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La filosofia di Vico, per ciò che riguarda l’origine e lo sviluppo delle società umane, rimane un unicum storico-filosofico; tanti sono i paradigmi con cui si può mettere a confronto, sia precedenti che successivi, e, benché molte siano le fonti da cui Vico attinge, l’insieme che ne risulta non è mai perfettamente allineato con nessuna di queste.

Lo stato di natura viene principalmente costruito dal filosofo napoletano a partire dal racconto biblico e dal De Rerum Natura di Lucrezio; queste due fonti sono chiaramente molto distanti e il risultato è una condizione dei primi uomini che ricalca quella lucreziana, ma fa i conti con la distinzione tra storia sacra e storia profana, che vede una parte di umanità mantenere la civiltà in base alla conservazione dei dettami biblici e un’altra parte di quella che sprofonda nel baratro della bestialità. Contemporaneamente la concezione stessa di “stato di natura” deriva da un pensiero molto distante sia dalla classicità latina, sia dall’Antico testamento: è con i pensatori di epoca moderna, da Grozio in avanti, che si ipotizza questa fase dello sviluppo dei rapporti umani. Nelle filosofie di questi, si passa da quello alla società civile in modo netto, per lo più attraverso un patto o un contratto: un unico definitivo passo per approdare ad una realtà civile e politica. Non è così per Vico. Tra la vita bestiale nella selva della terra e la fondazione delle nazioni si trova una fase intermedia: i primi uomini ad uscire dalla selva lo fanno perché si immaginano un dio irato con loro e per questo si autoimpongono dei costumi morali, impedendosi da soli di continuare un’esistenza ferina. In seguito a questo, diventano monogami e stanziali, fondando le famiglie; sembra in tutto ciò di ravvisare un’eco di Aristotele e

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della teoria del sinecismo, a cui i filosofi politici del Cinquecento e del Seicento (in particolare Hobbes) si oppongono e con la quale si confrontano nel tentativo di produrre una nuova visione filosofica che sarà poi chiamata “contrattualismo”.

Sempre riguardo a questa fase intermedia, di essa abbiamo appena descritto una parte, ma il quadro è più complesso; coloro che in questo modo fondano e governano le famiglie, non sono ancora, in ottica vichiana, giunti alla società civile: all’interno della singola famiglia il padre è monarca assoluto, mentre tra una famiglia e l’altra, cioè tra un padre e l’altro, vige un patto d’onore, un rapporto disinteressato e neutrale, ma non legato ad un patto o contratto. Tutti coloro che non hanno visto i fulmini e temuto un Giove, sono ancora nella prima fase, quella dello stato di natura: si verifica a questo punto una nuova ondata di giganti che abbandonano la selva; questi chiedono asilo ai padri per salvarsi dai bestioni ancora appartenenti al mondo ferino e offrono in cambio di sottomettersi a loro, servirli e sostituirli nei lavori (principalmente agricoli). Questo è il momento in cui il patto civile, stretto per necessità, come insegnano Grozio, Hobbes e altrio, viene sottoscritto ed è qui che si può iniziare a parlare di società civili. Come succede per tutte le altre fasi, il passaggio non è netto: intatti, secondo Vico, occorre ancora un passo perché si possa avviare quella “evoluzione” (che è, ancora una volta, un processo graduale) delle forme di governo che caratterizzano le nazioni: quando i padri di famiglia muoiono, i loro figli diventano a loro volta sovrani assoluti dei parenti, mentre i famoli, cioè coloro che si sono sottomessi in

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cambio di asilo e protezione, si rendono conto che, pur avendo sopportato lo stesso regime autoritario dei nuovi padri di famiglia (quando questi erano ancora figli sottomessi), non hanno però la prospettiva di raggiungere un grado più elevato nella gerarchia familiare, avendo scelto di rimanere la classe subalterna. A questo punto, non potendo più sopportare la condizione di servitù, scelgono la via della rivolta. La reazione dei loro padroni è immediata: nasce un’alleanza di padri di famiglia che nominano un capo scelto tra loro e lo affiancano con un’assemblea composta da tutti gli altri, in modo da non rinunciare veramente al loro potere, per muovere guerra ai rivoltosi. Nei casi in cui questi non vengono messi in fuga, ci si rende conto che è meglio concedere loro qualche beneficio pur di ottenere di nuovo delle persone che svolgano i lavori che tengono in piedi la società: poiché principalmente si tratta di lavori agricoli, si parla della promulgazione di una legge agraria, con l’intento di migliorare le condizioni della classe servile. Dopo questa prima concessione, Vico ritiene che l’evoluzione degli stati proceda per successive e sempre maggiori migliorie fatte dalla classe alta alla classe bassa per mantenerla sempre sottomessa, in quanto le è utile.

Come si può notare anche qui, la teoria vichiana va molto oltre le fonti, spesso antitetiche (mondo biblico-mondo pagano, aristotelismo- contrattualismo) da cui attinge idee e informazioni, e mescolandole crea un quadro che è più che la mera somma degli autori a cui si riferisce: è un insieme di essi ampliato e sfaccettato, anche per via della prospettiva

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teorica, quella ampia della Scienza nuova, in cui il percorso dell’umanità viene inserito.

L’unicità di questa visione è data anche dall’evoluzione successiva a Vico che l’approccio filosofico alla storia conosce; il filosofo napoletano muore nel 1744 e di quell’anno è l’ultima edizione della Scienza nuova; nel 1750, il filosofo francese Anne Robert Jacques Turgot parla per primo di “storia universale”: con questo nuovo concetto, assente in Vico (in quanto egli era convinto che ogni nazione percorresse una strada a sé), si inaugura quel filone definito “filosofia classica della storia” il cui obiettivo è appunto cercare ed evidenziare un percorso unitario dell’umanità: l’ottica della

Scienza nuova descrive nazioni che crescono attraversando tutte gli stessi

passi, ma una in modo indipendente dall’altra, mentre l’opinione di Turgot era che l’umanità, attraverso il percorso storico accumula un tesoro comune, che consiste nella cultura e nelle conoscenze di tutti i popoli. Non è possibile conciliare questa visione con quella secondo cui il mondo conobbe “cinquanta Giovi e cinquanta Ercoli”, secondo cui cioè ogni nazione produce, in tempi diversi rispetto alle altre, la stessa cultura, seppur in termini non identici: non c’è così alcun vantaggio a cercare una prospettiva storica universale perché nessuna cultura porta niente di nuovo alle altre. La riflessione vichiana sulla storia umana rimane così, come si è detto, unica nel suo genere, ma in continuo rapporto sia con la storia della filosofia precedente, sia con quella successiva.

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