Come l’ASEAN abbia contribuito a migliorare e pregiudicare il precario equilibrio regionale.
3.1 Una panoramica storico-istituzionale sul percorso dell’ASEAN.
3.1.2 Problematiche e progressi nella sicurezza regionale e cooperazione politica
Procedendo sul medesimo sentiero battuto per descrivere una parte del processo di integrazione economica, esistono dei dubbi riguardo le effettive possibilità dell’ASEAN di diventare un catalizzatore di cooperazione e contribuire attivamente alla riduzione dei conflitti nella regione. Per diverso tempo la questione della sicurezza regionale sembrava incanalarsi in un pericoloso limbo, in bilico tra la volontà di costituire delle organizzazioni ad hoc, come ad esempio
153 l’ARF, e i comportamenti egoistici, opportunistici e talvolta eccessivamente
politicizzati degli stati coinvolti nella disputa per le isole Spratly nel Mar Cinese Meridionale. L’approccio dell’associazione alle problematiche e alla cooperazione sulla sicurezza era fortemente di stampo individualista e autodeterminante, ovvero fondato su prese di posizione individuali, e non contemplava l’idea di sicurezza collettiva. Filippine e Indonesia insistevano sul mantenere l’ASEAN avulso da determinate dinamiche, impedendo così che l’associazione diventasse uno strumento di sicurezza al servizio delle grandi potenze. Diverse dichiarazioni ufficiali ribadirono il rifiuto di un ruolo militare per l’ASEAN, riaffermando la piena responsabilità degli stati nella tutela della propria sicurezza238, ma ciò non impediva ai singoli stati di firmare degli accordi bilaterali di cooperazione militare o il rinnovo di patti difensivi con potenze esterne alla regione come Stati Uniti e Regno Unito. Diversi membri dell’associazione continuarono a fare affidamento sullo scudo difensivo fornito da Washington e, in misura decisamente inferiore, da Londra. Negli anni ’70 il principale obiettivo dell’ASEAN era la creazione di una zona completamente priva di qualsiasi armamento nucleare. Nel 1971 venne firmata una dichiarazione chiamata Zone of Peace, Freedom and Neutrality (ZOPFAN), che però lasciava molto a desiderare in termini di sicurezza collettiva e non garantiva un effettivo controllo sull’aderenza dei firmatari. Infatti, nonostante con lo ZOPFAN si volesse perseguire una politica di non allineamento, ciò non impedì agli stati ASEAN di stipulare accordi di difesa con altre nazioni non facenti parte dell’associazione. In particolare, Malaysia e Singapore stipularono un accordo con Gran Bretagna, Australia e Nuova Zelanda, mentre le Filippine firmarono un trattato di difesa con gli Stati Uniti. Solamente l’Indonesia rimase fedele alla propria politica di non allineamento durante la Guerra Fredda. Ciononostante, attraverso la creazione del ZOPFAN si cercarono di perseguire determinati traguardi strategici, sebbene non condivisi pienamente da tutti i membri.
Il primo riguardava la volontà di rendere il sudest asiatico una zona neutrale grazie alle garanzie di Stati Uniti, Unione Sovietica e Repubblica Popolare Cinese. Queste grandi potenze avrebbero dovuto riconoscere e rispettare la neutralità della zona ASEAN e garantirla attraverso un preciso meccanismo di monitoraggio reciproco.
238 Acharya Amitav, Constructing a Security Community in Southeast Asia. ASEAN and the problem of regional order,
154 Il secondo obiettivo si riferisce alla tutela dei principi di non aggressione e non
interferenza reciproca tra i membri, in modo da ridurre al minimo la possibilità di essere coinvolti nello scenario della Guerra Fredda e cercare di tenere il conflitto il più lontano possibile dalla propria zona.
Secondo Barry Buzan, durante la Guerra Fredda la stabilità globale era garantita da Stati Uniti e Unione Sovietica grazie alla loro politica di deterrenza estesa, consistente nel tanto propagandando hub-and-spoke network che permetteva sia a Washington di garantire la sicurezza ai paesi asiatici aderenti al proprio schieramento che a Mosca di fare altrettanto con i governi che sposavano la causa comunista. Le strategie di sicurezza bilaterale e i patti militari implementarono questa sorta di mutua deterrenza e stabilità tra le due superpotenze ed i loro alleati regionali, incanalando così anche diversi confronti come ad esempio quello tra Corea del Sud e Corea del Nord, Cina e Taiwan, India e Pakistan239.
Durante la seconda metà degli anni ’70 l’equilibrio della sicurezza regionale venne pregiudicato dal ritiro delle truppe americane dal Vietnam e dalla distensione tra Pechino e Washington. Vi era la netta percezione che la riduzione della presenza occidentale nell’area non avrebbe potuto implicare altro che un progressivo aumento dell’influenza degli stati comunisti come URSS, RPC e Vietnam. Di conseguenza la politica estera della maggior parte degli stati ASEAN dovette adattarsi a questa nuova situazione, passando da una posizione tendenzialmente filoccidentale ad una meno schierata e orientata alla neutralità, nonostante alcuni stati non vedessero in essa delle particolari prospettive di sicurezza e stabilità. Per questo motivo si cercò di implementare e potenziare le funzioni dello ZOPFAN, che secondo l’ASEAN si sarebbe potuto concretizzare solamente attraverso la ricerca dello sviluppo nazionale e della cooperazione regionale tra gli stati membri, spurie di interferenze esterne, dato che il conflitto tra le grandi potenze nel sudest asiatico rappresentava la principale ragione dell’instabilità regionale. Per la prima volta nella sua giovane storia l’ASEAN, comprendendo che era in atto un cambiamento della struttura e del bilanciamento del potere nella regione, espresse alle grandi potenze che il loro ruolo necessitava di essere ridiscusso e che la loro influenza si sarebbe dovuta ridurre. Lo ZOPFAN incise direttamente nelle relazioni con le grandi potenze e chiarì la volontà dell’ASEAN di affrancarsi da certe
239 Barry Buzan, Wæver Ole, Regions and Powers: The Structure of International Security, Cambridge University
155 questioni. Ciò è riscontrabile in alcuni principi indicati dai firmatari: gli stati
ASEAN non dovevano essere coinvolti nelle ostilità tra le grandi potenze, non avrebbero fatto parte di nessun accordo contrario alle finalità prefisse dallo ZOPFAN e non avrebbero permesso nessuna interferenza nella regione o negli affari interni di uno degli stati membri da parte delle potenze esterne. La volontà di istituzionalizzare lo ZOPFAN indicava nettamente la necessità di stabilire un vero e proprio ordine regionale che le grandi potenze avrebbero dovuto rispettare. Aderendo ai principi sopracitati, le nazioni dell’ASEAN avrebbero avuto un nuovo punto di partenza per gestire la propria sicurezza nazionale e le proprie politiche interne, avrebbero creato un meccanismo e un procedimento atto a dirimere le dispute regionali, eliminato gradualmente la presenza militare straniera, impedito alla minaccia nucleare di insinuarsi nella regione ed ottenere così il riconoscimento di un nuovo ordine regionale da parte delle grandi potenze. Ma questo processo non era ritenuto pienamente accettabile da tutti i membri dell’ASEAN e inizialmente molti sollevarono delle obiezioni. La Malaysia spingeva affinché il documento venisse approvato e ratificato, poiché non si fidava particolarmente del vecchio alleato inglese che, man mano, stava abbandonando la regione. L’Indonesia sposava in pieno la posizione malese e spingeva per rivendicare il suo ruolo di guida entro l’associazione, pensando che una rimaneggiata presenza delle grandi potenze nella regione avrebbe contribuito a rafforzare il suo ruolo di leader nel sudest asiatico. Thailandia e Filippine erano particolarmente inclini alle posizioni di neutralità dello ZOPFAN, poiché in questo modo avrebbero potuto cercare di arginare l’espansione sovietica e cinese dopo il ridimensionamento della politica statunitense. Singapore era, ovviamente, lo stato che poneva più riserve sull’argomento poiché essendo circondato da Indonesia e Malaysia si sentiva comunque in costante pericolo, senza contare che la sua difesa nazionale era basata sulla protezione americana. Ma alla fine accettò anch’esso, più che altro per paura di risvegliare le sopite frizioni con la Malaysia. Si voleva così bilanciare il ruolo delle grandi potenze e mantenere la stabilità regionale. Logicamente era un compito di difficile realizzazione ma l’ASEAN era sicuro che, attraverso l’accentramento del potere nelle proprie mani, sarebbe stato più semplice ottenere quella stabilità messa a repentaglio dalle potenze. In realtà lo ZOPFAN non produsse i risultati diplomatici che l’associazione si auspicava e l’incertezza regionale non fece che acuirsi una volta concluso il confronto bipolare, principalmente a causa del vuoto
156 di potere venutosi a creare dopo la frettolosa ritirata statunitense e la dissoluzione
dell’Unione Sovietica. In un contesto di tale incertezza, la Cina fu particolarmente abile nell’inserirsi e cercare di portarsi in una posizione di vantaggio che le permettesse di proiettare la sua sfera d’influenza, sia economica che politica, in tutta l’Asia Sudorientale.
La fine della Guerra Fredda produsse anche una certa proliferazione di istituzioni per la gestione della sicurezza collettiva e l’emergere di una rete politico- diplomatica informale spesso slegata dalle maglie governative, chiamata track-2
diplomacy240. Ben poche organizzazioni sono state in grado di sviluppare un sistema di confronto dinamico, in grado di fornire le basi per un feedback quotidiano sull’importanza della sicurezza collettiva e il futuro ruolo delle istituzioni ad essa collegata. Basti pensare che la principale istituzione regionale in questo campo, ossia l’ARF, è caratterizzata dallo stesso livello di informalità dell’ASEAN.
Di conseguenza, gli attori regionali iniziarono a ragionare su diverse strategie per controbilanciare la situazione e decisero di creare delle istituzioni focalizzate sulla cooperazione per la sicurezza, come ad esempio lo stesso ASEAN Regional Forum, l’East Asian Summit e l’ASEAN Plus Three. Nonostante gli sforzi compiuti tali organismi sono sprovvisti di una forte istituzionalizzazione e di un formale meccanismo di implementazione dei regolamenti: le peculiarità dell’ASEAN Way inibiscono l’effettiva risoluzione dei conflitti regionali, come il contenzioso sulle Spratly, e l’esercizio di un’effettiva influenza nei confronti extraregionali, come la questione di Taiwan e la nuclearizzazione della Corea del Nord. Non bisogna però trascurare gli aspetti positivi generati dal debole design istituzionale, come ad esempio la totale assenza di confronti armati tra gli stati membri sin dalla creazione dell’associazione nel 1967. In questo senso, l’aspetto più significativo non riguarda la mancanza di meccanismi formali all’interno dell’associazione, quanto la formazione di un’identità collettiva, un senso di appartenenza ad una data comunità internazionale. L’ASEAN è stato pienamente in grado di socializzare i suoi membri
240 Con track-2 diplomacy si intendono gli strumenti diplomatici che si trovano al di fuori del formale sistema
governativo. All’interno di questa categoria rientrano i contatti informali e non-governativi, le attività tra privati cittadini e gruppi di individui. Nel caso specifico dell’Asia Pacifico, rappresenta il canale informale di dialogo politico, economico e sulla sicurezza. Questi incontri e queste organizzazioni sono spesso gestite da accademici, giornalisti e, in misura minore, da politici e ufficiali civili e militari che ufficialmente agiscono da privati cittadini e non nelle loro vesti istituzionali. Si veda Stuart Harris, The Regional Role of Track Two Diplomacy, in The Role of Security and Economic
Cooperation Structures in the Asia Pacific Region, a cura di Hadi Soesastro e Anthony Bergin, Centre for Strategic and
157 all’interno di un virtuoso processo di cooperazione, oltre a ingaggiare la Cina in
diverse piattaforme multilaterali. Questa sorta di incoerenza sistemica ha generato effetti sia positivi che negativi anche per quanto riguarda la cooperazione politica, arena nella quale l’ingombrante presenza dell’ASEAN Way e dei suoi principi è più presente che mai.
L’organizzazione non ha degli specifici criteri di selezione per concedere la membership e non richiede l’adattamento e l’omogeneizzazione della politica domestica dei propri membri. L’ASEAN è visto infatti come una sorta di arena di dialogo dove poter coordinare e indirizzare la discussione sulla sicurezza interna, questione ove la maggioranza dei membri deve affrontare simili problematiche. Questa peculiarità è dovuta principalmente alla comune natura della struttura politica degli attori regionali, con una netta maggioranza dei regimi autoritari in confronto ai sistemi democratici. Durante gli anni ’90 ci fu una sorta di apertura democratica all’interno dell’organizzazione, grazie alla transizione di ben tre padri fondatori come Filippine, Indonesia e Thailandia, che venne però prontamente controbilanciata dall’ingresso di Cambogia, Laos, Myanmar e Vietnam tra il 1994 e il 1999.
La richiesta di democratizzazione dell’ASEAN, intesa come la garanzia di una maggiore partecipazione delle diverse anime della società civile e la creazione di un meccanismo di sanzione per i membri che non tutelano il rispetto dei diritti umani, è stata un punto centrale dell’agenda di diverse istituzioni ed era parte integrante della più ampia strategia di diffusione dei valori democratici nei singoli stati. L’ASEAN era palesemente percepito come un gruppo di stati autoritari e l’ASEAN Way, con la stretta aderenza al principio di non-interferenza, era lo strumento principale di preservazione del sistema. Questa tendenza iniziò ad essere ridiscussa nel 1997, quando la Thailandia invocò una breve revisione del principio di non-interferenza in funzione dell’ingresso del Mynmar nell’associazione. L’Indonesia sponsorizzò fortemente l’inclusione di un meccanismo per la tutela dei diritti umani all’interno dell’ASEAN Charter, ipotesi sostenuta in seguito anche da Filippine e Thailandia, e cercò di costituire un network dove le organizzazioni non- governative potessero interfacciarsi e collaborare tra loro.
La membership del Myanmar ha rappresentato un problema per l’associazione sin dalla sua adesione nel 1997, non solo per le forti critiche e pressioni internazionali giunte da Unione Europea, Stati Uniti e Nazioni Unite. L’ingresso birmano scatenò
158 un processo di riflessione riguardo la misura in cui l’ASEAN potesse
effettivamente promuovere delle norme di buona governance, il rispetto dei diritti umani e la responsabilità democratica. La relativa stabilità garantita dall’aderenza ai principi dell’ASEAN Way aveva comunque un prezzo per questi stati, ossia l’incapacità di implementare un processo democratico sul modello occidentale e consolidare così un concetto di comunità condiviso da tutta la regione. Quindi, se possiamo discutere sull’effettivo contributo dell’associazione riguardo la promozione della buona governance, concetto comunque di stampo occidentale e probabilmente poco confacente alle necessità degli stati del sudest asiatico, allo stesso modo possiamo mettere in discussione l’assunto che l’ASEAN abbia contribuito al consolidamento dei regimi autoritari nella regione. Le differenze tra gli stati ASEAN in termini di livello di democratizzazione e abilità nel condurre una transizione democratica ci lasciano pensare che questi parametri siano determinati principalmente da fattori e necessità domestiche ed internazionali dei singoli stati, situazione dove l’influenza dell’ASEAN potrebbe accrescere nel corso del tempo ma, al momento, appare quantomeno secondaria.