musulmano. Esso non fa parte della tradizione Kalasha, ma è stato introdotto nel 1973 nel quadro della nuova legislazione sulle minoranze, come titolo onorifico per alcuni anziani più competenti sul dastur, ai quali fu attribuita una pensione. Esso non comporta specifiche funzioni politiche o rituali. Tradizionalmente i Kalasha non hanno alcuna figura paragonabile a un sacerdote e tutti i riti possono essere officiati da chiunque, purché risponda, ove richiesto, ai necessari requisiti di purezza. Questa generalizzazione delle facoltà rituali è un altro tratto che li distingue nettamente dalla tradizione bramanica.
certamente di ordine deontologico, ci parla di ciò che i Kalasha dovrebbero essere, più che di ciò che effettivamente sono. Ma proprio in questo sta il suo valore antropologico: Palleawan ci descrive un‘etica, ossia un sistema di valori. Come dice Dumont (2000: 123), ―se riflettesse completamente e soltanto il dato, il sistema delle idee e dei valori non sarebbe più capace di orientare l‘azione, smetterebbe di essere se stesso‖. Fino a che punto dunque questa etica sia rispettata nel presente è un‘interessante questione che esula tuttavia completamente dal nostro discorso.
Quando facciamo celebrazioni, abbiamo bisogno di molto formaggio, lo dovessimo comprare costerebbe un sacco di soldi. Noi Kalasha abbiamo grande unità. I Patua [etnonimo Kalashamund per i Kho] non sono così. I nostri lignaggi si aiutano sempre l‘un l‘altro. Noi ci diamo l‘un l‘altro. Sempre quando c‘è una celebrazione qualcuno dà
prachona e dà formaggio. A noi Kalasha piacciono molto le capre. Nella nostra cultura
Kalasha condividere è molto importante. Noi ci diamo l‘un l‘altro. Spesso ci aiutiamo l‘un l‘altro gratuitamente, senza soldi. Io aiuto lui, lui aiuta me e quell‘altro. I Kalasha condividono le cose. Ai Patua non piaciamo: ―I Kalasha sono idioti. Dovrebbero scomparire!‖. Ai Patua interessa soprattutto avere un sacco di soldi. Noi non corriamo dietro ai soldi. Il nostro dastur è diverso. Noi cerchiamo l‘onore (izat). Noi ci aiutiamo l‘un l‘altro. Tutti noi Kalasha siamo d‘accordo che fra tutte le cose lo izat è quella che ci piace di più. Possiamo ottenere izat dalle nostre capre. Lo possiamo ricavare dai nostri cereali. Possiamo ottenerlo dando aiuto agli altri, o dando per le celebrazioni. Qui gli anziani conoscono tutte le specie di lavoro. Noi educhiamo i nostri nipoti e dividiamo il lavoro fra loro. Qui i nostri onorati anziani ci possono insegnare tutto, il dastur e i costumi che ci sono stati dati dai dehar [sciamani].
Palleawan non si imbarca certo in un‘analisi strutturale del suo
dastur. Ma coglie l‘essenza che sottostà a quel sistema simbolico. Nello
studio sopra ricordato, Parkes metteva in luce una serie di sorprendenti analogie di questo sistema simbolico con quelli di altre culture assai lontane nello spazio e anche nel tempo, come quelle dei baschi, dei greci Sarakatsani o dei catari della Francia medievale: cosa che lo induceva a concludere che, attraverso una serie di permutazioni spiegabili in termini ambientali, si può discernere un sistema di ―valori pastorali‖ radicato in ―cosmologie strutturalmente identiche‖ fra i montanari dell‘Eurasia, dai
Pirenei fino allo Himalaya occidentale. In tempi più recenti, tuttavia, lo stesso Parkes (1994: 159-60; 1997: 53-54) suggeriva che la particolare insistenza dei Kalasha sulla dimensione della purezza vada ricondotta (insieme al loro esasperato egualitarismo) principalmente alla condizione di enclave subordinata e oppressa in cui erano caduti con la sottomissione al principato di Chitral. Ora, è possibile, come abbiamo accennato, che questa situazione abbia accentuato certi caratteri della cultura, spingendo i Kalasha ad enfatizzarli più di quanto non facessero i loro vicini Nuristani, che coltivavano certamente con più entusiasmo le virtù guerriere. Ma ciò non vuol dire che il sistema di valori sottostante a queste variazioni locali non fosse essenzialmente lo stesso. Senza volerci spingere fino ai Pirenei, ci sembra abbastanza evidente che tutte le culture a sistema acefalo del Peristan preislamico a noi conosciute condividessero gli elementi strutturali essenziali di questa architettura concettuale (cf. in particolare Jettmar 1975: 215ss).
Per rifarci ancora una volta alle categorizzazioni di Buttitta, si può ritenere che questa architettura simbolica comune almeno a molta parte del Peristan preislamico, si collochi al livello di ciò che egli chiama la Norma, in cui ―lo Schema viene articolato in sostanze espressive e di contenuto profonde, storicamente determinate‖, mentre le molteplici varianti locali, in cui il sistema si proietta in forme differenziate sul piano dei riti, del costume, delle costruzioni mitologiche o dei nomi degli dei, si collocano al livello ―dell‘Uso comunitario, in cui tutto questo viene a esplicitarsi nella prassi in rapporto a contesti più articolati rispetto a ciascuna società‖ (Buttitta 1996: 25).
La conclusione che ci interessa trarre a questo punto è che il sistema di valori che abbiamo delineato risulta scarsamente compatibile con un apparato politico a modello paterno, che fonda la sua costruzione dell‘universo sociale sull‘appropriazione più che sulla condivisione, sull‘assoggettamento della natura all‘uomo piuttosto che dell‘uomo alla natura, sulla gerarchia e la sottomissione, piuttosto che sull‘omogeneità sociale e l‘uguaglianza. La cosmologia Kalasha, al contrario, trasuda da tutti i pori la sua compenetrazione col modello dei fratelli.
Proprio per questo è interessante confrontarla con un‘architettura analoga, ad essa evidentemente imparentata, che è invece strettamente associata al modello del padre: il sistema delle caste indiane nell‘interpretazione che ne dà Louis Dumont. Anche il sistema delle caste, osserva quest‘autore, si presenta in forme concrete, empiricamente osservabili, che variano da luogo a luogo e da contesto a contesto. Ma:
In effetti questi insiemi concreti, che si suppongono isolati, sono simili, riposano su principi comuni. In questo senso si può parlare del sistema delle caste come di una istituzione panindiana. A questo livello, il sistema delle caste è innanzitutto un sistema di idee e di valori, un sistema formale, comprensibile, razionale, un sistema nel senso intellettuale del termine […] Il nostro compito consiste nell‘afferrare il senso di questo sistema intellettuale, di questa ideologia (Dumont 2004: 129).
Ciò che Dumont sta dicendo è appunto che le varianti osservabili si collocano solo al livello dell‘Uso, al di là del quale occorre decifrare ciò che si colloca al livello della Norma, ossia il sistema sottostante di ―principi comuni‖. Ora, si dà il caso che una componente essenziale di questi principi sia comune anche al sistema Kalasha, rivelando a un tempo la divergenza fra i due sistemi e la loro probabile ascendenza comune. Rifacendosi a Bouglé, Dumont argomenta che l‘essenza del sistema delle caste sta nel suo articolarsi in gruppi connessi fra loro in tre modi: 1) da
una gradazione di gerarchia, 2) da regole di separazione; 3) da una divisione del lavoro.
I tre ―principi‖ si basano su un concetto fondamentale, si riconducono a un solo e fondamentale principio: la contrapposizione fra puro e impuro. Questa contrapposizione sottende la gerarchia, che è superiorità del puro sull‘impuro, sottende la separazione, perché bisogna tenere separato il puro dall‘impuro, sottende la divisione del lavoro perché le occupazioni pure o impure devono essere ugualmente tenute separate (ivi: 130).
In maniera omologa e opposta, il sistema Kalasha fonda con gli stessi strumenti non la distinzione fra le caste, ma quella fra i generi. La contrapposizione fra puro e impuro istituisce fra i generi una relazione di gerarchia rituale, sovraordinando nella sfera simbolica il maschile al femminile; istituisce regole di separazione, con la segregazione delle donne al bashali, con quella degli uomini agli ovili ove le donne non devono accedere, con la separazione rituale e il divieto di contatto fra i sessi nella fase culminante della festa del solstizio d‘inverno; e fonda la divisione del lavoro fra i generi sul diverso grado di purezza delle rispettive occupazioni. L‘operazione è omologa e opposta a quella indiana poiché asservire questa dicotomia della sfera simbolica esclusivamente alla distinzione fra i generi significa proclamare l‘equivalenza dei membri di ciascuno di essi, escludendo quel principio di gerarchizzazione dell‘universo sociale che Dumont giustamente ritiene la quintessenza stessa del sistema delle caste.
Non meno significativo è il fatto che Dumont individui il nucleo centrale delle prescrizioni relative alla purezza in quella che egli chiama l‘impurità personale o familiare, legata agli ―aspetti organici della vita umana‖ (ivi: 146), la morte, la nascita e le mestruazioni in particolare: ossia proprio ciò che soprattutto accomuna il sistema Kalasha a quello brahmanico. Fra i Kalasha, la donna è segregata in occasione delle mestruazioni e del parto; come in India, i parenti del morto (ivi: 139) sono colpiti da impurità temporanea e non possono radersi nel periodo del
lutto; i bambini escono definitivamente dallo stato d‘impurità legato al nascere solo con la cerimonia d‘iniziazione (ivi: 140); la donna beve l‘acqua dal recipiente che l‘uomo porta alle labbra solo versandosela nel cavo della mano, come un intoccabile che riceva l‘acqua da un bramino (ivi: 266); e ancora, è impuro il ferro, mentre è puro l‘oro; sono impure le unghie e i capelli tagliati; ci si purifica col lavacro rituale. Naturalmente vi sono una quantità di differenze, anche significative: basti dire per esempio che il sistema Kalasha non conosce la purezza della vacca, mentre quello bramanico ignora la purificazione col fumo. Ma è difficile negare che esista un nucleo di simboli comune, che è stato messo al servizio di funzioni diverse nei due casi. Dumont coglie un aspetto rivelatore di questa diversità quando osserva che mentre in India si attribuiscono le mansioni funerarie a caste di specialisti colpiti da impurità, ―altrove ci si libera dal rischio della situazione facendo ricorso alla complementarietà, per definizione istantanea e reciproca: io seppellisco i tuoi morti, tu seppellisci i miei‖ (ivi: 137). Questo, come avremo modo di vedere, è proprio ciò che accade fra i Kalasha, cosa che si può prendere a emblema della loro differenza: mentre l‘India fa dell‘impurità l‘occasione per istituire una subordinazione sociologica, la logica Kalasha ne fa un‘occasione di compartecipazione e cooperazione fra uguali.
E‘ evidente che la differenza ha a che fare col potere. Nell‘istituire una gerarchia di ordine rituale e simbolico distinta e parallela a quella di ordine economico-politico, la logica bramanica presuppone l‘esistenza della subordinazione e del potere, si lega cioè indissolubilmente al modello paterno in quanto tale, come Hocart aveva ben visto molti decenni or sono (cf. Quigley 1995: 3, 114-22). Nei confronti di questo potere il
bramano accampa un credito fondato su quell‘ordine simbolico. Quando, in un famoso, cruciale passaggio, il Manavadharmashastra (Doniger 1996: 98 – I, 87-91) attribuisce ai quattro varna i loro compiti, a tutti fa carico di donare ai bramini, mentre solo ai bramini spetta ricevere (cf. Quigley 1995: 6; Dumont 2004: 163-64). ―Gli astuti bramani hanno, infatti, incaricato gli dei e i mani di ricambiare i doni da loro ricevuti‖, osservava Mauss (1965: 255n; cf. anche 252-53, 260-61). L‘ideologia bramanica non fa che fondare un sistema di redistribuzione a doppia cerchia in cui potere e sacerdozio si alleano nel garantire un ordine gerarchico86. Nelle parole di Dumont (ivi: 340), ―la storia dell‘India si basa sull‘accordo tacito, sulla complicità, della forza […] e dei sacerdoti‖. Siamo al di là dell‘inversione del debito. Il modello paterno è il cardine su cui si impernia il sistema: non c‘è da stupirsi se è proprio con il prevalere del bramanesimo post-vedico che quel modello prevale e s‘impone come unico possibile nella storia del subcontinente (cf. Quigley 1995: 147).
Abbiamo già osservato come Mauss si sia lasciato sfuggire, nel
Saggio sul dono, la divergenza strutturale fra l‘ideologia brahmanica e
l‘ideologia del rinunciante, una divergenza che avrebbe spiegato molti aspetti che gli parvero contraddittori e ―perfino comici‖ (Mauss 1965: 260) nei testi che analizzava. Non gli sfuggirono tuttavia le evidenti tracce, nel ―diritto indiano classico‖, di un sottofondo di tipo tribale che egli
86 Rielaborando un modello di Gellner, Quigley (1995: 152) fornisce un‘immagine
grafica molto calzante di questo tipo di meccanismo, in cui la cerchia ristretta incentrata sul monarca include i bramini e gli altri membri dell‘élite, escludendo ―le comunità di produttori agricoli‖ che ne garantiscono il sostentamento. Riteniamo meno illuminanti le successive elaborazioni delle Figg. 6, 7 e 8 che, a differenza dell‘altra, non rappresentano comunque cerchi di appartenenza nel senso che definiamo più oltre nel prossimo capitolo.
attribuisce da una parte all‘India pre-indoeuropea, dall‘altra ―all‘economia e alla morale degli antichi pastori indo-iraniani‖ (ivi: 253-54, 260). A questo sottofondo egli riconduce un diritto alternativo che ―fu certamente in vigore per sei-dieci secoli, dall‘VIII secolo prima della nostra era al II o III secolo d. C.‖ Non si può fare a meno di osservare che si tratta proprio dello stesso periodo in cui prosperarono le antiche repubbliche di cui si è detto, periodo che si chiuse appunto con la definitiva affermazione dell‘ideologia bramanica. Per altro verso, molti hanno notato la stretta relazione esistente fra le istituzioni di quelle repubbliche e le forme organizzative delle più antiche sette di rinuncianti, quelle buddhiste in particolare (cf. Muhlberger 1998: 6-7): la parola sanscrita sangha, che designa appunto la forma repubblicana, indica anche l‘ordine dei monaci buddhisti, le cui procedure decisionali erano, a quanto sembra, mutuate proprio da quel modello. Vediamo emergere una sintonia fra le istituzioni ―degli antichi pastori indo-iraniani‖, quelle delle repubbliche post-vediche e quelle delle comunità dei rinuncianti, tre sistemi che, nel contrapporsi all‘ideologia gerarchica del sistema delle caste, rivelano tutti la loro contiguità col modello dei fratelli87. I Kalasha sono palesemente gli eredi diretti di quegli antichi pastori. E‘ un vero peccato che a Mauss non sia giunta notizia dei Kafiri, del libro di Robertson e dell‘intero complesso
87 Si confrontino le osservazioni di Quigley (1995: 166, 167): ―Caste organization is
opposed to tribalism: that is, a form of uncentralized social structure which is based on kinship. Historically, caste is a phenomenon of the plains, of relatively productive agriculture which makes some degree of centralization not only possible and desirable, but, once it takes off, irreversible […] Caste is concerned with relations of this world. As such, whatever its apologists may claim, it is also fundamentally opposed to the renouncer‘s attempt to deny the constraints of social and political organization altogether‖.
culturale peristano, poiché, nonostante la debolezza dei dati allora disponibili, esso avrebbe avuto certamente un posto di primo piano nel
Saggio sul dono.
Il sistema Kalasha, in ogni caso, si colloca palesemente al di qua dell‘inversione del debito: parente povero e rinnegato dell‘architettura simbolica bramanica, asservisce lo stesso vocabolario a finalità diametralmente opposte e, relegando il principio gerarchico alla sfera dei rapporti tra i generi, lo esclude dalla categorizzazione dell‘universo sociale. Cardine del sistema è il modello fraterno.
E‘ per questo che nei sistemi peristani di questo tipo non si osserva, sul piano sociologico, nulla di paragonabile alla tripartizione delle funzioni teorizzata da Dumezil*, che è palesemente legata ad un quadro politicamente ed economicamente specializzato e gerarchizzato88. Allo stesso modo, come si è già argomentato altrove (Cacopardo & Cacopardo 2001: 42-44), sono privi di fondamento i vari tentativi compiuti in passato di reperire in Peristan un sistema di caste. Ciò che esisteva invece in età preislamica, tanto in ambito acefalo quanto nell‘area di Gilgit, era una ristretta minoranza di gruppi endogami, specializzati e subordinati, che avevano spesso tutti i caratteri degli intoccabili indiani, segnati come erano da una condizione di profonda impurità che li segregava in villaggi separati
88 E‘ possibile, sebbene tutt‘altro che certo, che una vaga traccia della tripartizione
dumeziliana sia rintracciabile nella triade di divinità bashgali formata da Imra, Gish e Mon, secondo quanto suggerito da Allen (1991; cf. Cacopardo & Cacopardo 2001: 204), tanto più che la preminenza di queste divinità è adesso confermata da ulteriori fonti (Grünberg 1994: 85; Graziosi 2007: 14-15). Questo tuttavia non si ripercuote in alcun modo a livello sociologico: gli estemporanei tentativi di qualcuno di ravvisare la tripartizione dumeziliana nella società Kalasha non sono in alcun modo condivisibili.
e li escludeva dai riti sacri89. Ma a questo riguardo non si può non concordare con lo stesso Dumont (2004: 367) quando sostiene che ―un conto è per una società avere quella che si tende a chiamare una casta di Intoccabili […], un altro conto è essere costituita interamente da un sistema di caste. Perché ci sia casta, occorre che la società tutta intera e senza residui sia costituita da un insieme di caste‖. E questo è proprio ciò che non troviamo in Peristan.
Troviamo invece, come si è visto, una situazione come quella dei regni kafiri dell‘area di Gilgit, in cui il sistema che abbiamo appena descritto è stato piegato e trasformato a servizio del modello paterno in un modo completamente diverso dalla via seguita nell‘India bramanica. In assenza di scrittura, non si è formata una casta di custodi del sapere sacro in grado di condizionare il potere politico. Il re è al vertice della gerarchia di purezza nella misura in cui assume le vesti dello sciamano, ed è allo stesso tempo investito di funzioni sacerdotali esclusive che lo distinguono da qualunque altro mortale. Tutto lascia pensare che si tratti di un‘architettura che sovverte profondamente la Norma che abbiamo delineato, utilizzando tuttavia i medesimi elementi per ricomporli in un disegno alternativo: la versione peristana dell‘inversione del debito. E‘ un peccato che i dati disponibili siano troppo esigui e tardivi per consentire un‘attendibile analisi complessiva di quel sistema, poiché i suoi risultati sarebbero certamente interessanti. In questa sede ci dobbiamo contentare di limitare la nostra analisi alla sfera del modello fraterno.
89 Avevano uno status analogo fra i Kalasha i già ricordati baira, che vivevano in villaggi
CAPITOLO 5
Kalasha. Politica e orizzonte dell’etica.
Descriveremo adesso il sistema politico dei Kalasha nelle forme in cui è osservabile attualmente, in base all‘assunto che, non discostandosi sensibilmente da quello di età coloniale e precoloniale90, esso costituisca un‘esemplificazione pertinente, sebbene non rigorosamente tipica, dei sistemi acefali presilamici del Peristan.
90 Le fonti scritte di età precoloniale sui Kalasha sono pressoché inesistenti. L‘unico
studio ad essi dedicato in quel periodo è un articolo sulla loro lingua dovuto a Leitner (1880), che tuttavia credette si trattasse di un idioma parlato in Bashgal. Da qui apprendiamo fra l‘altro che i lignaggi maggiori di Bumburet erano conosciuti allora sotto gli stessi nomi usati ancor oggi. A questo si aggiungono poche note di McNair (1883) e Lockhart & Woodthorpe (1889), nonché alcune importanti notizie ricavabili dallo Shah Namah di Muhammad Siar. Il vasto corpus delle loro tradizioni orali ci consente tuttavia di stabilire che i Kalasha non ebbero mai capi di tipo monocratico nel periodo della soggezione al principato.
I Kalasha di oggi sono iscritti nell‘ordinamento politico-amministrativo del Pakistan con lo status di minoranza, disciplinato da una normativa più volte modificata, originariamente risalente al governo di Zulfikar Ali Bhutto (1973-77), il padre di Benazir. La loro economia, pur essendo ancor oggi basata sull‘agricoltura e la pastorizia, è stata parzialmente trasformata, soprattutto a partire dai tardi anni Settanta, dalla penetrazione della moneta e del mercato, nonché dagli interventi dello stato e di molte organizzazioni non governative e governative internazionali. La minaccia della fame, che ancora incombeva ai tempi della nostra prima visita nei primi anni Settanta, è oggi fortunatamente svanita e i Kalasha, un tempo miseri e disprezzati, sono adesso mediamente più benestanti, più istruiti e meglio dotati dei benefici dello sviluppo dei loro vicini musulmani.
Il loro attaccamento alla tradizione rimane tuttavia fortissimo, sottoposti come sono a due opposte sollecitazioni: quelle dei vicini e parenti musulmani, che quotidianamente rimettono in discussione la loro differenza culturale, e quelle dei visitatori esterni, orientali e occidentali, che continuamente incoraggiano quell‘attaccamento, in sintonia del resto con la politica di tutela coerentemente perseguita da tempo dalle autorità pakistane. Nella sfera politica il dastur ha un peso enorme, ed è pertanto del tutto ragionevole vedere nelle istituzioni che descriveremo una struttura dalle radici arcaiche che si confronta con considerevole successo con le