I bambini pensano che i nomi siano le cose Mariaconcetta Lucchi e Mario Zambotti
REALISMO NOMINALE
Il realismo nominale è una caratteristica del pensiero dei bambini. Esso ri-siede nella convinzione che esista un legame diretto tra i nomi e le cose.1 I no-mi derivano dalle cose stesse per emanazione. Solo verso i sette anni i bambini cominciano a concepire l’attività mentale come fatto interiore, riescono cioè a riconoscere che i nomi sono una convenzione del linguaggio.
Convinti che le cose siano così abbiamo creato le condizioni perché i bam-bini di classe prima discutessero dell’origine dei nomi e della convenzionalità.2
I bambini avevano in altre occasioni dimostrato interesse a questo discor-so; in particolare nel momento in cui il nome di ognuno, scritto su un cartel-lino posto sul banco, era l’elemento convenzionalmente usato per riconoscer-si. Altre riflessioni si erano poi riproposte quando i bambini avevano osserva-to che anche gli oggetti hanno un nome. L’hanno sempre avuosserva-to? Lo si potreb-be cambiare?
Abbiamo utilizzato, per le conversazioni, le domande proposte da B. Benel-li e V. Casati nel loro lavoro Lo sviluppo dei concetti nel bambino, 1989.
Le cose hanno sempre avuto il nome o qualcuno glielo ha dato?
Andrea: L’hanno sempre avuto.
Insegnante: Cosa intendi per sempre?
Andrea: Perché il nome non glielo ha dato una persona. Però qualcuno lo può anche cambiare.
1 Piaget (1971), La rappresentazione del mondo nel fanciullo, Giunti.
2 Già anticamente è stata dibattuta la questione della convenzionalità dei nomi. Nel dialogo platonico “Cratilo”, nella conversazione tra Ermogene e Cratilo, che si svolge in presenza di Socrate, si discute se i nomi siano dati per natura, cioè derivino dalle cose stesse o siano frutto di una convenzione.
Nicola: Le cose…l’abbiamo inventato noi il nome, una volta non c’era per-ché altrimenti non sapevamo come chiamarle, non sapevamo come indicar-le.
Giulia: Il nome non l’avevano, gliel’ ha dato quello che ha costruito le cose che noi abbiamo intorno.
Insegnante: E tu come fai a saperlo?
Giulia: Perché quando hanno costruito i banchi, il legno si chiamava legno e quando l’hanno finito di costruire l’hanno chiamato banco.
Nicola: Gli hanno già dato un nome perché lo scrivevano su un foglio e, se costruiscono qualcosa, prima gli danno un nome, poi lo costruiscono.
Insegnante: Chi dà loro il nome?
Nicola: Quelli che costruiscono le cose.
Stefania: Secondo me alle cose gli hanno già dato un nome perché gliel’ ha dato Gesù quando le ha create.
Insegnante: E tu come lo sai?
Stefania: L’ho pensato.
La casa si potrebbe chiamare telefono? Perché?
Nicola: No, perché la casa quando l’hanno costruita l’hanno voluta chiamare così. Per questo l’hanno costruita, per fare andare dentro la gente, per viver-ci dentro.
Andrea: La casa non si chiama telefono perché quando l’avevano costruita avevano deciso di chiamarla casa, perché altrimenti come facevano a vivere nell’elettricità, che se poi toccavano un filo del telefono prendevano la scos-sa?
Giacomo: Per me la casa non si può chiamare telefono perché se fosse un te-lefono potrebbe suonare, però non si potrebbe suonare con la casa. La casa non è mica un telefono con un tetto.
Nicola: La casa, se l’avessero inventata col nome di telefono si potrebbe chiamare telefono. Telefono è un nome che hanno inventato loro, poteva anche chiamarsi casa e tutti l’avrebbero chiamato così.
Giacomo: Secondo me non potrebbe chiamarsi telefono, perché altrimenti suonerebbe sempre.
Chiara: Secondo me la casa non può essere un telefono, perché altrimenti è un telefono gigantesco.
Marco: La casa non può essere un telefono perché altrimenti farebbe driiiin!
E si dovrebbe rispondere. E per fare i numeri dovrebbero esserci dei bottoni grandi così.
Andrea: Una casa non potrebbe chiamarsi telefono perché allora sarebbe un telefono.
Il telefono potrebbe chiamarsi ticco?
Nicola: Potrebbe, perché se l’avessero chiamato con quel nome si chiame-rebbe ticco e sempre così…mica si chiamechiame-rebbe telefono. Magari neanche esisterebbe il telefono.
Giulia: Per me il telefono non potrebbe essere ticco perché altrimenti non vuol dire niente e allora è come se non lo avessero inventato. È un nome co-sì strano!
Sara: Il nome ticco non è che mi piaccia tanto. Suona il telefono e ti dicono:
Rispondi al ticco! È una cosa che non funziona bene.
Andrea: Bisognerebbe mettersi d’accordo perché se uno ti chiama e usa il telefono e tu rispondi da un ticco, non so se funziona, e se ti chiedono per-ché si chiama ticco, tu dici che non lo sai perper-ché lo hanno sempre chiamato così.
Giacomo: Secondo me il telefono non potrebbe chiamarsi ticco, altrimenti farebbe tic-tac invece del suono del telefono.
Andrea: Il telefono non può chiamarsi ticco perché altrimenti è un puntino e non ha il filo…perché è così piccolo il ticco.
Insegnante: Tu sai cos’è un ticco?
Andrea: No, ma un ticco si potrebbe chiamare punta.
Stefania: Il telefono secondo me si potrebbe chiamare ticco perché per e-sempio io lo chiamo con un altro nome, non telefono.
Insegnante: Come lo chiami?
Stefania: Cipì. E dico alla mamma: Mamma suona il Cipì.
Insegnante: E la mamma ti capisce?
Stefania: Prima non capiva, ma adesso sa che lo voglio chiamare così e allora capisce.
Questi brevi esempi di conversazione dimostrano quanto Piaget e altri stu-diosi hanno evidenziato.
I bambini hanno idee profonde sulla natura del linguaggio.
Certo, hanno molti limiti in questo senso. Però quando si riflette sulla lin-gua questi pensieri ingenui non andrebbero ignorati.
Questi pensieri ingenui permettono ai bambini di costruirsi un’idea del linguaggio più libera e personale.
Guidati dall’insegnante, i bambini hanno così condiviso i pezzi delle loro scoperte, perché scoprire conversando aiuta a lavorare in un contesto di co-munità linguistica.3
È la premessa per intraprendere un percorso in cui ciascuno impara e inse-gna per costruire una conoscenza condivisa.
3 Facciamo riferimento al lavoro di C. Pontecorvo, C. Zucchermaglio, A. Ajello Discu-tendo si impara; Carocci 1991.