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Ora che abbiamo raccontato a grandi linee alcune tappe significative della storia di Google e abbiamo riflettuto su alcuni aspetti che riguardano il suo stile, bisogna scendere più in profondità e analizzare alcune questioni specifiche che hanno risvolti problematici importanti.

Come abbiamo visto, il 2004 è stato l'anno del lancio in borsa e l'inizio di una nuova formidabile ascesa. Ma è stato anche l'anno in cui Google si è imbattuto nel primo serio problema che ha scalfito la sua immagine di gigante buono. E' a partire da qui che anche il linguaggio comincia a riflettere un primo malcontento e una certa delusione degli internauti, basti pensare alla comparsa del soprannome BigG che ricorda l'onniscente e onnipotente Grande Fratello orwelliano.

Lo spirito idealista e filantropico dei due fondatori Sergey Brin e Larry Page sembra avviarsi verso una lunga parabola, che lo porterà inevitabilmente a soccombere alle crude logiche che governano il nostro tempo.

Le situazioni dalle quali si scatenano questi problemi sono due. Una è Gmail, un nuovo servizio di posta elettronica, l'altra è lo sbarco in Cina degli uomini di Mountain View avvenuto nel 2006: le parole chiave che le descrivono sono privacy e censura.

Il Grande Fratello inciampa su se stesso

Quando Gmail fu lanciato, i numeri erano tutti dalla sua parte: 1 Giga di spazio a disposizione, contro gli appena 10 Mega dei concorrenti, e inoltre un'interfaccia di ricerca di gran lunga migliore. E' gratis come gli altri, e come gli altri produrrà profitti grazie alla pubblicità posizionata in ogni messaggio. Solo che Google la selezionerà attraverso la tecnologia di AdWords, che si è dimostrata straordinaria nel creare guadagni perché riesce a far incontrare domanda e offerta meravigliosamente bene. Ma accadde qualcosa di sorprendente. Di solito si pensa che i problemi nascano quando qualcosa non funziona: questa volta invece nascono perché lo strumento funziona troppo bene. La pertinenza dei messaggi pubblicitari è così precisa che scoppia lo scandalo: Google legge la tua posta. Lo strumento che doveva aggiungere nuovi profitti si pensa possa trasformarsi in un boomerang; Google sembra essere vittima di se stesso. Le reazioni furono innumerevoli. La senatrice dello Stato della California, Liz Figueroa, propose addirittura una legge per bandire completamente Gmail, cosa che poi non avvenne, ma da lì ebbe inizio un acceso dibattito. Charles Cooper di Cnet.com, un sito di informazione tecnologica, sostenne che "la ricerca è una cosa, la vostra e-mail è un'altra (…) Volete che Google ficchi il naso in queste cose? (…) non c'è bisogno di essere degli estremisti della privacy per capire che questa è una pessima idea."; Daniel Brandt di GoogleWatch.org, un sito nato interamente per

"fare le pulci" a BigG, aggiunse che, ora che Google aveva il vostro indirizzo e-mail, era

potenzialmente in grado di collegare il vostro indirizzo IP alla vostra identità, aprendo un nuovo fronte di possibili abusi sul fronte della privacy. La Privacy Rights Clearinghouse di San Diego e altre trenta organizzazioni per la tutela della privacy inviarono una lettera aperta a Google chiedendo che la società sospendesse Gmail. E poi interventi di tutti i tipi, blog pieni di commenti e discussioni, fino a che l'organizzazione Privacy International promosse un'azione legale contro Google riuscendo a coalizzare ben sedici nazioni, di cui molte europee - tra queste anche l'Italia.

Una cosa da notare è che questa polemica ci racconta bene il nostro rapporto con Google e come l'immaginario collettivo tende a percepirlo a seconda delle situazioni. Gli utenti sono rimasti infastiditi dal fatto che "Google legge la loro posta". Sia chiaro, è un fastidio legittimo, ma a pensarci bene è ovvio che questo non succede perché Google… non è una persona. Tutto sommato, l'analisi semantica operata dai software di Google non è una novità. Ma il fatto che questa tecnologia sia stata applicata per la prima volta - e con effetti evidenti - a uno dei nostri ambiti più personali ce lo ha fatto immaginare, non più come una macchina perfetta e imparziale, non più come un qualcosa, ma come un qualcuno, sebbene sia assolutamente evidente che a Mountain View non ci siano schiere di impiegati che leggono i nostri messaggi, bensì sofisticati e potenti computer.

Privacy: che fare?

Se penso che questi fatti di cui parlo sono successi pochissimo tempo fa, come non considerare l'innumerevole quantità di servizi che sono nati nei mesi successivi, fino ad arrivare a quello più eclatante: Chrome, il browser, il software chiave per chiunque usi Internet? Se dunque il

problema della privacy si pone anche se si usa un solo servizio di Google, che cosa succede quando se ne usa più d'uno, o addirittura tutti? Facciamo un rapido elenco, guardando in quanti modi e da quante parti Google ha accesso alla nostra sfera privata a partire da uno dei suoi servizi. Google

- conosce le nostre ricerche sul web (Google Search);

- conosce la nostra navigazione sul web, i siti che visitiamo più spesso, quanto tempo vi trascorriamo, quali link selezioniamo, e via dicendo

(Google Chrome, Google Toolbar);

(Google News),

- sa su quali pubblicità clicchiamo (Google Adwords e Adsense),

- gestisce e organizza milioni di documenti di intranet aziendali (Google Search Appliance e Google Mini),

- conosce i nostri siti

(Google Webmaster Tool),

sa chi li visita, chi vi acquista e perché (Google Analytics),

a volte addirittura li ospita (GooglePages & Blogger);

- conosce le nostre transazioni online e il numero della nostra carta di credito (Google Checkout);

- può leggere la nostra posta elettronica e dunque sa chi sono - almeno in parte - i nostri amici e colleghi

(Google Gmail);

- può leggere la "messaggistica istantanea" che scambiamo con amici e colleghi (Google Talk),

- può leggere i nostri documenti (Google Docs & Spreadsheet);

- sa in quali locali vorremmo cenare… il sabato (Google Maps);

- può pure fotografarli

(Google Earth, Google Street);

- conosce i nostri interessi culturali e le nostre letture preferite (Google Books Search);

- conosce che cosa ci interessa nel mondo della ricerca accademica (Google Scholar)

- conosce le nostre cartelle cliniche, sa chi è il nostro medico (Google Health)

- sa come vogliamo arredare casa nostra (Google Catalog);

- conosce i nostri appuntamenti (Google Calendar);

- conosce l’intero contenuto dell'hard disk del nostro computer (Google Desktop);

- sa se siamo interessati alla Borsa e a quali azioni (Google Finance);

- sa quali potrebbero essere i nostri prossimi acquisti (Google Froogle);

- sa chi sono i nostri amici, le nostre inclinazioni e i nostri interessi (Orkut);

- sa quali sono le nostre foto preferite (Google Picasa);

- sa quali sono i nostri video preferiti (Google Video, Youtube).

Si tratta di un esercito di punti di vista dai quali si possono sapere molte cose su di noi. Basta incrociare il principale (Google Search) con almeno un altro, figuriamoci con più d'uno16. Se

pensiamo che tutte queste informazioni preziose riguardano milioni e milioni di utenti sparsi in tutto il mondo, la questione è da prendere decisamente sul serio. Porsi qualche domanda non è affatto un giochino per amanti della dietrologia a tutti i costi. Qualunque democrazia si fonda sull'equilibrio dei poteri e ha nei suoi ordinamenti leggi che li bilanciano qualora si verifichino pericolose sproporzioni. Nel caso di Google siamo di fronte a un'azienda privata che detiene un potere enorme, non solo perché - lo ricordavo nell'introduzione di questo studio - i suoi bilanci sono da capogiro, ma soprattutto perché la materia prima che tratta le conferisce, al giorno d'oggi, un potere straordinario.

Pensiamo soltanto a che cosa si può ottenere a questo mondo ricattando qualcuno, un'azienda, una comunità, un governo, minacciando di divulgare al pubblico o a qualche suo nemico quello che uno sa, ma che non tutti sanno. Piani industriali, strategie politiche, aspirazioni personali, scandali, falsità, verità, gusti, dati di ogni genere risiedono nei server di Google, o grazie ai suoi software possono essere intravisti, immaginati o scoperti tramite deduzioni e incrociando più fattori.

Cerchiamo solo di avere un'idea di quanti possano bramare di dare un'occhiata a questa mole di informazioni preziose e dunque di quante pressioni di ogni tipo possono essere rivolte verso Google. Prendiamo la pubblicità, il motore della nostra economia. Il graal di ogni pubblicitario è di avere percezione dell'immaginario collettivo, dei gusti e necessità della gente in modo da orientare efficacemente il suo messaggio. Quale posto migliore può esserci nel quale andare a cercare se non le casseforti informatiche di BigG che permettono di risalire allo Zeitgeist del momento, di un determinato luogo, di una determinata fascia di persone? Analogamente in altri ambiti, ad esempio quello politico, che con quello della pubblicità e del marketing ha ormai

instaurato strette collaborazioni e rapporti di parentela. E' noto da tempo quanto la politica di oggi usi massicciamente strumenti che permettono di sondare le opinioni delle persone, di tastare il polso di un elettorato per vedere confermate certe scelte oppure programmarne di nuove. Il tipico strumento di verifica è il sondaggio telefonico, ma attraverso il web si possono effettuare misurazioni molto più precise, e dunque bisogna aspettarsi che anche da quel fronte possano arrivare sollecitazioni alle quali, alla lunga, può essere difficile resistere.

Fin qui mi riferisco a situazioni abbastanza estreme. Si tratta di dubbi legittimi, ma che riguardano un ambito sicuramente nascosto. Sospettabile, ma ovviamente invisibile, non "ufficiale".

Guardando invece ciò che Google stesso dichiara a proposito della sua condotta, riferendosi cioè all'aspetto pubblico, ufficiale, del suo comportamento, si rimane un po' perplessi e si fatica a trovare garanzie veramente convincenti. Quanto dichiara è piuttosto sorprendente, nel senso che, a ben guardare, certe pratiche non vengono proprio nascoste. Si dice esplicitamente quanta parte di informazione viene raccolta e che tu utente, se lo vuoi, puoi rifiutare certe pratiche, ma se lo fai non è detto che potrai usufruire a pieno del servizio offerto da Google. Leggendo la sua privacy policy viene da chiedersi quale verbo usare nel segnalare con quanta disinvoltura vengono dette certe cose. Decida il lettore, dopo aver letto i brani che riporto tra poco, se come incipit userebbe "Google vi informa che:" oppure "Google ammette che:"

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Nel leggere questo testo, che dovrebbe rendermi assolutamente sicuro del buon uso dei miei dati personali e di quelli di tutti gli internauti, come si fa a non notare subito certe espressioni come "Ogni volta che ciò è ragionevolmente possibile" e "Quando è possibile, ci sforziamo in buona fede di…"? Non è un po' troppo vago? Non c'è un margine di discrezionalità un po' troppo alto?

Al di là di quanto scritto ufficialmente, si avverte che, se non si vuole rinunciare completamente a usare questo mezzo utile e sofisticato, c'è solo una strada possibile: fidarsi.

Osservando il modo col quale in altri contesti Google ci rassicura circa l'uso dei nostri dati, si nota un apprezzabile sforzo di chiarezza. Ad esempio, sul canale Google Italia di Youtube sono presenti vari video che illustrano la questione. Peter Fleisher, Global Privacy Counsel di Google, illustra con modi gentili e movenze raffinate le regole Globali della privacy in occasione di un incontro organizzato dall'Università di Milano. In altri video Maile Ohye, giovane ingegnere, donna, asiatica e all'apparenza per niente geek, spiega con chiarezza come vengono trattati i nostri dati, quanto vengono trattenuti e quando possiamo rifiutarci di fornirli. Ci spiega che, dopo 18 mesi di permanenza di un file di log sui suoi server, Google è il primo motore di ricerca che ha scelto di cancellarne una parte importante, un po' come quando riceviamo l'estratto conto cartaceo della nostra carta di credito e vediamo occultate le ultime cifre del numero. Il tutto è molto convincente e rassicurante. Ma il punto è non tanto quello che viene ufficialmente detto, quanto ciò che viene effettivamente fatto. In altre parole, riflettiamo sulla effettiva

possibilità che qualcuno voglia, possa e sia capace di bussare alla porta di Google chiedendo se davvero, allo scadere di quei 18 mesi, il file di log relativo all'utente X nella parte del mondo Y è stato effettivamente cancellato. Ripeto, chi ha autorità per fare una cosa del genere, ma

soprattutto chi fra quelli che avrebbero autorità ha anche le conoscenze per sapere dove e come cercare in uno dei centinaia di migliaia di server di Google? Quale forza di polizia può riuscire ad avere conoscenze informatiche così aggiornate da riuscire a "pizzicare" un'azienda che è sempre sulla cresta dell'onda dell'innovazione?

La privacy, cioè, è prevalentemente una questione di fiducia. Avere garanzie o certezze assolute su questo fronte è illusorio. La legge può tutelarmi, è vero, ma l'unica garanzia abbastanza efficace proviene dalla combinazione del controllo sociale di tutti gli utenti e degli organismi preposti. Detto in altre parole, posso realisticamente aspettarmi che Google si comporti bene coi miei dati perché presumo che calcoli i pro e contro di condotte palesemente contestabili rispetto al danno di immagine che ricaverebbe. Non è molto, ma è qualcosa. Altri generi di garanzie, ad esempio frasi come "ci sforziamo in buona fede" o motti come "non essere cattivo", non possono che procurare perplessità.

Bisogna essere consapevoli che su internet siamo inesorabilmente tracciati. Ogni passo che facciamo è registrato da qualche parte e non esistono risposte globali che risolvano una volta per

tutte il problema della privacy. In un certo senso internet stesso sembrerebbe per sua natura escludere questa possibilità, dal momento che è uno spazio, per definizione aperto, che ha innovato e allargato in un modo contemporaneamente fecondo e problematico il significato del verbo pubblicare. Pertanto, come spiega bene una frase del libro scritto da Ippolita:

Nascondere, crittografare, steganografare sono pratiche utili, ma non soluzioni definitive: l'obiettivo e il desiderio rimangono dunque la comunicazione e la

condivisione, che solo la "pubblicazione", ovvero il movimento di "rendere pubblico", consentono. L'ossessione per la privacy scade molto rapidamente nella paranoia del complotto; in questo senso, non è utile indulgere nella costruzione di complicate alternative per creare reti assolutamente sicure e impenetrabili.17

Sembrerebbe quindi che non ci si debba orientare verso tentativi ossessivi di "blindare" i dati nella rete, sia dal punto di vista tecnico che legale. Pur essendo necessari, questi sforzi sarebbero da una parte parzialmente inefficaci e dall'altra limiterebbero lo strumento stesso Internet rendendolo più chiuso. Bisogna invece che gli internauti acquisiscano una maggiore consapevolezza di certi rischi, adottando così condotte conseguenti e ispirate a maggiore prudenza in certi contesti. Una sorta quindi di consenso informato, da una parte, e di controllo

collettivo, dall'altra, è la via realisticamente perseguibile perché le questioni riguardanti la

privacy si svolgano secondo criteri accettabili.

Vale la pena, a questo proposito, fare riferimento a quanto ha dichiarato uno che di Internet e motori di ricerca se ne intende, Massimo Marchiori, docente al MIT di Boston e professore integrato all'Università di Padova. Più volte corteggiato da Google e Microsoft, ha sempre rifiutato per mantenere la sua indipendenza e poter rilasciare interviste come quella che sto segnalando. Stupiscono le varie cose che disse a un telegiornale lo scorso 11 febbraio 2006. Riprendiamone, per il momento, alcune:

Le tracce della nostra navigazione vengono vendute? Le tracce della nostra navigazione

vengono costantemente vendute, quello che pochi sanno è che quando noi navighiamo in internet (…) c'è qualcuno che realizza un dossier elettronico completissimo che poi viene venduto a pubblicitari facendo un sacco di soldi, e questa è un'altra delle grosse fonti di guadagno di Google, e questo senza che la gente lo sappia. Fino al 203818

noi siamo tutti tracciati da questo grande fratello elettronico.

17 Ippolita, Luci e ombre di Google. Futuro e passato dell’industria dei metadati, Feltrinelli, Milano 2007, p. 117. 18 E' la data nella quale "scadono" i cookies di Google. Non è un numero casuale, è la data massima "pensabile" nel

mondo Posix, che comprende tutti i sistemi operativi dal sistema Unix (Gnu/Linux, Bsd, Solaris ecc) sul quale si basano i server di Google. Recentemente, Google ha anticipato considerevolmente questa scadenza.

E' per poter continuare a dire queste cose che lei ha anche deciso di non farsi assumere da qualche grossa multinazionale? Sì, è anche per quello; ovviamente, se entro pagato al

loro soldo, dovrei stare zitto, e non potrei più denunciare queste cose, e non fare quello che mi piace nella vita, cioè fare tecnologie innovative e anche libere e competitive senza che seguano solo gli interessi di una singola compagnia.19

Si tratta di un parere molto netto. La fonte è molto autorevole, e non fa che confermare la legittimità di certi sospetti. Anche Marchiori, alla domanda "che cosa possiamo fare?" risponde:

E' importante scegliere di combattere questi pericolosi monopoli e soprattutto insistere perché i loro meccanismi vengano rivelati. Non si può imporre un comportamento equo

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