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I componimenti per musica

1.1 Profilo storico

Prima di procedere ad una trattazione delle ballate sacchettiane è necessario dare conto, seppur brevemente, dell’evoluzione morfologica della ballata in Italia. Costante punto di riferimento è il lavoro di Linda Pagnotta la cui schedatura, compiuta su 962 componimenti che coprono un arco cronologico di un secolo e mezzo (dal quartultimo decennio del Duecento al primo quarto del Quattrocento), è uno strumento imprescindibile.1

La fortuna della ballata nella nostra letteratura è longeva: le prime attestazioni di schemi ballatistici risalgono al 1260 circa, «per tacere», come afferma Capovilla, «sia la presenza anteriore di analoghe forme strofiche fuori d’Italia, sia, di queste, gli

incunaboli, che verosimilmente si postulano radicati nel fondo della poesia medio-latina»,2 mentre le ultime si riscontrano fino al XVII secolo. Il ruolo normativo

dello Stilnovo, e in particolare di Cavalcanti, appare cruciale nel passaggio dalla ballata arcaica alle soluzioni metriche del Trecento. La ballata duecentesca precavalcantiana è caratterizzata da un forte polimorfismo, indice di sperimentazione e assestamento iniziali dei possibili esiti espressivi. Le principali caratteristiche morfologiche di questa prima fase sono ravvisabili:

1) nel marcato pluristrofismo: Pagnotta rileva che circa il 60% degli esemplari raccolti è costituito da ballate di tre-quattro stanze, mentre il 15% da un minimo di cinque a un massimo di dodici;

2) nell’estensione della dimensione strofica, con prevalenza di mutazioni tristiche; 3) nella maggioranza di rime diverse e largo uso di rimalmezzo;

4) nelle stanze eteromorfe: con replicazione della rima della ripresa in sedi diverse da quella finale, rime al mezzo assenti in altre stanze contigue, rime delle mutazioni che si propagano nella volta.

1 Pagnotta 1995;

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La figura di Cavalcanti si pone come spartiacque fondamentale nel percorso di evoluzione della ballata verso il Trecento e per un breve momento tale forma metrica appare potenzialmente alternativa alla canzone. La predilezione dell’autore agisce normativamente sia come filtro delle strutture precedenti, sia come spinta innovatrice di alcune forme destinate a diventare maggioritarie. Il lavorio formale del poeta procede soprattutto nel senso della semplificazione sia delle proporzioni della stanza, sia della variazione rimica. Lo schema prevalentemente utilizzato si articola su mutazioni distiche a rime alternate e volta su tre versi con concatenatio e combinatio finale: /AB, AB; BZZ/. Secondo Pagnotta il modello di partenza andrebbe rintracciato nello schema intermedio /AB, AB; B(b)Z/, utilizzato nella ballata In un boschetto, la cui “formula minore” /AB, AB; BZ/ avrà, poi, pieno sviluppo nella seconda metà del Trecento in oltre duecento casi. La novità di /AB, AB; BZZ/, eleggibile a “formula maggiore”, sta nella combinatio finale della rima. La rapida fortuna di tale schema è testimoniata dalle due ballate dantesche per la pargoletta, I’ mi son pargoletta e Perché ti vedi, e la realizzazione monostrofica di quest’ultima preannuncia la misura canonica del genere nel Trecento. Entrambe le formule verranno ampiamente utilizzate da Sacchetti, come dirò a breve.

Un terzo schema cavalcantiano che è opportuno citare in questa sede è quello costituito da formula /ABC, ABC; CZZ/, espansione di /AB, AB; BZZ/ e vicino alla struttura prevalente della ballata stilnovistica /ABC, ABC; CDDZ/; le mutazioni tristiche a rime replicate saranno utilizzate da Sacchetti, sebbene in modo minoritario, montate in un sistema di riprese e volte semplificato.

All’estremo cronologico opposto dello Stilnovo si colloca l’esperienza di Cino da Pistoia, eterno mediatore fra lo stilnovo fiorentino e il Petrarca. Anche nell’ambito della ballata il suo contributo si rivela importante, ravvisabile nella spiccata propensione al monostrofismo e ad un uso meno contenuto del settenario.

Nel corso del Trecento si assiste ad una generale tendenza all’irrigidimento strofico e i rimatori del secolo «rivelano nel complesso una maggiore inerzia formale rispetto a quelli del secolo precedente».3 Le ballate trecentesche offrono una varietà morfologica nettamente inferiore a quelle del Duecento, soprattutto per il tipo con mutazione distica

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(maggioritario) che a dispetto del tipo con mutazione tristica offre minori possibilità combinatorie per le rime e la volta. Inoltre, dallo studio di Pagnotta:

Da un punto di vista cronologico il tipo con mutazioni tristiche pare concentrato nella prima metà del secolo (arrivando a interessare il 70% della produzione), per poi ridursi, a partire dal quarto-quinto decennio, ad una presenza percentuale del 20% circa. Netta prevalenza di soluzioni con piedi tristici si segnala presso Giovanni Quirini, Guido Novello, Matteo Frescobaldi, Senuccio, fino a Cino Rinuccini e Simone Serdini (attraverso naturalmente Petrarca), mentre il tipo con mutazione di due versi è appannaggio di una rimeria più aperta a soluzioni popolareggianti e ‘giullaresche’ (Antonio da Ferrara, Matteo Griffoni, Vannozzo, Antonio Pucci), o di qualità non propriamente lirica: è il filone ‘borghese’ di un Sacchetti o di un Soldanieri, ossia dei due più prolifici cultori trecenteschi del genere, e in parte quello dei novellieri, Boccaccio, Giovanni Fiorentino, Sercambi.4

La riduzione delle proporzioni strofiche della ballata nei componimenti stilisticamente meno impegnati della produzione porta alla comparsa di ballate piccole e minime, del tutto sconosciute fino ai primi decenni del Trecento e, quindi, vera novità del secolo. La ballata, già connessa nelle sue fasi iniziali ad una enunciazione monodica del testo in simultaneità con un’azione coreografica, registra l’apice della sua fortuna attraverso lo straordinario sviluppo dell’Ars Nova, che influisce sulla prevalenza crescente della tipologia più breve: assumendo la ballata, accanto al madrigale, quale metro idoneo alla complessa costruzione polifonica, ne contiene le dimensioni strofiche al fine di dilatare il dettato musicale. Non a caso la struttura più rappresentativa del corpus trecentesco /ZZ AB, AB; BZ/, simmetrica nelle proporzioni dei vari membri e adattabile all’architettura polifonica, è riccamente attestata nei codici notati o presso autori, come Sacchetti, dall’esperienza poetica fortemente legata a quella musicale.

La pratica ballatistica è, pertanto, tutt’altro che estranea alla cultura poetica dei trecentisti e può costituire talvolta un’esperienza marginale, talaltra una parte integrante della loro formazione. La ragione che Dante avanza per dimostrare l’inferiorità della ballata rispetto alla canzone è la destinazione alla danza, finalità che ne farebbe un testo poetico non autosufficiente. In generale la ballata è un metro strettamente legato alla musica, in un contesto che nello stile elevato tende verso una forte caratterizzazione letteraria piuttosto che musicale ed è per questi motivi che il Canzoniere petrarchesco include soltanto sette ballate, di cui cinque monostrofiche. Tale presenza ridotta nel

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libro dell’aretino, associata alla radicale diminuzione strofica, è decisiva per le sorti della ballata come metro lirico; successivamente, infatti, le sarà riservata una mediocre rappresentanza nelle raccolte poetiche d’imitazione petrarchesca e tollerata in pochi esemplari nei canzonieri illustri, poiché avvertita come marginale alla dialettica di sonetto e canzone (ciò oltre alle «compromissioni popolaresche» intrinseche nel metro).5 Viceversa la ballata gode di credito duraturo presso autori meno esclusivi e un pubblico meno esigente, ad esempio quel “filone borghese” già delineato nell’estratto di Pagnotta; filone al quale si può ricondurre Sacchetti, che ha investito lungo tempo e impegno nella produzione ballatistica, come confermano le numerose presenze nella sua raccolta di rime.