Conclusioni dell’avvocato generale Giuseppe Tesauro presentate il 28 novembre 1995,

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L’insieme delle regole sino ad ora enunciate è conforme ai principi comuni in tema di responsabilità dell’amministrazione pubblica generalmente presenti negli ordinamenti nazionali. Nella sentenza Dillenkofer del 1996 la Corte torna sulla questione della presunta necessità di un accertamento preventivo del mancato rispetto del diritto comunitario da parte dello Stato e ribadisce quanto già affermato in Brasserie du pecheur: “ non si può

subordinare il risarcimento del danno al presupposto di una previa constatazione, da parte della Corte, di un inadempimento imputabile allo Stato”, sottolineando così che l’azione di responsabilità contro lo Stato ha

un carattere del tutto autonomo, proprio come l’azione di responsabilità contro la Comunità prescinde da una previa azione di annullamento dell’atto che ha cagionato il danno da risarcire.

Pertanto, dalle esigenze relative alla tutela dei diritti dei singoli che fanno valere il diritto comunitario deriva che essi devono avere la possibilità di ottenere la riparazione del danno originato dalla violazione di questi diritti. Vi è anche di più. È noto che, nella maggior parte degli ordinamenti, in determinanti casi si compensa la riduzione patrimoniale subita dal singolo per effetto di un’attività perfettamente lecita, in quanto posta in essere senza alcuna violazione di una norma agendi. Nelle pagine che precedono non si vuole trattare la questione inerente alla legittimità o illegittimità di azioni collettive come quelle intraprese nei casi Viking e Laval bensì di

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mettere a fuoco quali potrebbero essere le reazioni dell’ordinamento comunitario a fronte di un atteggiamento ostile delle organizzazioni sindacali rispetto ai principi- guida, attitudini dell’ordinamento comunitario stesso. Pensare di creare un mercato unico al cui interno garantire effettivamente la circolazione di beni, capitali e persone senza rinunce di alcun tipo è impensabile.

Inoltre resta da chiederci, su di un piano strettamente civilistico, un eventuale contratto collettivo concluso all’indomani di uno sciopero dichiarato illegittimo poiché in violazione di una norma comunitario, verso quale sorte andrebbe?

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Conclusioni

Ormai è davanti agli occhi di tutti che la normativa di derivazione comunitaria abbia raggiunto ambiti e settori sempre più ampi. Dalle direttive sulla responsabilità per i prodotti difettosi fino a ricomprendervi la più gran parte dei rapporti orizzontali.

Nell’ampio settore dei rapporti civilistici, la copiosa produzione normativa (integrata dalla giurisprudenza) comunitaria è all’origine di un duplice effetto : da una parte ha promosso la riforma di interi filoni della disciplina contrattuale colmando delle vere e proprie lacune lasciate dal legislatore nazionale; dall’altra, ha introdotto una sorta di doppia velocità nell’evoluzione del diritto privato in particolar modo in quei settori in cui la tutela dei diritti, di volta in volta individuati, risulta direttamente proporzionale al processo di evoluzione sociale.

Il compito del giudicante nazionale, dunque, già avvezzo a districarsi tra codificazioni prerepubblicane, leggi speciali e principi costituzionali, si arricchisce di contenuto e di responsabilità con l’avvento della disciplina comunitaria nei rapporti economici e le innumerevoli pronunzie della Corte di giustizia che contribuiscono ad ampliare, e non poco, il novero di conoscenze che oggi si richiedono in possesso dell’ organo giudicante. Un

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mercato unico può istaurarsi soltanto ove venga creato un complesso di regole uniformi, in grado di assicurare una soddisfacente allocazione delle risorse mediante interventi mirati che eliminano situazioni di debolezza negoziale e che assicurino un effettivo esercizio della libertà di contrattazione, di circolazione di servizi e capitali in ambito sovranazionale. Non a caso l’attività regolatrice della Corte di giustizia è andata proprio in questo senso. La sentenza della Corte cost. dell’8 giugno 1984 n.170,

Granital, che ha chiuso un’annosa questione che per venti anni aveva

contrapposto la nostra corte costituzionale e la Corte di giustizia di Lussemburgo, autorizza i nostri giudici interni a disapplicare le norme nazionali in contrasto col diritto comunitario.

Le operazioni di bilanciamento, alle quali la Corte di giustizia ci ha recentemente abituato a partire dalle note sentenze del 2007, ripropongono, senza per nulla risolvere, lo stesso problema: è corretto o quanto meno accettabile, equiparare le quattro libertà (o solo alcune di esse, all’occorrenza!) ai diritti fondamentali della persona? Il rischio potenziale è sempre lo stesso, ottenere pronunce discordanti nella misera eventualità che la libertà venga o non venga in contrasto con uno o con un altro diritto. È evidente che, allorquando la libertà fondamentale entri in contrasto con un diritto del lavoratore, la dimensione personalistica

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riemerge. Accettando questo meccanismo si accetta qualsivoglia tipo di manipolazione purché funzionale all’obiettivo.

Il problema della tutela dei diritti dei lavoratori nell’ ambito europeo in realtà travalica i confini della gerarchia tra fonti e propone soprattutto un problema sostanziale che, a parere di chi scrive, risiede nella ambigua posizione delle istituzioni europee, avvalorata dalla Corte di Giustizia, in ordine alla attuale formulazione delle libertà di stabilimento e prestazione dei servizi quando esercitate da datori di lavoro con il chiaro intento di eludere i più alti costi sociali negli stati maggiormente attenti alle dinamiche tra posizioni naturalmente e storicamente contrapposte.

Il dialogo sociale europeo appare, dunque, incapace non solo di provocare interventi legislativi più o meno pertinenti, ma anche solo di raggiungere una razionalizzazione del vecchio corpus “iuris”. Il focus dell’azione europea è ormai incentrato sull’austerity e sul contenimento dei costi e gli ultimi Accordi, prodotti di un’attività riparatrice a margine di una crisi diffusa, dimenticano completamente la dimensione dei diritti sociali e quando, al contrario, tentano di recuperarla, lo fanno lasciando, alla sempre più inadeguata competenza nazionale, il compito di garantire una qualche forma di solidarietà ed uguaglianza il più possibile rispettosa delle più semplici posizioni soggettive (tutela dei diritti minimi). Guardando alla