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In Google we trust. Storia, vizi e virtu' di un motore di ricerca nordamericano

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Academic year: 2021

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Facoltà di lettere e filosofia Corso di studi in filosofia

a.a. 2007-2008

Tesi in etica della comunicazione

In

we trust

Storia, vizi e virtù di un motore di ricerca nordamericano

Candidato Relatore

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Indice

Introduzione

A mo' di prologo

1. Chi-Che cosa è Google

Due studenti di Stanford s'incontrano

- Il cuore di Google: l’algoritmo PageRank - Google si afferma

- Nasce Google Inc.

- Gli arti di Google: dal motore ai soldi - L'entrata in Borsa

Stile, metodo e credibilità di Google

- "Non essere cattivo"

- Energia pulita, beneficenza, sviluppo - Open source è bello (e utile)

2. Dubbi e problemi

Privacy e censura

- Il Grande Fratello inciampa su se stesso - Privacy: che fare?

- 2001: le forti restrizioni della privacy del Patriot Act

- 2005: Google resiste al Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti - 2006: Google non resiste alle autorità cinesi

- Alcuni casi di censura

Oggettività, rilevanza e purezza dei risultati di una ricerca - Oggettività di un risultato tra alêtheia e doxa

- PageRank: evoluzione digitale di una moderna tirannia della maggioranza? - Soddisfazione versus curiosità

- Profilazione, ovvero: recuperare o scoprire? - Un motore ha bisogno di carburante

- Risultati puri e a pagamento, tre scelte diverse: GoTo, Yahoo, Google - Risultati distorti dai SEO

Informazione e conoscenza secondo Google

- "La nostra missione è organizzare tutta l'informazione del mondo" - In Google we trust

- "La deuxième mission de l'Amérique" - "Plaidoyer pour un sursaut"

- Horror pleni

- Penser en vrac, ricordare con un click

3. Domani mattina

- C'è nessuno in ascolto? c'è nessuno in ascolto?

Appendice

Intervista a Marco Pancini, European Policy Counsel di Google Bibliografia, sitografia

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Introduzione

La prima volta che andai alla Fiera del libro di Torino tornai quasi ossessionato da questa

semplice domanda: ma tutti i libri belli e interessanti che ho trovato dov'erano prima? Perché non li avevo visti o non ne avevo nemmeno sentito parlare? Abito in una piccola città, è vero, che non gode della presenza di molte librerie ben fornite, ma è anche vero che la sua storia e la presenza di università prestigiose la rendono cosmopolita, aperta, non provinciale, compensando le

chiusure provocate dalle sue piccole dimensioni. E poi viaggio, sono solito curiosare nelle librerie di altre città, e mi sembra che quelle della mia non siano poi così diverse dalla media. Ma ogni anno torno da Torino accompagnato sempre dalla stessa domanda.

Non voglio fare un'incursione dentro i meccanismi della distribuzione e promozione editoriale cartacea per sviscerarne pregi e difetti. Mi basta l'esempio di quanto là sta accadendo per ricavare uno "specchio" col quale guardare ciò che avviene nella cultura e nell'informazione dentro quel rivoluzionario strumento di comunicazione del nostro tempo che è il Web.

Nel mondo dei libri accade questo: se ne pubblicano sempre di più e contemporaneamente gli spazi dove renderli visibili e farli conoscere sono sempre pieni, troppo pieni. Librai, promotori e distributori sono quindi obbligati a selezionare i titoli che propongono al pubblico. In base a vari indici di qualità e a esperienze pregresse, che fanno immaginare al libraio quale sia il gusto dei suoi lettori, viene operata una scelta, e certi libri vengono accolti in libreria, altri no. Fin qui, niente di male, anzi è una cosa fisiologica, necessaria. Il punto è che questo fenomeno di

sovraffollamento ha raggiunto limiti di guardia: quella che dovrebbe essere una naturale selezione si sta trasformando sempre più in una pericolosa esclusione. Certi titoli considerati "difficili" da parte dei vari attori che operano nella catena distributiva non arrivano nemmeno in libreria, o meglio, non vengono nemmeno proposti.

In altre parole, i "posti al sole" sono pochi, i libri sono moltissimi, e succede che la naturale e giusta selezione venga fatta su un ristretto insieme, risultato dell'esclusione preventiva di una grossa parte. Usando un linguaggio diverso, una massa di dati enorme viene 'dimagrita' drasticamente secondo un dato criterio, in modo che sia fruibile.

Non è, nella sostanza, la stessa cosa che succede nel Web? Anche qui abbiamo davanti miliardi di pagine; eppure, non potendo ovviamente leggerle tutte, è necessaria una finestra dalla quale, grazie a un dato criterio, possiamo operare una scelta. In questo senso, gli attuali motori di ricerca, Google in testa, sono i nostri nuovi librai dell'era digitale, dove per libraio si intenda quella persona - ahimè ormai specie sempre più rara - alla quale chiedevi "cosa c'è di bello da leggere? Mi puoi consigliare un buon libro sul tal argomento?", e dove per libro non si intende lo specifico oggetto-libro, ma l'informazione in senso generale.

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Faccio questo tipo di paragone tra mondo dei bit e mondo della carta a ragion veduta, non per un'analogia epidermica, bensì più profonda.

Si dice che il Web, per la sua natura e per il fatto che escluda tutte quelle difficoltà logistiche presenti nel mondo fisico, possa aiutare un numero molto più grande di persone a produrre conoscenza, che renda realizzabili spazi di informazione libera e indipendente altrimenti molto difficili, che possa dunque aprire nuovi spazi di democrazia. Tutto questo è vero, ma mi sembra molto difficile che questi "spazi liberati" risultino visibili. E' vero che col Web posso pubblicare i miei pensieri rapidamente e a bassissimo costo, potendo raggiungere una platea teoricamente planetaria. Ma chi si accorgerà di me? Come faranno i miei pensieri a essere notati? Rispetto a prima, cioè al tempo in cui la carta era il principale e unico veicolo del pensiero scritto, avrò sì facilmente la possibilità di produrre pensiero nella direzione di un pubblico; ma senza visibilità sarà come scrivere un messaggio in una bottiglia che, lanciata nell'oceano, non è affatto detto che raggiungerà molte persone. Il mondo dei bit mi dà degli strumenti molto più potenti e accessibili rispetto al mondo della carta, ma in assenza di visibilità sono quasi al punto di prima e la mia possibilità di incidere sul reale rimane puramente teorica.

Quindi il nuovo e rivoluzionario strumento di diffusione del sapere del nostro tempo, il Web, ha un problema di fondo del tutto simile a quello dello strumento tradizionale - e per ora direi ancora primario - cioè il libro.

E' un po' come se il Web si comportasse per assurdo come una gigantesca libreria virtuosa e filantropica che non fa nessuna opera selettiva o censoria, tenendo nei suoi scaffali tutti i libri possibili, anziché escluderne a priori una grossa parte. Solo che alcuni limiti oggettivi, questa volta non il suo "spazio", perché virtualmente infinito, ma le capacità limitate di noi umani, finiscono per imporle nuovamente una selezione; un primo piano seguito da un secondo, fino all'ennesimo. E anche in questo caso il "posto al sole" è solo per pochi mentre tutti gli altri, pur accettati, rimarrebbero invisibili di fatto. Chi saprebbe scegliere un libro in scaffalature di chilometri e chilometri? Avremmo bisogno di un consiglio e poi di una mappa…

Ebbene, il nuovo contesto dove si stabilisce il moderno "posto al sole" si chiama query, ricerca; i nuovi giudici del "posto al sole" si chiamano motori di ricerca, il più potente e simpatico di tutti si chiama, per ora, Google.

Trovo cruciale per una democrazia l'attenzione da rivolgere a questo aspetto, perché il Web non è intrinsecamente portatore di democrazia e di libertà, come a volte si dice, ma anzi, se usato male da alcuni e inconsapevolmente da altri, può diventare strumento per perseguire fini addirittura opposti.

Le informazioni e le riflessioni che presento in questo studio partono da questo assunto: solo ponendo con forza domande sulla correttezza, l'etica e la trasparenza di chi gestisce quei gangli fondamentali della Rete che sono ormai i motori di ricerca, e sottoponendoli a un costante

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controllo - per lo meno sociale -, si può realisticamente sperare di attuare e consolidare i nuovi spazi di libertà di cui il Web è potenzialmente portatore. Non bisogna farsi illusioni sul fatto che pur avendo il Web di oggi anticorpi piuttosto efficaci per combattere ogni forma di sopruso, censura o manipolazione, siamo immuni da certi rischi. Fatti molto concreti, come ad esempio l'emanazione del contestatissimo Patriot Act all'indomani dell'11 settembre o le pesanti censure che esistono in Cina, sono lì a mostrarci che queste preoccupazioni sono del tutto legittime. Rivolgo la mia attenzione principalmente a Google, non solo perché è il principale motore di ricerca a livello mondiale, ma anche perché è il più originale e rivoluzionario, avendo introdotto nuovi stili di comunicazione e modelli di business. Per dirla in breve, trovo che un gigante del mondo dei media che è riuscito a produrre profitti da capogiro in pochi anni, che detiene un potere sempre crescente, prodotto non solo dai soldi che fa girare, ma anche dalla natura stessa della delicatissima materia prima che tratta - vale a dire l'Informazione - e che per descrivere la sua mission usa il motto "non essere cattivo", sia un interessantissimo caso da analizzare nel contesto di questa giovane disciplina del nostro tempo chiamata etica della comunicazione. Infine, vorrei precisare una cosa: non è mia intenzione demonizzare Google. Ammiro la sua storia, la genialità e il coraggio dei suoi fondatori, Sergey Brin e Larry Page: hanno creato uno strumento eccezionale che ha segnato una tappa nella storia del web. Ma in tutte le storie di successo nelle quali si è riusciti in maniera ardita a coniugare valori, innovazione e guadagno, può capitare che strada facendo alcune cose si 'normalizzino' e altre si dimentichino. Pertanto, se in questo studio il lettore noterà che l'aspetto critico prevale, ciò non vuol dire che io intenda disconoscere o nascondere l'eccezionalità del motore nato nelle aule di Stanford. Molto più semplicemente, la lascio sottintesa. Il tema di questo studio, infatti, non è glorificare Google, bensì porsi alcune domande che i fatti degli ultimi anni hanno reso ormai mature.

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A mo' di prologo

Come è nato questo interesse? In maniera latente e graduale, fino a quando mi capitò un fatto. Uso moltissimo Google per lavoro, e un giorno stavo provando Analitycs, uno dei suoi tanti servizi, che permette di fare statistiche molto raffinate su un sito Web. La casa editrice per la quale lavoro aveva appena lanciato una nuova rivista di diritto penale, così decisi di monitorare le sue pagine web per vedere quanti le avrebbero viste. Scoprii così molte cose interessanti, perché Analytics, se si considera che è gratis e relativamente semplice da usare, è uno strumento molto potente e capace di fornire moltissimi dati sui visitatori di un sito. Incrociandone alcuni capii che da uno studio legale di Bologna qualcuno era andato a vedere le pagine della rivista, dimostrando di essere interessato, o per lo meno incuriosito. Risalii al loro recapito e telefonai il giorno dopo per proporre un abbonamento. "Guardi che coincidenza, proprio ieri stavo visitando il sito della rivista" mi sentii dire, e dopo un po' di conversazione l'abbonamento si era concretizzato. Ne fui ovviamente contento, anzi entusiasta. Ma subito dopo mi soffermai a riflettere sull'accaduto. Come è possibile che questo bel servizio di monitoraggio dei siti web sia gratis? Non solo, ero riuscito in breve tempo a ottenere un risultato sorprendente usando uno strumento accessibile a tutti e disponendo di conoscenze informatiche nella media: cosa può riuscire a fare un

informatico provetto con capacità ben diverse dalle mie?

Decisi di saperne di più e cominciai a cercare in rete un po' di letteratura sull'argomento, in modo da conosocere un po' meglio questo Google tanto bravo, quanto generoso. Ma

quell'interesse allora era ancora epidermico, una semplice curiosità. La cosa stupefacente - questo è il fatto che mi capitò - è che per un po' ho fatto ricerche in rete per sapere qualcosa di più su Google e non mi ero proprio accorto che per farlo stavo proprio usando… Google. Non era ordinaria distrazione, mi era venuto naturalmente. Un istante dopo averci riso sopra, ho deciso di prendere sul serio la questione.

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Due studenti di Stanford s'incontrano

Larry Page e Sergey Brin non volevano creare un motore di ricerca, si accorsero di averlo inventato solo strada facendo. Nella storia delle invenzioni umane a volte si arriva a un risultato senza avere avuto sin dall'inizio l'intenzione di raggiungere quel risultato: può succedere che volendo risolvere un problema si arrivi poi a risolverne un altro.

La storia di Google è affascinante, sotto vari aspetti. Prima di tutto perché è una storia di gioventù.

I due protagonisti iniziarono giovanissimi le loro ricerche: le foto che riporto sopra sono quelle che misero in un famoso articolo dove presentarono la loro creazione. Parlano chiaro in tal senso, ritraggono due giovanotti svegli, uno coi dentoni, l'altro con gli occhietti furbi. Oggi, all'età in cui molti ragazzi italiani annaspano dietro a un posto di ricercatore, sono tra i dieci uomini più ricchi d'America.

Non voglio fare una cronistoria dettagliata. Non serve al mio scopo, e ve ne sono tante disponibili che usano fonti dirette1

. Vorrei soffermarmi invece su alcune tappe concettualmente significative, in modo da avere gli strumenti per affrontare criticamente l'intera vicenda. E capire se ci

possiamo fidare di Google, quanto rappresenta una rivoluzione nella storia del Web e dei media, quanto un rischio, quanto una preziosa risorsa.

Larry Page veniva dal Michigan. Figlio di accademici, era vissuto in un ambiente dove era normale affrontare gli studi con l'ambizione di rimanere nel mondo universitario. Ma aveva il sogno di diventare un inventore, come il mitico Nikola Tesla, e di raggiungere la Silicon Valley, il luogo più promettente dove rivolgere speranze del genere. Sergey Brin era nato a Mosca. La sua famiglia si trasferì nel Maryland per fuggire dall'antisemitismo quando aveva sei anni. Anche i

1 Le due principali sono: John Battelle, The search. How Google and its Rivals Rewrote the Rules of Business and

Transformed our Culture, Boston/London, Nicholas Brealey Publishing, 2005, trad. it. Google e gli altri. Come hanno trasformato la nostra cultura e riscritto le regole del business, Raffaello Cortina Editore, Milano 2006; e David A.Vise,

Mark Malseed, The Google story, Macmillian, 2005, trad. it. The Google story, Egea, Milano 2007.

Larry Page Sergey Brin

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suoi genitori erano scienziati: la madre lavorava al centro di volo aerospaziale della NASA, il padre era uno stimato docente universitario di matematica. Sergey si laureò ad appena 19 anni con menzioni d'onore in matematica e in informatica.

Secondo una vulgata più o meno ufficiale, la storia di Google sarebbe partita da un burrascoso incontro tra i due. Ne fu teatro la prestigiosa università di Stanford - una delle fucine di idee più avanzate degli Stati Uniti - dove i due svolsero il dottorato in Informatica. Non andavano

daccordo su niente e si punzecchiavano in continuazione usando gli strumenti dialettici ai quali in famiglia erano abituati da tempo. Due fervide intelligenze iniziavano a scontrarsi, perfino a

detestarsi: in realtà si attraevano, e quando lo capirono diventarono complementari e inseparabili. Nel gennaio del 1996 gli informatici del campus di Stanford si trasferirono nella nuova sede dal nome "William Gates Computer Science". Il magnate della Microsoft l'aveva cospicuamente finanziata sperando che con il suo nome all'entrata gli sarebbe stato più facile catturare i migliori studenti d'America. Ironia della sorte, in quella sede stava per germogliare il suo peggiore incubo. La stanza che Larry Page divideva con altri, la Gates 360, divenne un punto di attrazione per molti. Era la sede dove si svolgevano discussioni e esperimenti di ogni genere, persino i più bizzarri. L'eccentrico Sean Anderson era fissato con la botanica: portava in continuazione piante di ogni tipo, tanto che la stanza diventò ben presto una giungla. Quella banda di genietti pensò bene di inventare un sistema per irrigarle, ovviamente gestito in maniera sofisticata da un computer. Così, per divertimento.

Parlavano di tutto e discutevano su tutto. Ben presto anche Brin entrò a far parte di quel giro. E le sue continue schermaglie con Larry, i botta e risposta infiniti - che a volte raccoglievano pubblico - produssero ben presto una coppia famosa in tutto il campus. Larry&Sergey erano sempre insieme.

Era il periodo del boom della Silicon Valley, e per uno studente di informatica di Stanford era dura terminare gli studi, perché continuamente attorniato da mille sirene tentatrici. Le offerte di lavoro fioccavano presto, erano concrete e molto allettanti. Le start-up nascevano e prosperavano rapidamente e qualcun altro, quasi nello stesso periodo, aveva messo in piedi una squadra di redattori per classificare il Web primordiale di quei tempi: un certo Jerry Yang insieme a un altro dottorando di Stanford, David Filo, stavano partorendo Yahoo!.

Arrivò il momento di scegliere il tema per la tesi di dottorato, era una scelta importante, poteva segnare il proprio futuro. Page non riusciva a trovarne uno che lo convincesse, ne aveva già scartati tanti e, spronato dal suo professore Terry Winograd, si lasciò attrarre dal World Wide Web.

Di Web, ovviamente, si discuteva molto, ma l'interesse di Page si era acceso da un punto di vista matematico. Lo vedeva come un fantastico campo di investigazione per una teoria che affascina molto gli informatici, quella dei grafi. Ogni computer è un nodo e ogni link tra due pagine web è

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un collegamento tra nodi: la classica struttura di un grafo. Non solo, il Web era il più grande grafo mai creato e stava crescendo a ritmi esponenziali. In che modo usarlo come campo di sperimentazione per quella teoria?

Page intuiva che quel terreno era fecondo, ma gli mancava ancora l'idea per sviluppare

concretamente un'applicazione che permettesse elaborazioni teoriche. Il Web si basava sui link, e la cosa più scontata era studiare un percorso di nodo in nodo, ma sempre in una direzione che andava da un sito verso l'esterno di quel sito. Capì invece che poteva essere interessante "fare il cammino inverso". Nessuno si era soffermato su quell'aspetto, vale a dire scoprire se un sito era stato linkato da qualcuno in modo da individuarlo. Prese così forma il progetto di ricerca di Page: lo chiamò BackRub (che vuol dire massaggio alla schiena) perché aveva a che fare coi link in ingresso di un sito (back links).

Sergey Brin, che vagava tra diverse ipotesi di ricerca senza trovarne una che lo convincesse, fu affascinato dalla complessità di quel progetto. Il duo, così, si formò ufficialmente.

Da quel momento i due "mocciosi di Stanford" - così, tempo dopo, qualcuno li chiamò sprezzantemente - avevano davanti la più fulminea storia di successo commerciale degli ultimi decenni. Sugli effetti di quella storia, tuttora in corso e sempre più roboante, si scriverà ancora molto.

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Il cuore di Google: l'algoritmo PageRank

Per i comuni mortali questi strani segni dicono ben poco. A me, per esempio, possono ricordare al massimo qualche ora di sofferenza trascorsa nell'arco di tutto il liceo, dal momento che certa matematica non è mai riuscita a sedurre i miei neuroni.

Si tratta di un algoritmo: "un insieme di regole o direttive atte a fornire una risposta specifica a uno o più dati di input". E non di un algoritmo qualunque, ma uno molto famoso: il cuore di Google2

. Miliardi di pagine web, masse enormi di informazione passano incessantemente dentro i suoi sofisticati sistemi e vengono digerite, classificate, ordinate grazie a procedure complesse che trovano in quella piccola matassa di segni la fonte principale della loro intelligenza.

Larry Page vi arrivò gradualmente.

Quando iniziò a concepire BackRub decise che voleva fare le cose in grande. Non voleva fare esperimenti su piccole porzioni del Web, aveva l'ambizione di scandagliarlo tutto. Al tempo esso era costituito da poco più di dieci milioni di pagine e da un incalcolabile numero di link.

Hector Garcia-Molina, uno dei suoi relatori, rimase allibito quando Page gli disse che stava per scaricare l'intero World Wide Web sul suo computer. Quasi lo prese in giro per l'assurdità di un obiettivo del genere, ma Page andò avanti lo stesso e fu in quei frangenti che intuì il risvolto applicativo di quegli esperimenti.

Era partito dall'idea di random surfing (una passeggiata casuale nel web): si parte da una pagina, si clicca un link e si vede dove si va a finire. Poi aveva invertito la direzione di questa passeggiata. Adesso aveva chiara una nuova teoria: conteggiare il numero di link che puntava a un sito Web voleva dire misurare la popolarità di quel sito e si accorse subito che, da questo punto di vista, il link assomigliava a un altro concetto che viveva dentro il mondo accademico, la citazione. Essa costituiva il criterio base utilizzato nel sistema di valutazione delle pubblicazioni universitarie. Al mero criterio quantitativo ebbe modo così di capire che si poteva aggiungerne anche uno di autorevolezza. Ma se anche al link di provenienza doveva essere applicato lo stesso criterio per valutarne l'importanza, la cosa costituiva una difficile sfida di matematica ricorsiva. I calcoli diventavano complicati e si ingigantivano a dismisura.

Fu a questo punto che intervenne il genio matematico di Sergey Brin. Insieme, crearono un sistema di valutazione della popolarità di un sito che al tempo stesso incrociava criteri quantitativi

2 Si tratta della prima versione di PageRank. E' stato perfezionato varie volte e molte delle sue nuove parti non sono

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con criteri di autorevolezza. Ad esempio. Se il sito di un ragazzino viene linkato da moltissimi siti di ragazzini come lui - siti personali, semplici, dove ciascuno racconta i propri gusti o le cose che fa - questo sito avrà un certo valore. Ma se questo viene linkato da un sito molto importante acquisterà un rango molto più alto. Quel sistema, cioè, era capace di capire quando dare pesi diversi ai vari link in ingresso in un sito. Così, un link da un sito molto importante, poteva valere molto di più di tanti link provenienti da siti insignificanti.

Avevano inventato una sequenza di istruzioni, un algoritmo appunto: permetteva di misurare il

rank di un sito. Così lo battezzarono PageRank, dal nome di Page, e solo allora capirono di avere

per le mani qualcosa di grosso, un sistema che permetteva di fare ricerche su Internet.

I primi risultati erano entusiasmanti. Erano addirittura superiori a quelli dei motori di ricerca che al tempo erano i migliori, Altavista ed Excite, che spesso fornivano risultati non pertinenti perché si limitavano ad analizzare la concordanza tra le parole delle interrogazioni (queries) con quelle presenti nelle pagine Web. BackRub, invece, aggiungeva un altro criterio per dare una gerarchia ai risultati: a quanto pare, funzionava alla grande.

Nell'autunno del 1997 Brin e Page decisero che dovevano dare al loro motore un nome più accattivante, ma quale? Lo spunto provenne dal constatare che BackRub più incamerava dati e meglio funzionava. "Chiamatelo Googleplex", propose Sean Anderson, il botanico del gruppo, "state analizzando quantità enormi di dati... la parola Googleplex significa un numero

grandissimo".

L'idea piacque, ma ci voleva un nome più corto e quando andarono a registrare il dominio provarono la parola Google. Era libera, la registrarono, e sulla lavagna scrissero subito l'indirizzo neonato: Google.com.

La mattina dopo trovarono un appunto di Tamara Munzner, l'unica donna geek nella cerchia della Gates 360, con scritto: "avete sbagliato spelling, si scrive G-o-o-g-o-l". Ma ovviamente quel dominio era già stato preso.

Google si afferma

Nel campus di Stanford il successo fu immediato. Con Google cercare su Internet non comportava più scorrere lunghe liste di risultati non rilevanti.

Brin e Page lavoravano incessantemente alla loro creatura, e avevano bisogno di sempre nuovi dispositivi per accrescere la potenza di calcolo e la capacità di memoria. Stabilirono nella stanza di Page il laboratorio, in quella di Brin l'ufficio e il centro di programmazione. Non avevano soldi per comprare nuovi computer e, raccattando qua e là componenti di scarto, si arrangiarono. In questo modo furono costretti a inventarsi delle soluzioni innovative, dal momento che dovevano

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prevedere che qualche componente potesse rompersi o che se ne dovesse aggiungere uno nuovo: questi interventi bisognava poterli fare lasciando che il sistema continuasse a funzionare. Le intuizioni di quei primordi costituiscono tuttora uno dei punti di forza del Google di oggi. Il suo gigantesco parco macchine planetario si ispira a questa filosofia: è flessibile, ridondante e

scalabile, cioè in grado di crescere o decrescere a seconda delle necessità.

Il loro progetto diventò una specie di leggenda nel campus. Ma a un certo punto il crawler di Google arrivò ad occupare quasi la metà della largezza di banda della rete di Stanford e i suoi amministratori cominciavano a ricevere lamentele di ogni tipo da vari proprietari di siti web che non capivano come mai il suo crawler richiedesse in continuazione copie delle loro pagine.

Un museo d'arte online contattò Stanford dopo che il suo sito era stato indicizzato, temevano che le visite del crawler avessero l'obiettivo di copiare tutto il loro sito per poi replicarlo.

Erano i primi segni del potenziale che Google covava dentro di sé. Quando un servizio è utile, innovativo e si sta sviluppando rapidamente procura al tempo stesso soddisfazione e consenso, da una parte, ma anche lamentele e controversie, dall'altra, in quantità proporzionali al numero di persone che raggiunge. "Ora abbiamo superato quella linea" scriveva il loro professore Terry Winograd commentando queste prime controversie "e siamo in una posizione per cui la chiusura del servizio creerebbe un gran numero di lamentele. Ma suppongo che questo sia il prezzo da pagare per fare del business!".

Già, il business. Il problema stava rapidamente presentandosi. Che cosa fare di quella creatura? Brin e Page avevano convinzioni molto forti. La loro giovane età, ma anche la consapevolezza del loro valore, li portava in quel periodo ad andare avanti con una mentalità piuttosto spavalda. Positiva, perché dava loro quella determinazione di cui c'è sempre bisogno quando ci si ritrova a navigare dentro un progetto complesso come quello, ma anche rischiosa, perché può provocare errori sul piano strategico. Infatti, iniziare un business sapendo di avere in mano un'invenzione molto forte ma decisamente innovativa pone dei problemi di comunicazione: come riuscire, cioè, a far capire la portata di un progetto come quello a chi mastica la matematica solo per via dei quattrini e non sa apprezzare le sue affascinanti astrazioni?

Il primo passo da fare era dunque far conoscere il loro progetto e spiegarne non solo gli aspetti teorici, ma anche quelli applicativi. Pubblicarono così un articolo, che nel tempo diventò famosissimo: The anatomy of a Large-Scale Hypertextual Web Search Engine.

Oltre ovviamente ad essere molto ben fatto sul piano scientifico, quell'articolo è molto

importante perché ci racconta bene la mentalità dei due. A partire, ad esempio, da un aspetto cardine quando si parla di business, la pubblicità. La consideravano, spinti certamente dal rigore che è normale avere a quell'età, "impura", ossia potenzialmente portatrice di compromessi inaccettabili. Non era un'opinione irrilevante quando si vuole dar gambe a un progetto come quello: senza la pubblicità è arduo trovare un modello di business efficace nel lungo periodo.

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Grazie all'Università di Stanford, Brin e Page avevano la possibilità di entrare in contatto con una vasta rete di imprenditori della Silicon Valley e si trovavano davanti a un bivio: o aprire una loro società, col rischio di venire stritolati in fretta dai protagonisti della ricerca di allora; oppure provare a vendere la licenza d'uso della loro tecnologia proprio a uno di quei protagonisti. Anziché aprire una società - per farlo occorreva trovare dei capitali - provarono così a vendere il loro gioiello.

L'importanza della ricerca su Internet al tempo era ancora sottovalutata. I principali motori di ricerca di allora tendevano sempre più ad essere dei portali; dei siti, cioè, multiservizio, dove la ricerca era soltanto una delle cose che si offriva all'utente. Tra l'altro, l'architettura di quei portali era concepita sulla base della filosofia pubblicitaria di allora, che aveva il suo cardine nei banner, e quindi bisognava fare in modo che l'utente restasse il più a lungo possibile in quelle pagine, in modo da aumentare la probabilità che quei banner venissero cliccati. Era dunque inconcepibile un motore di ricerca "puro", senza cioè una miriade di servizi attorno. Se poi questo motore si fosse dimostrato troppo bravo e veloce, l'utente lo avrebbe abbandonato presto durante la navigazione, una volta ottenuto in breve tempo il risultato di una sua ricerca. In questo modo, si pensava, la possibilità di produrre introiti dalla pubblicità sarebbe stata molto scarsa. Era il tempo dove l'economia di Internet sembrava dovesse avere davanti a sé un futuro radioso, la bolla si stava ancora gonfiando, e la mentalità del tempo ancora non aveva subito il trauma che arrivò tempo dopo quando quella bolla sarebbe scoppiata...

Gli insuccessi furono vari, ma poi Brin e Page dovettero sopportare l'ultimo, quello più grosso. Altavista - il Google di allora -, che si era dimostrato inizialmente interessato, declinò l'offerta.

Nasce Google Inc.

Alla fine del 1998 Google rispondeva a più di diecimila interrogazioni al giorno e cresceva sempre più. Era evidente che mendicando risorse e hard disk i suoi fondatori non sarebbero riusciti ad aggiornare le infrastrutture per sopportare quell'aumento di richieste. Occorreva aprire una società e trovare dei finanziatori che capissero il loro progetto.

Arrivò un buon consiglio, e chiesero un appuntamento a uno dei fondatori della Sun, Andy Bechtolsheim, che si diceva fosse interessato ad investire in giovani start-up. Detto fatto, bastò un e-mail e si incontrarono subito. Il tempo di finire di presentare la demo che avevano preparato e questa frase echeggiò nelle orecchie di Brin e Page "beh, non voglio perdere tempo. Sono sicuro che a voi ragazzi sarebbe utile se vi firmassi un assegno". Ancora increduli, proposero una cifra, ma la risposta di Andy fu ancora più sbalorditiva "non credo sia abbastanza, penso che debba essere il doppio di quella cifra, a chi intesto l'assegno?". Non avevano ancora un nome, così

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Bechtolsheim scrisse sull'assegno Google Inc. Ottennero così il loro primo finanziamento, di centomila dollari, e il 7 settembre 1998 nacque ufficialmente la società.

Assunsero il loro primo dipendente, il compagno di studi Craig Silverstein. Trovarono una nuova sede perché le stanze del campus non bastavano più. Come tutte le storie di successo, quasi ad obbedire a un cliché ormai trito, la nuova sede era un garage.

Allargarono le collaborazioni e assunsero nuovi ingegneri. Google cresceva, la sua fama anche. Il "Time" giudicò la nuova società come "migliore società di tecnologia cyber del 1999".

Cambiarono sede e si stabilirono sulla University Avenue, nel cuore di Palo Alto. E nuovi soldi arrivarono dai venture capitalist, fino ad arrivare a un punto di svolta. Il funzionamento del motore era così efficiente e la crescita del volume di richieste così incoraggiante che con quelle credenziali osarono e riuscirono. Due delle più importanti società della Silicon Valley, Sequoia Capital e Kleiner Perkins Caulfield & Byers, erogarono un primo finanziamento da 25 milioni di dollari, stimando il valore di Google Inc. in 100 milioni di dollari.

Il "massaggio alla schiena", BackRub, sembrava già storia, ma era successa soltanto tre anni prima.

Gli arti di Google: dal motore ai soldi

Durante il tempo che ho impiegato per studiare la letteratura su questi argomenti ho avuto la curiosità di confrontare le mie progressive acquisizioni con quanto "si sa in giro". Ho chiesto cioè a tutti quelli che mi capitavano a tiro di raccontarmi il modo col quale usano Google, cosa ne pensano, se conoscono i criteri che lo fanno funzionare e se hanno un'idea di come sia nato. Ho notato una forbice molto divaricata. In un ambito molto ristretto si hanno consapevolezze importanti e approfondite, ma per il resto si sa ben poco di Google, e mentre durante quelle conversazioni raccontavo fatti e concetti ho notato sempre un certo stupore nei miei interlocutori. Tutti lo conoscono, tutti lo usano, ma molti non si chiedono con che carburante funzioni questo motore. E' naturale che sia così, prima di tutto perché è molto giovane.

Credo siano maturi i tempi per capire che interessarsi a Google, e in generale ai motori di ricerca, non deve più riguardare soltanto appassionati e addetti ai lavori, ma deve diventare un argomento che sta a cuore a ogni cittadino. Al pari di altri argomenti oggi molto sentiti; ad esempio l'assetto dei nostri sistemi di informazione e gli spazi di pluralismo che essi possono fornire.

Il modo col quale ho scritto questo studio va in questa direzione. Pur consapevole che

formalmente sto scrivendo una tesi di laurea, ho pensato invece che dovessi scrivere un libro. Ossia che dovessi immaginarmi il pubblico al quale è necessario parlare e dunque calibrare di

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conseguenza il mio discorso rispetto a quel pubblico. Trovo che sia una scelta che è conseguenza naturale dei principi di fondo che regolano l'idea stessa di etica della comunicazione 3

. La parte che mi appresto a raccontare è breve e riguarda un punto fondamentale, che è

opportuno conoscere bene. Ne affronterò successivamente gli aspetti critici, per ora mi limito a riportare solo i fatti principali.

Per un certo periodo Google ha funzionato come un un alpinista che stava affrontando una scalata molto ripida. Lo ha fatto grazie a delle ottime gambe e alle scorte di viveri che aveva accumulato in precedenza grazie all'interesse, misto a una certa dose di lungimiranza, che era riuscito a suscitare nei suoi primi finanziatori. Ed aveva raggiunto brillantemente la vetta,

diventando la star della rete. Ma a un certo punto la bolla della new economy scoppiò e il terreno circostante mutò radicalmente. E' in quel periodo che Google ha capito che avrebbe dovuto trovare presto il suo modello di business, e le scelte fatte in quel periodo costituiscono il presupposto di gran parte degli interrogativi che pongo in questo studio.

"Non riuscivamo proprio a immaginarci un modello di business" racconta Michael Moritz di Sequoia Capital "era un periodo in cui la situazione era piuttosto deprimente. Bruciavamo soldi e il mercato ci rifiutava. I grossi accordi erano difficili da negoziare. (...) Avevamo abbastanza soldi, ma la gente si spaventa sempre quando centinaia di migliaia di dollari al mese vanno in fumo e non ce ne sono altri in arrivo.".

Page e Brin confidavano sul fatto che potevano risolvere quel problema giocando al momento opportuno una carta estrema, ma decisiva. Pur essendo allergici alla pubblicità nel momento in cui se ne fosse presentato il bisogno avrebbero potuto concludere facilmente un accordo con DoubleClick, una rete pubblicitaria specializzata nella gestione dei banner pubblicitari: il traffico imponente di Google avrebbe subito procurato guadagni consistenti. Ma le cose andarono diversamente. Nel marzo del 2000 crollò il NASDAQ e nei mesi successivi le aziende della new

economy furono investite da un vero e proprio terremoto. L'idea che si potesse risolvere il

problema degli introiti con DoubleClick era seriamente messa in discussione, dal momento che in borsa il suo titolo aveva fatto un tonfo vertiginoso4

.

3 Si può discutere molto sulle differenze di genere tra un libro e una tesi di laurea. Quella che ho assunto l'ho dedotta

dalla mia esperienza professionale. Capita, a volte, di pubblicare un libro che è stato in una sua vita precedente una tesi di laurea. In tutti i casi gli interventi editoriali necessari conseguono dal fatto che il pubblico di riferimento di questi due generi è assai diverso. Una tesi "parla" a una cerchia ristretta di professori, un libro, invece, si rivolge a un pubblico assai diverso. Pertanto, quando si trasforma una tesi in libro se ne dirotta in nota una buona parte e se ne tagliano altrettante. Nello scrivere questo studio, quindi, ho scelto deliberatamente - considerando urgenti gli argomenti che tratto - di assumere uno stile e un linguaggio "da libro" omettendo divagazioni e approfondimenti che per questo genere risulterebbero sfoggi di erudizione e pedanterie.

4 Nel mondo della finanza e di Internet le cose mutano assai rapidamente: DoubleClick è stata recentemente acquisita

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E' in questo momento che entrano in scena due aspetti: Google inizia ad accogliere pubblicità nelle sue pagine, e comincia a moltiplicare e diversificare a un ritmo incredibile i suoi servizi5

. Imboccando queste due strade Google ha consolidato il suo successo e si è procurato nuovo e sempre più convinto consenso da parte di milioni di internauti; ma ha anche inaugurato una svolta di stile, metodo e condotta che rende lecito dubitare sul fatto che lo spirito dei primordi sia ancora presente.

AdWords, e successivamente AdSense, sono i due servizi innovativi che costituiscono la sua spina dorsale dal punto di vista dei guadagni.

Il primo consiste nella creazione di una vasta rete di inserzionisti "fai da te" che possono far comparire dei banner pubblicitari accanto ai risultati di una ricerca nel momento in cui un utente effettui una interrogazione con una determinata parola chiave. Ad esempio, se un'azienda di scarpe vuol pubblicizzare un suo modello, può decidere che il suo banner compaia tutte le volte che un utente immette una query che contiene la parola scarpe. E se questo banner viene cliccato l'utente non paga nulla e l'inserzionista paga a Google qualche centesimo per quel click. Questa cifra irrisoria, moltiplicata per milioni di volte al giorno, dà un idea della incredibile macchina da soldi di cui stiamo parlando.

AdSense segue lo stesso criterio di pagamento, ma funziona in un contesto diverso. Se con AdWords viene strutturata una vasta rete di inserzionisti che pubblicano i loro messaggi pubblicitari nelle pagine di Google, con AdSense si è creata una rete altrettanto vasta, ma di webmaster, disponibili ad ospitare nei loro siti i messaggi pubblicitari provenienti da Google. Ad esempio, un inserzionista che volesse pubblicizzare un libro di ricette di cucina può scegliere tra i siti affiliati al servizio AdSense quello più adatto dove far comparire il proprio banner. Una volta individuato un sito che parla di cucina ha trovato il posto giusto dove far conoscere il suo libro di ricette. Se un utente clicca quel banner l'inserzionista paga qualche centesimo a Google, il quale ne dirotta una parte al gestore di quel sito che l'ha ospitato. In questo modo egli ha tutto

l'interesse a piazzare in maniera visibile quel banner, dal momento che ogni volta che esso viene cliccato lui ottiene dei guadagni. E la buona visibilità di questi banner è il motivo che li rende interessanti per gli inserzionisti. Si chiude così un formidabile circuito di interessi dove i tre attori che giocano la partita, Google, il gestore del sito che ospita la pubblicità e l'inserzionista che la crea, sono tutti soddisfatti. I primi due guadagnano, il terzo paga, ottenendo in cambio visibilità per il suo prodotto.

Si capisce bene dove sta il punto. Google gestisce e organizza informazione. Ma ottiene enormi ricavi attraverso un sistema parallelo che poggia sull'informazione stessa che tratta: è lecito

5 Questa svolta vede anche in parallelo un riassetto della dirigenza di Google. Al famoso duo si affianca un

personaggio chiave nel ruolo di CEO, Eric Schmidt. Si tratta di una vecchia volpe del capitalismo americano, proveniva da aziende del calibro di Sun e Novell.

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chiedersi se tra questi due mondi adiacenti non si strutturino, col tempo, interazioni nascoste che corrodono certi principi etici?

L'altra strada che è stata imboccata riguarda i servizi. Si rivolgono ai campi più disparati e attraggono milioni di utenti attorno al motore di ricerca. Sono così tanti ed escono con

aggiornamenti così frequenti che mentre scrivo dovrei controllare se l'elenco che ho fatto non vada aggiornato. Basta mettere in fila anche soltanto i nomi di ciascun servizio per averne idea. Quindi, accanto al cardine principale di Google, cioè il motore di ricerca, abbiamo anche: Google News, Google Adwords e Adsense, Google Chrome, Google Toolbar, Google Search Appliance e Google Mini, Google Webmaster Tool, Google Analytics, Google Pages & Blogger, Google Checkout, Google Gmail, Google Talk, Google Docs & Spreadsheet, Google Maps, Google Earth, Google Street, Google Search Books, Google Scholar, Google Health, Google Catalog, Google Calendar, Google Desktop, Google Finance, Google Picasa, Google Video, Froogle, Youtube, Orkut.

Si tratta di servizi molto utili, alcuni divertenti. Levati, ovviamente, quelli che riguardano la pubblicità, tutti gli altri sono gratuiti: abbiamo a che fare con la prima multinazionale della storia visceralmente altruista?

Google va in borsa

Il 2004 è l'anno del grande balzo, tanto travagliato quanto vincente. Oltre a consacrare Google tra i grandi di Wall Street, le vicende della quotazione in borsa ci raccontano bene come sia riuscito a strutturarsi in un modo diverso dalla consuetudine, sia sul piano delle scelte finanziarie, sia su quello dello stile.

Si distinse subito attraverso un espediente abbastanza buffo. Nel documento preliminare di presentazione scrissero che la società avrebbe venduto quote per un valore di 2.718.281.828 dollari. Non era un numero casuale, ricordava "e" un numero irrazionale, di quelli famosi come P greco. Serviva anche per comunicare che il controllo della società era e sarebbe restato nelle mani dei geek, cioè i giovanotti smanettoni super esperti di computer, che sono l'ossatura di Google.

Ma fu soprattutto il modo col quale avvenne la quotazione che sancì anche nel mondo finanziario l'anticonformismo di Google. In questo, bisogna riconoscerlo, i due ragazzi di Stanford hanno dimostrato un coraggio e una determinazione che immagino sia veramente raro trovare in persone di quell'età. Andare contro alle consuetudini di un ambiente come quello di Wall Street non è cosa da poco.

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affida il compito di stabilire il valore della società e il prezzo delle azioni. E' noto tra gli analisti che di solito la banca stabilisce un prezzo più basso di quello reale, in modo da architettare un balzo del prezzo dei titoli il primo giorno di contrattazione. E' una pratica che si ritiene essere più a vantaggio della banca piuttosto che dell'azienda. Larry e Sergey erano al corrente dei molti scandali che erano accaduti per via di quella pratica che sembrava loro marcia e corrotta. Essa, tenendo il prezzo di quotazione artificialmente basso, permetteva di far guadagnare gli 'amici' che avrebbero rivenduto immediatamente le azioni il primo giorno di contrattazione.

Google invece scelse WR Hambrecht, una banca che praticava un metodo nuovo e più

democratico per le quotazioni iniziali, che venivano stabilite preliminarmente attraverso un'asta pubblica, un procedimento noto sotto il nome di "asta olandese". Si trattava di una pratica diversa dalla consuetudine e non era affatto scontato che sarebbe stata accettata dai finanziatori di Google.

Inoltre, nel documento preliminare di presentazione - il cosiddetto S1 - Brin e Page scrissero una lettera intitolata "Un manuale di istruzioni per gli azionisti di Google". Vi si leggeva che Google era diverso, speciale, eccezionale, che non era una società convenzionale e non voleva diventarlo. "La lettera" scrive il giornalista John Battelle "fece rabbrividire non pochi osservatori, a Wall Street e altrove. Dal punto di vista della Borsa non era molto diversa da un insulto"6. La diversità

annunciata a parole si traduceva nella strutturazione di assetti societari inconsueti, che garantivano a Google di mantenere il pieno controllo sulla società:

La struttura tipica della proprietà condivisa - si legge nella lettera - potrebbe mettere in pericolo l'indipendenza e la capacità di concentrarsi sui propri obiettivi, molto importanti per il successo di Google in passato e che consideriamo fondamentali per il suo futuro. Perciò, abbiamo progettato una struttura aziendale che proteggerà la capacità di Google di innovare e mantenere i suoi caratteri distintivi7.

Si trattava di un assetto societario a "doppia categoria". Permetteva ai fondatori e agli alti

dirigenti di mantenere un controllo molto maggiore sulla società rispetto ai comuni azionisti. Era una pratica insolita per le aziende tecnologiche che veniva adottata soltanto in quelle editoriali. Può essere letta come una sete di potere, ma anche come un modo per restare indipendenti e salvaguardare certi principi.

Il titolo debuttò al NASDAQ nell'agosto del 2004. Larry Page suonò il campanello nella sala delle contrattazioni e Google Inc. divenne una società pubblica. La quotazione iniziale fu di 85 dollari per azione. Il giorno dopo valeva già 108 dollari; a novembre aveva già superato i 200. Anche questa volta i due "mocciosi di Stanford" avevano avuto ragione.

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Stile, metodo e credibilità di Google

Per saper se possiamo fidarci di Google, dobbiamo iniziare a capirne lo stile e vedere quanto risulta credibile rispetto alla sua effettiva condotta. Prenderò in esame tre aspetti: il suo

principale motto aziendale, le sue scelte filantropiche e quelle relative al software open source.

"Non essere cattivo"

Come abbiamo visto, il lancio di Google in borsa aveva consolidato in maniera decisiva la sua diversità, ma questa aveva avuto modo di emergere già da tempo in vari modi. L'aver scelto come motto aziendale "don't be evil" è sicuramente quello più famoso.

Quando nel 2001 subentrò Eric Schmidt nel ruolo di CEO8 Google aveva avuto un incremento di

personale considerevole, così rapido che si correva il rischio che i nuovi arrivati non avessero il tempo di far proprio lo spirito aziendale, ma al contrario sovrapponessero le visioni che

provenivano dalle loro diverse origini professionali, creando una confusione identitaria.

Pertanto, nella prima riunione tra Brin, Page e Schmidt - il nuovo triumvirato che tuttora governa Google - fu deciso che occorreva trovare un modo efficace per comunicare ai dipendenti la filosofia aziendale, quella dei primordi, in modo che fosse per loro più facile farla propria. Fu convocata una riunione coi dipendenti della prima ora così da individuare in maniera comprensibile i principi chiave che rappresentano l'identità di Google. Dopo una serie di

proposte che non avevano riscosso successo il brainstorming si era quasi impantanato, quando da Paul Buchheit, un ingegnere, uscì quella frase. Fece presa su tutti e rapidamente si diffuse.

Devo dire che un motto del genere risulta al mio orecchio naiv e poco credibile. Dal mio punto di vista inevitabilmente situato "sulla riva destra" dell'Atlantico lo percepisco inizialmente come un vero e proprio distillato di nordamericanità, e mi chiedo se questa sensazione derivi da un mio pregiudizio o abbia un qualche fondamento. Se poi consideriamo il modo col quale Google è andato in Cina - ne parlerò più in là - l'effetto di questo motto si tinge addirittura di ridicolo. Perché noi europei percepiamo certo mondo nordamericano come semplicemente naiv?

Eppure, gli Stati Uniti d'America è il paese che ha mandato degli uomini sulla Luna, un'impresa straordinaria, che ha tenuto incollati a uno schermo milioni di persone di ogni genere, etnia o classe. Ha fatto breccia nell'immaginario collettivo toccando quelle corde che solo la poesia raggiunge; è un'impresa tutt'altro che naiv, è epica. Ha toccato la nostra parte naiv senza darcene la consapevolezza; e dunque ha catturato la totalità del nostro spirito, senza che la ragione

7 Ivi

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intervenisse per "fare ordine". Se poi considero quanta scienza c'è dietro a quell'impresa, a questa mia domanda di fondo non riesco proprio a rispondere.

Mi viene in mente un altro episodio che ha fortemente risvegliato in me questa domanda, il film

Una scomoda verità dell'ex vice-presidente degli Stati Uniti Al Gore. Dice cose giuste, fornisce

dati scientificamente ponderati e pone questioni importanti, perché ci ricorda efficacemente che di fronte ai cambiamenti climatici dobbiamo maturare un pensiero nuovo e riconsiderare i

fondamenti del nostro modello di sviluppo. Ma di fronte a certe sequenze del film dove si vede Al Gore assorto davanti a un computer mentre medita sui destini della Terra e del genere umano, percepisco le frasi che vengono vibrate da una voce fuori campo come provenienti dal tema di un bambino delle elementari. Non le sento cioè credibili, ho la netta sensazione di assistere a un

fiction, confezionata maldestramente per toccare una parte di me che sento ormai inesorabilmente

sepolta in un passato lontano.

Così, di fronte a un motto come "non essere cattivo" il pensiero che esso rappresenti lo spirito di una multinazionale non può non lasciarmi in bocca un retrogusto che sa di finzione.

"You can make money without doing evil" si legge nella pagina di presentazione di Google intitolata La nostra filosofia. Nella versione italiana essa diventa "È possibile guadagnare senza fare del male a nessuno". Posto che la traduzione sia stata sufficientemente meditata, non è stato scritto "... senza fare cose cattive" o "senza essere cattivi". Noto, cioè, che è stata scelta la formula "senza fare del male a nessuno". Mettendo quel partitivo davanti a "male" si usa un'espressione dove il concetto di male si attenua, e si avverte uno sforzo per renderlo potabile a un palato europeo. E così nella versione tedesca "...ohne jemandem damit zu schaden" dove analogamente, anziché impostare il discorso con presupposti manichei, lo si vira verso un più realistico "senza

danneggiare nessuno". In quella francese si va ancora oltre, e si gioca la carta dell'ironia: "... sans

vendre son âme au diable9

".

Energia pulita, beneficenza, sviluppo

Google si è dotato di quello che i suoi stessi fondatori hanno definito il loro "braccio filantropico". Si tratta di Google.org, un ibrido tra un'associazione non profit e un'azienda. Ha a disposizione ben un miliardo di dollari. Il suo obiettivo è finanziare progetti commerciali innovativi e di aiuto ai paesi in via di sviluppo, nel campo delle energie alternative, dell'accesso all'istruzione, della lotta contro la povertà. Ad esempio, alcuni progetti nati da questa

organizzazione riguardano l'approvvigionamento idrico delle zone più povere del Kenya, un

9 "Senza vendere l'anima al diavolo". Queste citazioni sono tratte dalle pagine dove Google presenta la sua filosofia e

gli strumenti che usa. Sono raggiungibili dal link "tutto su Google" presente sulla home page di ogni sezione nazionale.

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programma d'alfabetizzazione per l'India rurale e il fornire visibilità pubblicitaria gratuita alle associazioni non profit (Google Grants).

L'iniziativa ha un gusto"new age". Basti pensare che il direttore Larry Brilliant è solito

soggiornare sull'Himalaya, dove studia gli insegnamenti di alcuni guru induisti. "Google.org è nuovo concetto, può fare di tutto: dare avvio ad imprese, creare nuovi settori industriali, pagare consulenze, dare soldi a singoli individui e lucrarci sopra", ha dichiarato.

Un'altra grande iniziativa che consolida e rilancia questo afflato altruista di Google è nata di recente. "Vuoi cambiare il mondo? Anche noi. Siamo alla ricerca di grandi idee che siano di aiuto a quante più persone possibile e ci impegniamo a realizzare le migliori." Con questa frase viene introdotto il Project 10100

lanciato da Google in occasione del decennale della sua fondazione10

. Si tratta di una nuova iniziativa filantropica, forse quella più in grande stile. Come è ormai

consuetudine, nel presentarsi poggia spiritosamente la sua comunicazione su basi matematiche, in questo caso collegate al fatto che Google compie gli anni e ne compie 10. Quel numero infatti è ben presente. Lo si evoca innanzitutto nel nome del progetto "Dieci alla centesima" e ricorre anche in altre occasioni, ad esempio mentre si comunica la cifra stanziata per realizzare le idee raccolte: 10 milioni di dollari. Inoltre, dieci alla centesima si riferisce a quanto in matematica viene chiamato col nome googol, quel numero grandissimo che incarna, appunto, lo spirito di

Google11

.

Con Project 10100

i genietti di Mountain View chiamano a raccolta le persone con migliori idee e sensibilità perché elaborino un'idea che cambi il mondo e sia di aiuto per qualcuno. Il tutto in maniera semplice e in perfetto stile Google, ossia all'insegna di gioventù, entusiasmo, allegria. Per spiegare meglio cosa chiedono suddividono in diversi ambiti le ipotesi possibili:

* Comunità: come possiamo aiutare a mettere in contatto le persone, creare comunità e proteggere culture locali?

* Opportunità: come possiamo aiutare le persone a provvedere meglio a se stesse e alle proprie famiglie?

* Energia: come possiamo aiutare a promuovere l'utilizzo di energia sicura, pulita ed economica per il pianeta?

* Ambiente: come possiamo aiutare a promuovere un ecosistema globale più pulito e sostenibile?

* Salute: come possiamo aiutare le persone a vivere più a lungo e in salute? * Istruzione: come possiamo aiutare più persone ad avere accesso a un'istruzione

migliore?

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* Casa: come possiamo aiutare a garantire che tutti abbiano un luogo sicuro in cui vivere?

* Altro: a volte le idee migliori non rientrano in alcuna categoria specifica.

Se di fronte al motto "non essere cattivo" rimango inesorabilmente perplesso, nel caso di queste iniziative non posso che rilevarne l'aspetto positivo, per lo meno quello che emanano a una prima impressione.

Il punto è che la nostra sensibilità oscilla sempre tra il credere o meno alla sincerità di questa filantropia. In altre parole, ci chiediamo se non sia una filantropia calcolata, che, a conti fatti, conviene di più rispetto al procurarsi una buona immagine attraverso altri strumenti, forse meno efficaci, forse più dispendiosi. Di esempi del genere ne abbiamo intorno tantissimi, e in tutti i casi ci si presenta lo stesso problema etico di fondo.

Ricordo, ad esempio, una pubblicità di Benetton dove i concetti in gioco sono gli stessi. Due persone semplici, di colore, campeggiano in primo piano, una con uno strumento di lavoro un po' usurato, l'altra con indosso una maschera da saldatore. Nel messaggio si dice che Benetton

finanzia progetti di microcredito in Africa in modo da permettere alle persone di avviare piccole attività. Tutto molto bello, ma si potrebbe rilevare innanzitutto una incoerenza di fondo:

Benetton produce oggetti che descrivono il tipico lato simbolico del nostro mondo opulento, e dunque, se proprio avesse a cuore i destini dei poveri del mondo, perché non smette di produrre magliette che costano uno sproposito rispetto a quello che veramente sono? Sarebbe molto più credibile ed efficace, nel lungo periodo, ma in questo caso si tratta di un'ipotesi assurda, perché equivarrebbe a chiedere a Benetton di smettere di essere se stesso.

Nel caso di Google saremmo portati ad essere scettici di fronte a questa sua filantropia se

pensiamo che si tratta di una multinazionale, sebbene completamente diversa rispetto a Benetton. Quando invece ci rivolgessimo alla storia personale di Sergey Brin e Larry Page, e lo facessimo in maniera approfondita, scopriremmo degli aspetti che invece ci possono procurare fiducia. Ma quanto i due sono Google? Quanto lo rappresentano ormai? Pur avendo in mano saldamente le redini, quanto sono in grado di essere indipendenti rispetto a certe sollecitazioni che

inevitabilmente ricevono dall'immenso meccanismo che hanno innescato col loro talento? Per lo meno possiamo guardare con favore il fatto che la filantropia di Google non consiste in quell'insopportabile beneficenza di bella maniera, i cui tipici riti si consumano in cene sontuose dove persone infiocchettate elargiscono somme importanti, che rispetto al loro tenore di vita sono irrisorie. Si tratta invece di finanziare progetti volti a migliorare la vita degli altri e in un modo che li renda materialmente e intellettualmente autonomi, dunque non elargendo elemosine, ma

11 I ragazzi di Google sono spiritosi e a volte combinano degli scherzi niente male. Si veda ad esempio il comunicato

stampa col quale annunciavano l'evoluzione del loro algoritmo nel nuovo PigeonRank: www.google.com/technology/pigeonrank.html.

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preoccupandosi di sviluppo, sebbene non ci sia dato sapere con quali criteri specifici. Guardiamo il testo con cui viene presentato Project 10100

:

Mai come oggi tante persone hanno avuto a disposizione una quantità così elevata di informazioni, strumenti e metodi per realizzare buone idee. Eppure, allo stesso tempo, tante persone di qualsiasi condizione sociale potrebbero beneficiare dell'aiuto altrui, grande o piccolo che sia.

A questo proposito, nuovi studi ribadiscono il semplice concetto che raggiunto un certo livello di benessere materiale di base, l'unica cosa che aumenta la felicità individuale nel corso del tempo è l'opportunità di aiutare altre persone.

In altre parole, aiutare va a vantaggio di tutti, sia di chi aiuta, sia di chi viene aiutato. La domanda è: in che modo si può aiutare? E cosa aiuta di più?

Google non ha queste risposte, ma sa che sono da qualche parte, alla tua portata. Forse in un laboratorio, una società o università, o forse no.

Forse la risposta che può aiutare qualcuno è nella tua testa, in qualcosa che hai

osservato, in qualche nozione che ha stuzzicato il tuo interesse, in qualche collegamento che hai notato, in qualcosa di vecchio che per la prima volta hai visto con altri occhi. Se hai un'idea che pensi possa aiutare qualcuno, desideriamo ascoltarla. Cerchiamo idee che possano aiutare il maggior numero possibile di persone in qualsiasi modo e intendiamo destinare le risorse necessarie per realizzarle. Puoi inviare le tue idee e votare quelle di altri. La selezione finale delle idee verrà effettuata da un comitato consultivo.

Buona fortuna e che vinca l'idea migliore.

Condivido in gran parte quanto si legge in questo testo, chi se la sentirebbe di contestarlo? E questa volta l'hanno pensata proprio bene: non riesco a fare il dietrologo, mi sembra una iniziativa condivisibile di cui apprezzare lo spirito.

Tuttavia, concludo questo paragrafo osservando un piccolo grande dettaglio. A chi ha scritto questo testo è scappata una parola di troppo. Tradisce un "dietro le quinte" assai poco umano, freddo, oppure semplicemente buffo. Forse esagero, mi correggo: gli è scappata una parola di troppo che ha avuto su di me l'effetto di un dito in un occhio.

Si trova nel secondo capoverso. Nel dire una certa cosa (che tra l'altro condivido), ossia che una volta soddisfatti i nostri bisogni primari possiamo essere felici aiutando gli altri (e non - lo deduco - cercando ulteriore benessere materiale) come si fa a introdurre un concetto del genere con "nuovi studi ribadiscono il semplice concetto che..."?

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C'è bisogno di riferirsi a degli studi (psichiatrici?, filosofici?, teologici?) per dare forza a un concetto come quello, la cui forza sta solo e soltanto dentro di lui? Cosa mi risponderebbe una donna di cui fossi perdutamente innamorato se le dicessi "nuovi studi ribadiscono il semplice concetto che, dal momento che sei la donna che amo, se tu accettassi di vivere insieme a me sarei la persona più felice del mondo"? Per capire che la felicità non sta nel comprarsi la macchina sempre più grossa della precedente voi nordamericani avete bisogno di... "nuovi studi"? Non sapete raggiungerla da soli guardandovi semplicemente attorno e non sapete presentarla senza puntelli esterni questa semplice, terribile verità?

Open source è bello (e utile)

Nel campo del software e del suo sviluppo le diverse scelte possibili non riguardano un mero ambito tecnico, sono molto di più, riflettono un atteggiamento mentale, una visione del mondo e dei rapporti tra le persone; più in generale, sono frutto di scelte culturali.

Tra i tanti modelli possibili possiamo distinguere due grandi categorie. Nella prima gli attori del processo di sviluppo sono le multinazionali. Il loro rapporto con la comunità degli utilizzatori è sostanzialmente verticale, da produttore a consumatore. Nella seconda, invece, è la comunità stessa degli utilizzatori che collabora, discute e sperimenta collettivamente per creare nuove soluzioni, con l'obiettivo dichiarato di condividerle liberamente - se pur in modi che interpretano con gradi diversi i possibili sviluppi commerciali - in una logica detta open source. In astratto, potremmo dire che lavora in modo orizzontale. Chi rappresenta simbolicamente il primo gruppo è la Microsoft; il secondo vede nella creazione del sistema operativo Linux l'evento madre di questa filosofia12

.

Google ha scelto questa seconda visione. E' uno degli ambiti dove si vedono distintamente le tracce profonde lasciate dalle sue origini universitarie, e la sua condotta su questo versante è simile e parallela a quella che abbiamo visto per le sue attività filantropiche. Le parole d'ordine sono condivisione, competizione, credere nelle giovani intelligenze e fornire tutti gli strumenti perché queste possano dare il meglio di sé. Da questo punto di vista Google ha rappresentato una visione opposta a quella della tanto odiata Microsoft, diventando un punto di riferimento nuovo per la comunità open source, procurandosi simpatia e un consenso ideologico profondo.

Questa scelta di fondo si attua attraverso pratiche molto concrete. Innanzitutto nei criteri di organizzazione del lavoro al suo interno e nel modo col quale vengono trattati i dipendenti. Il Googleplex, la ormai mitica sede di Mountain View, è un luogo che non sembra un luogo di lavoro, ma un campus universitario, addirittura un centro benessere. Chi vi lavora è coccolato, ha

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a disposizione molti strumenti per rilassarsi, distrarsi, persino giocare e fare sport. Può usufruire di servizi di uso comune, come ad esempio un asilo, il dentista, il barbiere. Inoltre, può impiegare una parte del suo tempo per pensare liberamente a suoi progetti personali. La strutturazione del lavoro di ricerca è concepita in maniera molto leggera: al posto di pesanti architetture fondate su complesse gerarchie, esistono molti piccoli gruppi che hanno il compito di elaborare progetti di frontiera. Attraverso poi un sistema di valutazione molto flessibile e competitivo si scelgono quelli più promettenti e interessanti. Questo modo di lavorare e la filosofia che lo ispira sono la base di altre iniziative più episodiche che Google rivolge all'esterno. Ad esempio il Summer of Code (L'estate del Codice) un evento che chiama a raccolta il mondo open source attraverso una gara-concorso dove si premiano i migliori partecipanti con una somma in denaro.

La condotta di Google ha degli elementi critici in questo ambito. Vanno visti capendo come questa filosofia ispirata da criteri di condivisione si è evoluta nei confronti del mercato. Free software (software libero) e open source (sorgente aperta) tendono a essere usati come sinonimi, ma sono mondi diversi, sebbene spesso descrivano oggetti identici. Il primo è una filosofia di sviluppo, il secondo riguarda i modi di applicazione commerciale dei software prodotti

ispirandosi a quella filosofia. Google, secondo i ricercatori del gruppo Ippolita, sfrutterebbe la creatività di chi crede nel software libero, con tutti i vantaggi che da lì conseguono, per produrre software forzando successivamente a proprio vantaggio le scelte di commerciabilità e di visibilità del codice in ambito open source13

.

Questa pratica, partita da presupposti collettivisti, anti-monopolistici e orizzontali, si avvierebbe, suo malgrado o grazie a una certa dose di malizia, a riproporre sotto mentite spoglie le stesse logiche che inizialmente voleva combattere. In altre parole, Google, fagocitando intelligenze attraverso seduzioni di vario tipo (prima di tutto ideologiche e di stile) e riuscendo a sfornare prodotti software in gran quantità, starebbe soffocando la concorrenza, riducendo

considerevolmente gli spazi per tutti gli attori grandi e piccoli che gravitano attorno al mondo open source. Ossia, tende a inglobare dentro di sé qualunque start-up promettente prima ancora che questa si accorga di essere potenzialmente tale. Se da una parte questo accentramento è positivo perché offre strumenti e servizi di alto livello a chi ha idee nuove, dall'altra rischia di avere una deriva monopolistica che è il freno principale di qualunque innovazione. Se poi consideriamo la direzione che il concetto stesso di software sta prendendo, questo pericolo assume connotati ancora più preoccupanti. Infatti il Web potrebbe diventare tra breve la prossima piattaforma di calcolo grazie alla quale funzionano i computer14

. E Internet non sarebbe

12 Se ci riferiamo al mondo del software. Più in generale, Internet è il luogo che ha permesso a questa filosofia di

prendere luce: esso stesso ne è il frutto.

13 Cfr. Ippolita, Luci e ombre di Google. Futuro e passato dell’industria dei metadati, Feltrinelli, Milano 2007, pp.

59-78.

14 Su questo argomento si veda il recentissimo libro di Nicholas Carr, The Big Switch. Our New Digital Destiny.

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più soltanto il luogo dove questi computer si incontrano, ma anche il luogo dove essi trovano l'intelligenza che li fa funzionare. Si capisce bene che in questo processo di incontro e osmosi tra Internet e il software i possibili monopoli vadano vigilati con molta attenzione, specialmente quando questi provengano da attori come Google, che primeggiano in entrambi i versanti15

. Anche in questo ambito sorge lo stesso dubbio che emerge in altri contesti. Quanto l'aver sposato logiche di condivisione è ancora effettivamente frutto delle scelte culturali che ne sono la base, e quanto invece è diventato un modo astuto per sfruttare intelligenze tra l'altro ben contente di lavorare per il colosso di Mountain View? Quanto, cioè, si fanno scelte etiche perché si crede davvero nella loro importanza, e quanto invece esse sono semplicemente convenienti?

15 A questi timori va aggiunto il fatto che Google si sta orientando verso un altro settore chiave di Internet, quello che

riguarda la connettività. Ad esempio, attraverso i sistemi WiFi di accesso alla rete che ha iniziato a sviluppare insieme al suo partner Earthlink. Ma soprattutto attraverso altre architetture di comunicazione, di cui molti parlano, che sembrerebbero permettere a Google la creazione di un "Internet parallela" di cui avrebbe il pieno controllo. Questa ambizione sarebbe anche provocata dallo spinoso dibattito in corso negli Stati Uniti sul concetto di neutralità della rete. Infatti, i grandi operatori che forniscono connettività sarebbero stanchi di essere semplici "idraulici" che mantengono una infrastruttura grazie alla quale le principali aziende Internet producono enormi guadagni, e vorrebbero che queste pagassero una quota speciale per l'accesso alla rete che ottengono.

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Alcune vedute del Googleplex di Mountain View, California. Si possono notare le ampie superfici coperte da pannelli fotovoltaici

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Privacy e censura

Ora che abbiamo raccontato a grandi linee alcune tappe significative della storia di Google e abbiamo riflettuto su alcuni aspetti che riguardano il suo stile, bisogna scendere più in profondità e analizzare alcune questioni specifiche che hanno risvolti problematici importanti.

Come abbiamo visto, il 2004 è stato l'anno del lancio in borsa e l'inizio di una nuova formidabile ascesa. Ma è stato anche l'anno in cui Google si è imbattuto nel primo serio problema che ha scalfito la sua immagine di gigante buono. E' a partire da qui che anche il linguaggio comincia a riflettere un primo malcontento e una certa delusione degli internauti, basti pensare alla comparsa del soprannome BigG che ricorda l'onniscente e onnipotente Grande Fratello orwelliano.

Lo spirito idealista e filantropico dei due fondatori Sergey Brin e Larry Page sembra avviarsi verso una lunga parabola, che lo porterà inevitabilmente a soccombere alle crude logiche che governano il nostro tempo.

Le situazioni dalle quali si scatenano questi problemi sono due. Una è Gmail, un nuovo servizio di posta elettronica, l'altra è lo sbarco in Cina degli uomini di Mountain View avvenuto nel 2006: le parole chiave che le descrivono sono privacy e censura.

Il Grande Fratello inciampa su se stesso

Quando Gmail fu lanciato, i numeri erano tutti dalla sua parte: 1 Giga di spazio a disposizione, contro gli appena 10 Mega dei concorrenti, e inoltre un'interfaccia di ricerca di gran lunga migliore. E' gratis come gli altri, e come gli altri produrrà profitti grazie alla pubblicità posizionata in ogni messaggio. Solo che Google la selezionerà attraverso la tecnologia di AdWords, che si è dimostrata straordinaria nel creare guadagni perché riesce a far incontrare domanda e offerta meravigliosamente bene. Ma accadde qualcosa di sorprendente. Di solito si pensa che i problemi nascano quando qualcosa non funziona: questa volta invece nascono perché lo strumento funziona troppo bene. La pertinenza dei messaggi pubblicitari è così precisa che scoppia lo scandalo: Google legge la tua posta. Lo strumento che doveva aggiungere nuovi profitti si pensa possa trasformarsi in un boomerang; Google sembra essere vittima di se stesso. Le reazioni furono innumerevoli. La senatrice dello Stato della California, Liz Figueroa, propose addirittura una legge per bandire completamente Gmail, cosa che poi non avvenne, ma da lì ebbe inizio un acceso dibattito. Charles Cooper di Cnet.com, un sito di informazione tecnologica, sostenne che "la ricerca è una cosa, la vostra e-mail è un'altra (…) Volete che Google ficchi il naso in queste cose? (…) non c'è bisogno di essere degli estremisti della privacy per capire che questa è una pessima idea."; Daniel Brandt di GoogleWatch.org, un sito nato interamente per

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