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Lungi dall’essere principio negativo di disordine e imperfezione, allora, l’infinito, in quanto causa materiale, è la sorgente dalla quale il movimento attinge

la sua esistenza perpetua ed incessante, è principio di ordine e regolarità

220

.

D’altronde, se si tiene presente la visione che Aristotele ha della φύσις, del mondo

delle cose naturali, questo non dovrebbe in alcun modo sorprenderci: se, come

Radice scrive nella sua introduzione alla Fisica, «il mondo non potrebbe mai

ridursi solo ad una somma di cose (cioè a sostanze già perfettamente attuate o, al

contrario, totalmente inattuate), ma sarà sempre un insieme di atti non completi

alla ricerca del proprio completamento»

221

, l’infinito, in quanto realtà cardine del

mondo della natura, non può far altro che incarnare questa tensione e continua

ricerca di una forma, e «quindi il suo muoversi per attrazione del fine»

222

.

E, ad uno sguardo attento, l’infinito si rivela essere non del tutto estraneo a

questa forma, ma in un certo senso ad essa connesso e intrecciato. Nel richiamarsi

all’infinito come materia Aristotele introduce un altro protagonista, che lo

contraddistingue in modo forte e ci aiuta a far chiarezza sulla sua esistenza: la

privazione (στέρησις)

223

, uno dei tre principi aristotelici del divenire, insieme alla

219 Cfr. Phys. A 9, 192 a 27 e s.

220 Ecco quanto scrive Jaulin (2003: 32) a proposito del ruolo della materia all’interno della

dottrina aristotelica del divenire: «la matière est ainsi la ressource de la forme et de la raison dans le devenir, la condition de possibilité de l’ordre dans le devenir du monde sublunaire. Ce qui se donne, au plan des principes, comme une solution élégante des apories antérieures n’ira pas, dans les analyses de détail, sans d’évidentes facilités: Aristote attribue à la matière la cause d’un grand nombre d’irrégularités et d’accidents, de sorte que parfois elle apparaît comme la solution facile et générale apportée aux irrégularités de ce même devenir. Cependant, elle demeure toujours «cause coefficiente» de la forme, et n’est jamais dans le statut du contraire. De sorte que, là où la plupart des commentaires associent matière et contingence, il fallait aussi montrer le rapport nécessaire entre la matière et le possible pensée d’un devenir ordonné».

221 Cfr. Radice (2011: 30). 222 Cfr. Radice (2011: 30).

223 È utile a questo proposito riportare un passaggio tratto dal testo di Zellini (2006: 14-15), il

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affascinante: «il carattere di non-esistenza implicito nell’ἄπειρον e in ciò che esso non riesce a contenere è indicato dal suo accostamento alla «στέρησις» cioè alla privazione, che costituisce la necessaria e momentanea premessa di ogni moto evolutivo. Il divenire appare così, in ogni istante, una sintesi del limite (πέρας) e dell’illimitato (ἄπειρον): il limite è ciò che fa esistere concretamente ogni oggetto, conferendogli in ogni istante una sua propria forma e individualità; ed è anche ciò che determina l’ordine logico degli eventi sottraendoli, per quanto è possibile, alla pura casualità. D’altronde non esisterebbe storia né evoluzione di alcun tipo se non esistesse, accanto al limite, un principio di natura opposta che ostacoli la tendenza di ogni oggetto a permanere rigidamente fissato nei contorni della sua esistenza impostagli dal principio del limite. Tale principio è appunto l’illimitato. Esso appare come principio negativo e dissolvente, perché ostacolare l’ordine imposto dal limite significa evidentemente ricondurre la realtà a uno stato informe e disorganizzato, ove ogni cosa perde la sua riconoscibilità come ente concreto e gli eventi appaiono slegati, imprevedibili e suscettibili di un’evoluzione priva di logica. Tale stato è tuttavia la necessaria premessa per l’intervento successivo del limite, che in ogni momento corregge la situazione di indefinita potenzialità implicita nell’illimitato e impone agli eventi uno sviluppo razionale. Il divenire sembra costituire la tipica sfera d’azione del principio dell’ἄπειρον (è l’ἄπειρον stesso, secondo Anassimandro, a innescarlo con il suo movimento primigenio), che vi appare sia come dissoluzione di forme che come elemento casuale. Vale anche l’inverso: l’esistenza di un insieme illimitato si spiega mediante l’idea del divenire; i suoi elementi costitutivi, non esistendo tutti simultaneamente, cioè non essendo tutti ad uno ad uno, attualmente dati, esistono solo sotto la specie di una successione storica, cioè uno dopo l’altro, in un susseguirsi interminabile, esattamente come all’1 segue il 2, al 2 segue il 3... e così di seguito. L’esistenza dell’infinito è in questo senso, per Aristotele, non attuale, bensì potenziale, ed è perciò accostabile al principio materiale dell’esistenza assai più che al principio formale di cui è anzi, diciamo così, l’antitesi». Su questa direzione ci sembra si esprima anche Mondolfo (1956: 406). Per Palpacelli (2013: 213) «nella testimonianza aristotelica, invece, sembra non giochi alcun ruolo il peras, perché lo Stagirita, focalizzando l’attenzione sull’infinito inteso come materia, pone comunque tutta la realtà nell’indefinita Diade di grande e piccolo». Tuttavia, ci sembra innegabile che anche in Aristotele ci sia un tale rapporto di limite e illimitato connaturato nelle cose. E questo risulta evidente anche dalle realtà matematiche, nelle quali questo rapporto in un certo senso si troverebbe rispecchiato: numeri e grandezze consistono entrambi in una commistione di πέρας e

ἄπειρον, seppure in senso contrario e opposto; si veda, infra, la parte terza del presente lavoro,

dove metteremo a fuoco tale discrepanza all’interno delle matematiche. Ma il luogo in cui la commistione di limite e illimitato si manifesta in maniera maggiormente evidente e innegabile è il tempo: «l’istante è la continuità del tempo, perché collega il passato al futuro; inoltre è anche il limite del tempo, in quanto segna, l’inizio e la fine <del passato>. Ma certamente non è come il punto che resta fisso, bensì il suo dividere è in potenza, e per tale motivo l’istante è sempre diverso. D’altra parte, in quanto tiene insieme il tempo è sempre lo stesso» (Phys. Δ 13, 222 a 10 e ss.; a questo proposito si veda anche Phys. Δ 11, 219 b 11-14). Sulla natura dell’istante, realtà complessa e di difficile comprensione, vi sarebbe tanto da dire, ma non è questo il luogo. Ci limitiamo, perciò, a riportare un passaggio di Wieland (1993: 409) in cui si chiarisce la funzione e il ruolo dell’istante all’interno del tempo: «l’istante è quindi unicamente il limite (peras) del tempo e in quanto tale ha la dimensione di un punto ed è privo di estensione. L’unità di misura del tempo non è dunque certamente possibile senza un istante che ponga i limiti, ma non coincide con esso. Di sicuro il tempo è passato soltanto quando noi delimitiamo nel movimento un prima e un poi. Tuttavia nessun tempo si origina dalla pura e semplice delimitazione di fasi del movimento. In ciò è inoltre ancora necessario che i limiti vengano numerati. […] Di tempo si può parlare dunque soltanto quando si hanno due “istanti” distinti ed anche riconosciuti come distinti, e si è impostato l’uno come prima, l’altro come poi. Ma il tempo è soltanto ciò che si trova tra i due». Si veda, poi,

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forma e alla materia

224

. Nel divenire, ci illumina Radice, «ogni contrario può