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3.2 La politica commerciale

3.2.1 Protezionismo commerciale

Negli Stati Uniti una politica commerciale protezionistica generalmente prendeva forma a partire dalla pressione esercitata da una industria nazionale in difficoltà sul Congresso attraverso una petizione. Il Congresso votava la legge riguardante la protezione ma il Presidente poteva comunque porre il proprio veto. In questo quadro l’International Trade Commission era l’agenzia federale indipendente con l’incarico di reperire le informazioni necessarie al Congresso, al Presidente e al Dipartimento del Commercio alla definizione della politica commerciale. Gli interventi in questo ambito dovevano in ogni caso rispettare le

51Richman Sheldon (1988), ad esempio intitolò un articolo sulla politica commerciale di Reagan

“The Reagan Record on Trade: Rhetoric vs. Reality”. In un articolo pubblicato pochi mesi dopo, William Niskanen, membro del Council of Economic Advisor durante il primo mandato della presidenza Reagan, non lanciava un messaggio differente: “U.S. trade policy turned sharply

protectionist during the Reagan years. Moreover, all of the new trade restraints imposed were initiated or approved by the administration, despite a general endorsement of free trade in its public rhetoric.” (Niskanen W., 1988). Altri autori ancora scrivono: “On the basis of its “Statement on U.S. Trade Policy,” one would have expected the administration to follow a very tough stance against import protection. However, on the surface at least, the administration’s actual performance in granting import relief does not seem to differ significantly from the varied record of other recent administrations.” (Baldwin R., Richardson D., 1987, p. 136).

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più ampie regole internazionali del General Agreement on Tariffs and Trade (GATT).

Gli strumenti più “tradizionali” della politica commerciale americana, il cui utilizzo generalmente non sollevava particolari critiche, erano quelli che trovavano una ragione d’essere in pratiche commerciali dei paesi esteri considerate in qualche modo sleali. Si trattava in particolare di interventi

antidumping52, oppure di applicazione di countervailing duty53.

Negli Stati Uniti esistevano tuttavia anche altri “rimedi” di politica commerciale consentiti dalla legge, i quali non trovavano alcuna giustificazione nelle pratiche dei governi delle economie concorrenti. Questi interventi erano semplicemente finalizzati a proteggere temporaneamente particolari industrie americane quando la pressione competitiva straniera fosse stata troppo elevata. A questo riguardo la “Section 201” del Trade Act del 1974 stabiliva le procedure e le condizioni per cui era possibile provvedere alla temporanea protezione per le industrie che risentivano maggiormente delle importazioni dall’estero. Poiché l’applicazione di tale provvedimento non richiedeva alcuna dimostrazione del fatto che i paesi esteri avessero agito in modo “sleale”, questo statuto era anche detto “escape clause”.

In questo ambito l’International Trade Commission aveva concretamente il compito di accertare l’esistenza delle condizioni di applicabilità dell’istituto ed eventualmente raccomandare al Presidente gli appropriati rimedi per promuovere all’aggiustamento dell’industria nazionale. Il Presidente successivamente considerava se la proposta fosse nell’interesse nazionale – valutando ad esempio gli effetti della politica sui consumatori, sulle altre industrie e sulle esportazioni – e decideva l’eventuale ammontare e il metodo della protezione. La protezione non poteva in ogni caso da statuto essere garantita per un periodo superiore ad otto anni.

52 Questi interventi erano implementati nei casi in cui il prezzo di un bene importato negli Stati

Uniti fosse stato inferiore al suo costo di produzione. Il governo americano agiva in questi casi sostanzialmente colmando questa differenza – il dumping – attraverso l’imposizione di un dazio sul prodotto importato.

53 In questi casi, in modo analogo agli interventi antidumping, il governo applicava un dazio sui

prodotti importati che erano stati sussidiati dai governi esteri, al fine di “compensare” il sussidio.

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Gli interventi che rientravano nel quadro normativo della Section 201, in misura maggiore rispetto alla politica commerciale implementata unicamente in risposta a pratiche sleali delle economie concorrenti, avevano a tutti gli effetti la valenza di una attiva politica industriale. Di questa natura apparvero i numerosi interventi implementati dall’amministrazione Reagan in risposta alle problematiche dell’industria americana degli anni ’80.

Nel settore automotive, l’amministrazione Reagan all’inizio del proprio mandato esercitò pressioni al governo giapponese per applicare una “voluntary

export restraint” al fine di ridurre l’esportazione di auto dal Giappone agli Stati

Uniti: nel marzo del 1982 l’accordo limitava l’esportazione a 1.68 milioni di auto, nel corso degli anni successivi il limite si spostò progressivamente verso l’alto ma rimase presente fino al 1985 con 2.3 milioni di auto esportate (Niskanen W., 1988; Richman S., 1988; Bingham R. D., Sharpe M.E., 1998). Nel settore tessile e dell’abbigliamento nel 1981 Reagan rinnovò il MultiFiber

Agreement, un sistema complesso di quote sulle esportazioni fissato dai paesi

industrializzati al fine di regolare l’importazione di un maggiore numero di prodotti e modificare le regole sulle esportazioni nei paesi di origine (Niskanen W., 1988).

Nel 1982 l’Amministrazione concordò inoltre una “voluntary export restraint” sull’acciaio proveniente dalle imprese europee come penalità antidumping. Tuttavia l’accordo fissava un limite generale delle esportazioni di acciaio dall’Europa entro il 5.5% del mercato americano, a prescindere dall’ammontare del sussidio che i prodotti europei avevano ricevuto. Un limite simile fu fissato anche sull’importazione di tubature. Nel 1984 si avviarono le trattative per concordare delle restrizioni sulle esportazioni con tutti i paesi maggiori produttori di acciaio e dal 1984 al 1986 le importazioni diminuirono dal 26.4% al 23% del mercato statunitense (Niskanen W., 1988). A questo riguardo nell’ERP del 1986 si legge: “Several bilateral export restraint agreements were

negotiated with foreign steel producing countries in 1985 as part of the President’s steel plan. An earlier agreement with the European Community (EC) covering finished steel was renegotiated, but the United States unilaterally

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imposed import quotas on semifinished steel from the EC. These steps were the latest in a series of trade actions involving the steel industry.” (ERP, 1986, p.

114).

Infine, nel 1986 nel settore dei semiconduttori il governo americano esercitò pressioni sul Giappone affinché fosse stabilito un prezzo di mercato “leale” (determinato dal Dipartimento del Commercio americano) sui chip di memoria utilizzati nella produzione di computer. Il Giappone avrebbe inoltre dovuto fissare un prezzo simile a quello concordato con gli Stati Uniti, anche sui mercati dei paesi terzi e incrementare le vendite di chip americani sul proprio mercato. Il Giappone rispettò il primo punto dell’accordo alzando il prezzo al livello stabilito, ma fu accusato dal governo americano di non aver applicato tale prezzo anche ai paesi terzi e di non aver incrementato le vendite di chip americani sul mercato giapponese. Gli Stati Uniti risposero a queste deviazioni imponendo una tariffa del 100% su un valore di 300 milioni di dollari di altre importazioni giapponesi (Niskanen W., 1988; Richman S. L., 1988).