prestazioni atletiche, collocava il rapporto di lavoro sportivo, fra i
rapporti di parasubordinazione
310.
Poco sembrava adattarsi la subordinazione al rapporto di lavoro
sportivo, non solo per la presenza di vincoli che seppur funzionali al
migliore espletamento della prestazione avevano pur sempre evidenti
ricadute anche nella sfera personale e familiare dell‟atleta
311non
riscontrabili nelle ordinarie obbligazioni di lavoro, ma anche per il
carattere ludico delle mansioni a cui l‟atleta era chiamato e che
riservava pur sempre una certa libertà d‟invenzione, poco confacente
con il carattere della subordinazione.
Nonostante ciò, la dottrina maggioritaria era propensa a
ricondurre l‟attività degli atleti nel rapporto di lavoro subordinato
ispirandosi alla disciplina codicistica di cui all‟art. 2094 c.c.
312.
Se in dottrina, dunque, le posizioni erano alquanto varie, la
giurisprudenza, pur con isolate posizioni contrastanti, si è
notevolmente impegnata ad adattare il rapporto di lavoro subordinato
allo sport, inquadrando la prestazione dell‟atleta come lavoro
subordinato.
Procediamo con ordine. Un primo significativo intervento
310
Non potendosi prescindere nello svolgimento dell‟attività sportiva anche da un notevole sforzo intellettivo, S. GRASSELLI, L’attività dei calciatori professionisti
nel quadro dell’ordinamento sportivo, in Giur. It., 1974, pp. 4 ss., già citato tra
coloro i quali riconducevano il rapporto di lavoro sportivo nel lavoro autonomo, riteneva appunto estensibile la disciplina contenuta negli art. 2222 ss. c.c., (da ciò faceva derivare tra l‟altro l‟inammissibilità del recesso unilaterale dell‟atleta e la configurabilità di una collaborazione coordinata e continuativa).
311
Si pensi, ad esempio, ai ritiri in preparazione delle gare.
312
In tal senso, A.MARTONE, Osservazioni in tema di lavoro sportivo, in Riv. dir.
sport., 1964, pg. 117; C. GIROTTI, Il rapporto giuridico del calciatore
professionista, in Riv. dir. sport., 1977, pg. 183; R. BORRUSO, Lineamenti del
contratto di lavoro sportivo, in Riv. dir. sport., 1963, pg. 72; F.POCHINI FREDIANI,
Aspetti sostanziali e processuali del “vincolo” dei calciatori professionisti, in Riv. dir. sport. 1967, pg. 179.
144
giurisprudenziale risale al 1953 quando la Corte di Cassazione, con la
sentenza n. 2085
313affermò che il rapporto che legava un calciatore
all‟associazione calcistica, fosse un rapporto di appartenenza e
qualificò il relativo contratto di lavoro come di prestazione d‟opera,
fonte soltanto di un diritto di credito (tra l‟altro non risarcibile). Una
successiva pronuncia del 1961
314segnò un radicale mutamento
d‟indirizzo dei giudici di legittimità, i quali evidenziando i
313
Cass., 4 luglio 1953, n. 2085, in Giur. lav., 1953, I, 1, pg. 828. In seguito alla sciagura aerea di Superga del 1949, nella quale perì l‟intera squadra di calcio del Torino, l‟associazione calcio Torino citò in giudizio la compagnia aerea sul cui aereo viaggiava la squadra, chiedendo le venisse riconosciuto il diritto al risarcimento del danno derivante da lesione del credito, non potendo più godere delle prestazioni dei propri calciatori. La Suprema Corte respinse la domanda affermando, tra l‟altro, che il rapporto che legava un calciatore all‟associazione calcistica era un rapporto di appartenenza, configurando il contratto di lavoro come di prestazione d‟opera. In quell‟occasione la Cassazione affermò che le particolari caratteristiche del rapporto tra calciatori e società sportiva che li ha ingaggiati e gli ampi poteri dispositivi e di controllo potessero, al più, far considerare atipici i contratti che attengono alla prestazione di attività agonistica, ma non ne snaturano l‟essenza giuridica, che resta quella di un contratto di lavoro, fonte di un diritto di credito ritenuto all‟epoca, tra l‟altro, irrisarcibile.
314
Cass., 21 ottobre 1961, n. 2324, in Foro it., 1961, I, pg. 1608. La Suprema Corte, pronunciandosi in merito ad una controversia tra la società Milan ed un suo calciatore ritenne sussistente il vincolo della subordinazione, individuabile anche «nell‟obbligo di mantenere un contegno disciplinato e una condotta civile e sportiva irreprensibile e regolare», nonché «nel divieto di prendere parte a manifestazioni sportive estranee alla società di appartenenza, anche se tenute nei periodi di riposo o di sospensione dell‟attività agonistica». In tale divieto i giudici individuarono, nel rapporto in questione, una manifestazione dell‟obbligo di fedeltà di cui all‟art. 2105 c.c. Le restrizioni cui lo sportivo poteva essere assoggettato anche nella vita privata, giustificate dall‟esigenza di preservare e conservare la piena efficienza fisica, erano da collegarsi all‟elemento fiduciario proprio del lavoro subordinato. A tali obblighi, peraltro, faceva da riscontro il potere della società di comminare sanzioni disciplinari in caso di inosservanza di essi da parte degli atleti o nell‟ipotesi di illeciti civili o sportivi imputabili al proprio tesserato. Infine, la Suprema Corte precisò come la natura subordinata del lavoro sportivo emergesse anche in virtù degli «accordi tra federazione e associazione dei giocatori alla regolamentazione collettiva», la quale si adeguava, per molti aspetti, ai princìpi fondamentali cui era improntata la disciplina legale del rapporto di lavoro subordinato (si pensi, ad esempio, al diritto ad un periodo annuale di riposo dell‟atleta o all‟obbligo previdenziale a carico delle società sportive). Per un commento alla sentenza in questione, si rinvia a F. PAGLIARA,
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