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PARTE I. LA STRUTTURA DEL SISTEMA TRIBUTARIO E DELL’IMPOSIZIONE SUI REDDITI IN PARTICOLARE

5. Progressività e redditi da lavoro

Una volta che ci si interroghi sul regime fiscale da riservare ai soli redditi da lavoro, la domanda è duplice:

a) è giusto che almeno questi redditi siano assoggettati a progressività?

b) oppure anche per questi redditi si dovrebbe passare ad una flat tax?

Le idee manifestate al riguardo sono le più varie, tra chi propone una flat tax – caratterizzata da vantaggi quali la considerazione ai fini fiscali dei redditi della famiglia, il superamento dei problemi di “salto” delle aliquote marginali, la compensabilità di profitti e perdite maturati in diverse categorie (che il regime sostitutivo di fatto impedisce) – accompagnata da una “robusta” deduzione alla base (81); a chi ritiene invece più corretto intervenire sulla curva di progressività, per le cui considerazioni si rinvia supra (par. 2).

Mi pare che possano farsi alcune considerazioni:

- il regime dichiarativo può presentare, rispetto al sistema dell’imposizione sostitutiva, il vantaggio di poter godere del sistema di deduzioni e detrazioni; si tratta di un effetto tutt’altro che trascurabile, sol che si guardi alla distribuzione del prelievo sulle fasce basse già esaminato supra (par. 2);

- i redditi da lavoro godono (sia pur indirettamente) di un’ampia “no tax area”, derivante dall’operare delle detrazioni e del bonus Irpef, posta a ben 12.500 euro e in corrispondenza del reddito medio da lavoro dipendente (circa 21.000 euro);

- le detrazioni e il “bonus” valgono complessivamente circa il 13 per cento del reddito imponibile, riducendo l’aliquota media effettiva all’11 per cento (82);

(80) Audizione del prof. Vincenzo Visco (2021), p. 6, il quale auspica che le famiglie, grazie a questo meccanismo, si assumano maggiori rischi negli investimenti.

(81) Audizione del prof. Dario Stevanato (2021), p. 8.

(82) Sul punto, si rinvia alla esaustiva Audizione dell’UPB (2021), p. 23, laddove si evidenzia che «nel caso del lavoro dipendente, l’operare delle detrazioni e del bonus Irpef fa sì che al disotto dei 12.500 euro non sia dovuta imposta. Tra le 8.150 e i 12.500 euro, poiché il bonus è erogato integralmente anche in assenza di capienza fiscale, i contribuenti beneficiano di un trasferimento che può valere sino al 15 per cento del reddito percepito (aliquota negativa). Per i redditi interiori agli 8.150 euro il bonus non spetta e non è dovuta imposta. In corrispondenza del reddito medio da lavoro dipendente (circa 21.000 euro) le

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- il bonus di 1.200 euro viene erogato ai soli lavoratori dipendenti, ma dipendendo dalle condizioni economiche del percettore e non dalle condizioni economiche della famiglia, viene erogato anche a membri di nuclei familiari con elevate disponibilità economiche (83);

- 13,4 mln di contribuenti su 39,9 mln sono risultati esenti per effetto di deduzioni, detrazioni e del bonus Irpef (84);

- al principio del c.d. “comprehensive taxation” – teso ad assoggettare a tassazione (e a contribuzione previdenziale) l’intero ammontare della ricchezza prodotta dal lavoro – il d.lgs. n. 314/1997, cui risale l’attuale impianto dei redditi di lavoro dipendente, aveva affiancato quello del perseguimento di politiche sociali e anche retributive attraverso la previsione di un selezionato sistema di benefici che non concorrono alla formazione del reddito, animati da finalità sociali, di welfare aziendale ed incentivanti.

Il disegno originario del d.lgs. 314/1997 di contemperare mediante questi benefici le esigenze di gettito con quelle di una equa tassazione del lavoro, è stato profondamente snaturato dalla progressiva riduzione di detti benefici, che ha fatto prevalere le esigenze di gettito. Recentemente, tuttavia, prima con la L.

208/2015, e poi con la Legge di stabilità per il 2017, si è assistito ad un rinnovato interesse per la materia, con particolare riferimento al c.d. welfare aziendale di cui alle lettere f, f-bis, f-ter e f-quater dell’art. 51, co. 2.

Pertanto, la possibilità di ottenere queste “utilità”, senza che esse incidano sulla base imponibile, rappresenta un importante vantaggio per la categoria dei lavoratori dipendenti e sta ricevendo un crescente apprezzamento (anche se non unanime): dai rapporti sul welfare aziendale Censis-Eudaimon, risulta che la maggior parte dei lavoratori è favorevole a trasformare aumenti retributivi in prestazioni di welfare, che oltre la metà dei contratti registrati nel 2019 in via telematica prevedevano misure di welfare aziendale e che nella contrattazione di

detrazioni e il bonus valgono complessivamente circa il 13 per cento del reddito imponibile, riducendo l’aliquota media effettiva all’11 per cento»,

(83) Audizione UPB (2021), p. 49, che propone pertanto una revisione di tale bonus, ricorrendo ad esempio a un credito d’imposta commisurato al reddito da lavoro percepito in modo da incentivare la partecipazione al mercato del lavoro e di favorire anche gli incapienti.

(84) Cfr. Audizione dell’UPB (2021), p. 25.

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secondo livello – anno 2018 – circa il 40% dei contratti prevedevano accordi di welfare (85);

- anche nei sistemi “duali” – cui il sistema attuale si avvicina, sia pure in una accezione più ampia – il reddito di lavoro dipendente è destinatario di un regime di progressività.

Quel che appare, dunque, il maggior vulnus alla disciplina dei redditi di lavoro dipendente è il regime delle detrazioni, perché, così come è strutturato – e si tratta sicuramente di uno dei profili “innovativi” più discutibili della pur rilevante riforma del 1997 – non assolve al compito di tenere conto dei costi di produzione del reddito di lavoro dipendente, che pure dovrebbe essere tassato al netto (86). La concessione di una detrazione per redditi di lavoro dipendente attualmente prevista, realizza infatti, come visto, indirettamente una sorta di “no tax area” per i soli redditi di lavoro dipendente, confondendo tra l’esenzione del minimo vitale e i costi necessari per produrre il reddito da lavoro dipendente. Andrebbe dunque accordata una detrazione o una deduzione di ammontare fisso, senza limite di reddito.

Non meno complessa è la questione dei redditi di lavoro autonomo e dei redditi di impresa individuale, anch’essi attratti al regime della progressività, ma solo ove di ammontare superiore a 65.000 euro.

Rispetto al lavoro autonomo, il “gradino” che si ha alla soglia di 65.000 euro di compensi, tale per cui il superamento anche di un euro fa perdere la possibilità di usufruire del regime forfetario e fa entrare nel regime analitico e progressivo, è quel che lascia più perplessi. Tecnicamente, tuttavia, non si presta ad una facile soluzione, perché, come visto, il regime speciale presenta caratteristiche (deduzioni forfetarie, indetraibilità IVA, ecc.) che non si prestano a gestire il “doppio binario” tra una prima determinazione forfetaria ed una determinazione analitica per l’eccedenza. Al tempo stesso, mentre i redditi netti effettivi dei soggetti in forfettaria sconterebbero, per via delle rilevanti “penalizzazioni” che siffatto regime comporta, una tassazione non necessariamente troppo diversa dai redditi di lavoro dipendente di eguale fascia,

(85) Cfr. il sito web Censis. Sotto questo profilo, non si comprende l’affermazione contenuta nell’audizione del prof. Vincenzo Visco (2021), p. 5, secondo cui si tratterebbe di un’agevolazione soprattutto nell’interesse delle imprese. E ciò è tanto più sorprendente, se si pone mente al fatto che questo sistema ha trovato ingresso nel nostro ordinamento proprio a seguito della c.d. “Riforma Visco”

del 1996.

(86) P. LIBERATI, Note per una revisione del sistema tributario: Irpef, Iva e tributi locali, cit., p. 28.

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altrettanto non accadrebbe per le fasce di reddito più elevate, in cui anche i redditi di lavoro dipendente entrano in fasce di tassazione ben più significative per via dell’incremento della curva delle aliquote marginali.

Quanto poi al reddito di impresa, pressoché tutte le associazioni datoriali hanno chiesto la reintroduzione dell’IRI (87).

Pur trattandosi di un meccanismo sicuramente importante dal punto di vista

“sistematico”, anche se ne è sottolineata la inidoneità ad eliminare qualsivoglia forma di non neutralità (ad es., si pensi al mancato recupero delle imposte assolte all’estero, con conseguente disincentivo alla internazionalizzazione) (88).

Abbiamo tuttavia ormai perso il conto delle volte in cui si è tentato di introdurre questa forma di tassazione “a doppia aliquota” sul reddito prelevato e non prelevato di imprenditori individuali, società di persone e srl a ristretta base proprietaria come alternativa alla c.d. “trasparenza fiscale” (art. 9, L. n. 388/2000; art. 1, commi da 40 a 42, L. n. 244/2007; art. 11 del disegno di legge delega n. 5291 presentato il 15 giugno 2012; art. 1, co. 547, L. n. 232/2016; ecc.), e ciò soprattutto in quanto, sul piano dell’attuazione concreta, si sono registrate questioni di rilevante complessità tecnica, tra cui l’accurato monitoraggio dei flussi reddituali tra impresa e individuo, e, in particolare, della stratificazione dei prelievi.