In questo primo capitolo si è voluto mettere a confronto lo Smith filosofo moralista con lo Smith economista, cercando di capire se le due figure fossero poi così distanti l’una dall’altra come spesso sono state considerate. Nei precedenti paragrafi sono stati messi in luce gli elementi che fanno di Smith un pensatore coerente, ma per capire ancora meglio il passaggio che avviene dalla Teoria dei sentimenti morali alla
Ricchezza delle nazioni, risulterà utile definire meglio la figura del prudent man e la
categoria di appropriatezza.
Smith si presenta sicuramente per certi aspetti un pensatore controverso, rappresenta la fine di un’epoca e allo stesso tempo, essendo il fondatore dell’economia politica, l’inizio di un’altra; in lui non si avvertono particolari polarizzazioni verso una qualche fazione ed è per questo che nonostante la sua formazione appartenga al filone del moral sense scozzese si possono ravvisare nel suo pensiero elementi presenti nella tradizione opposta, quella fondata sull’esclusività dell’interesse egoistico portata avanti da Hobbes e Mandeville. Smith in un certo senso sta nel mezzo tra questi due approcci ed in questo modo supera entrambe le correnti di pensiero così eccessivamente cristallizzate sui propri punti di vista da risultare riduttive. Il pensatore scozzese riconosce all’uomo una duplice natura che comprende sia l’egoismo che la benevolenza e le articola in entrambe le sue opere senza mai perdere la cognizione di ciò. Una massima del filosofo e sociologo norvegese Jon Elster sulle strategie che si adottano durante i processi deliberativi aiuta a far luce sulla natura dell’uomo come lo stesso Smith la intendeva: <<Non c’è motivo di cercare di convincere gli altri dell’imparzialità
se si crede che ognuno sia mosso sempre dall’interesse egoistico>>59. Se nell’uomo ci fosse solo la spinta dell’interesse egoistico come si potrebbe, per esempio, usare l’inganno per far credere che il proprio self interest sia in realtà un interesse sociale? La finzione che è presente nell’atto di ingannare non presuppone la necessità che esista una realtà che possa renderla credibile? Per Smith è così, l’uomo è duplice ed ha in sé sia l’impulso egoista che l’attitudine sociale, ma nel leggere le sue opere molti autori si sono schierati da una o dall’altra parte del pensiero dell’autore creando una sorta di dicotomia tra l’opera morale e quella economica e dando vita al cosiddetto Adam Smith
problem.
Sicuramente questo problema non è risolvibile richiamando tout court la figura del prudent man come punto di congiunzione dell’interesse personale e della simpatia, come spesso è avvenuto dando alla sfera della prudenza una maggiore ampiezza rispetto a quella che lo stesso Smith le aveva concesso. Per il filosofo scozzese la prudence, come ci ricorda Raffaelli nella sua introduzione alla Richezza delle nazioni, <<è virtù rivolta a sé stessi e come tale non ha nulla del processo messo in moto dal meccanismo di simpatia che porta ad interessarsi degli altri>>60. Ulteriori conferme di ciò vengono anche dal fatto che Smith non considera la parsimonia e l’oculatezza come mezzi capaci di frenare l’individuale desiderio di ricchezza con lo scopo ultimo di lasciare anche agli altri una fetta di essa della quale beneficiare, ma vede in questa qualità propria del
prudent man, più uno strumento che permette di rinunciare all’immediato godimento
per un più lungimirante e duraturo desiderio di innalzare la propria condizione. Smith non vede nulla di male in questo atteggiamento anzi considera la ricchezza e il successo come giuste ricompense di tale comportamento:
59 J. Elster, Arguing an Bargaining in Two Constituent Assemblies, trad. It. di Gianni Rigamonti, Bruno
Mondadori, 2005, p. 131.
Qual’è il premio più appropriato per incoraggiare l’industriosità, la prudenza, la circospezione? Il successo in ogni tipo di affari. Ed è possibile che in tutta la vita queste virtù falliscano l’obbiettivo di raggiungerlo? La ricchezza e gli onori esteriori sono la loro ricompensa appropriata, che esse raramente mancano di ottenere.61
Non è in questi termini dunque che si può mettere da parte l’Adam Smith problem e passare oltre.
Un altro approccio che ha tentato di archiviare con esito positivo il problema è stato quello basato sull’autocontrollo e la simpatia come due forze che si bilanciano vicendevolmente, facendo sì che quando è maggiore l’uso del primo sarà minore quello della seconda e viceversa. È così, infatti, che in un ambiente più favorevole, dove la simpatia ha gioco facile abbiamo poco bisogno dell’autocontrollo per moderare le nostre passioni egoistiche e renderci “accettabili” agli occhi di un qualche agglomerato sociale. Mentre nel caso in cui ci trovassimo in un contesto a noi maggiormente ostile un esercizio più intenso dell’autocontrollo sui nostri interessi egoistici, ci permetterà con successo di ottenere la simpatia e l’approvazione da parte del gruppo sociale in cui ci muoviamo. In questa visione in cui l’autocontrollo ha, evidentemente, un ruolo cruciale, dove vi sono già le condizioni per le quali si possa sviluppare l’elemento della
simpathy, la sua forza è minore. Dove queste condizioni non ci sono la sua forza è
maggiore e la sua azione porta a far sì che la simpatia stessa diventi possibile. Il nucleo di questa ipotesi vede al centro di entrambe le principali opere smithiane l’approvazione sociale, sullo sfondo di ogni movente umano starebbe l’essere riconosciuti socialmente
e le spinte egoistiche e benevole (o sociali) presenti anche nell’uomo economico e che nell’uomo morale sarebbero, appunto, regolate da quel meccanismo di bilanciamento tra simpatia ed autocontrollo che ho sopra descritto. Anche in questa soluzione però c’è qualche elemento che stona nell’economia generale della teoria. In particolare risulta poco credibile l’importanza del ruolo che Smith affida all’autocontrollo, visto che sottolinea spesso come nella società civile e commerciale del suo tempo la simpathy sia molto diffusa e rivesta gran parte delle relazioni sociali quotidiane.62 All’autocontrollo spetta dunque un ruolo marginale soprattutto per gli argomenti trattati nella Ricchezza
delle nazioni, nella quale la società commerciale è il centro della discussione. Il potere
dell’autocontrollo servirebbe dunque, in realtà, soltanto ad impedire che l’interesse personale sfoci in egoismo deliberato: possiamo con questo risultato individuare nell’agire dell’autocontrollo un importante ruolo sociale, quello che Elster ha definito in altri contesti e con altri scopi la <<forza civilizzatrice dell’ipocrisia>>63, frase che riletta in chiave smithiana non perde di significato, anzi ne acquista un altro strettamente connesso al desiderio di approvazione sociale sopra citato per il quale l’uomo per natura è disposto anche a rinunciare o a rivedere i propri desideri ed interessi egoistici.
L’autocontrollo, però, benché nel pensiero di Smith abbia un ruolo rilevante non può essere quel medium di cui l’Adam Smith problem ha bisogno per essere risolto, perché non è ravvisabile negli scritti del filosofo scozzese alcun riferimento all’autocontrollo come agente moderatore, nella società del suo tempo, del desiderio di ricchezza che, come abbiamo visto precedentemente, egli considera in un certo senso positivo e la giusta ricompensa di un atteggiamento prudente.
62 Come ho sottolineato nel primo paragrafo a fine XVII e nel XVIII secolo si verifica in Europa un
ingentilimento dei costumi ed in particolare un innalzamento di sensibilità nei confronti dei sentimenti altrui ed un aumento dei fenomeni di empatia e di immedesimazione.
Una soluzione importante a questo problema che stiamo trattando è offerta da Zanini che ripristina il valore del prudent man, al quale affianca il ruolo dell’appropriatezza (propriety) cardine della Theory. L’“appropriatezza” è quel principio tramite il quale lo spettatore imparziale formula un giudizio sulla giustizia o meno di un’azione; in questo modo sarà considerato giusto qualsiasi comportamento che lo spettatore considera idoneo in una data circostanza, indipendentemente dal fatto che tale comportamento derivi da un’iniziale intenzione benevola od egoistica. Smith nella Theory mette spesso in luce come non sia in gioco una battaglia tra egoismo e benevolenza: la questione è spostata su un altro piano, non ha importanza se un atto generoso nasca dal grembo della virtù o da quello dell’amor proprio (e questa origine è difficile da capire per il soggetto agente stesso) per essere degno di approvazione, l’importante è, invece, che, affinché un’azione venga considerata degna di essere approvata questa passi attraverso lo sguardo di quell’io medio sociale che Smith chiama spettatore imparziale. Questo spettatore che ci permette di dare giudizi di valore fa sì che, grazie alla sua medietà, non sia possibile spostarci né troppo verso la direzione dell’egoismo né troppo verso quella dell’altruismo. Il criterio di appropriatezza per Smith è differente da quello di “utilità”, termine con il quale è stata spesso confusa la
propriety smithiana. Infatti, sostiene il filosofo scozzese, noi non giudichiamo quasi mai
un comportamento come giusto o appropriato a partire dal grado di utilità che gli appartiene, elemento che può essere preso in considerazione solo secondariamente. È qui che entra in gioco il ruolo del prudent man, una figura che mette in risalto la virtù della medietà e che agisce dunque tenendo sempre conto del criterio di appropriatezza. L’uomo che segue esclusivamente l’utile può, in un certo senso, vivere soltanto di sé e fare a meno degli altri in quanto tali, ma sfruttandoli solo a suo vantaggio; l’uomo
prudente smithiano rimane invece per forza di cose ancorato ad un criterio medio, a delle leggi generali che non possono nascere che dal sociale convivere. Quella di Zanini è una soluzione all’Adam Smith Problem che, a mio parere, si rivela netta e risolutiva o quantomeno coerente e lineare. Partendo dall’opera cronologicamente precedente, la
Theory, si è arrivati al nucleo della Ricchezza delle nazioni senza perdere la strada o
svoltare in senso radicale. L’agire del prudent man che non prevede mai il ricorso ad una sfera individualistica della morale, fa sì che nel percorso smithiano non ci siano brusche revisioni, ma un procedere conforme tra le sue due opere principali. In questo senso, questa specie di character (prudent man) creato da Smith acquista nell’economia del pensiero del filosofo tutto un altro significato: esso rappresenta la figura di congiunzione tra la sfera etica e la sfera economica, fra l’interesse individuale e quello collettivo, in quanto l’azione della cosiddetta invisible hand, che tanto celebre è rimasta, è agevolata proprio dall’atteggiamento di questa figura di mezzo e dalla sua applicazione del criterio di appropriatezza, che fa sì che dal self-interest si arrivi ad un (medio) beneficio sociale. In conclusione di questo capitolo si può affermare, quindi, che la lettura esclusiva della Ricchezza delle nazioni non può portare in sé a delineare gli aspetti chiave del pensiero di Smith; essa può essere utile al fine di comprendere importanti nozioni di economia politica, ma per andare oltre e ricostruire l’intera architettura del pensiero smithiano è necessario affiancarle la lettura della Theory, opera in cui Adam Smith esprime compiutamente la sua antropologia.
CAPITOLO 2