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Raggiungimento dei requisiti pensionistic

IL LICENZIAMENTO INDIVIDUALE

3.3 Raggiungimento dei requisiti pensionistic

Il principio del recesso ad nutum nei confronti del lavoratore in possesso dei requisiti pensionistici di vecchiaia era originariamente contenuto nell’art. 11, comma 1, legge n. 604/1966, il quale sanciva l’inapplicabilità delle tutele contro i licenziamenti illegittimi “nei riguardi dei prestatori di lavoro che siano in possesso dei requisiti di legge per avere diritto alla pensione di vecchiaia o che abbiano comunque superato il 65° anno di età”. Questa norma generava una disparità tra uomini e donne sul piano della tutela contro i licenziamenti, derivante dalla diversa età richiesta per il pensionamento della donna (al tempo 55 anni) rispetto a quella degli uomini (60 anni). Le donne, quindi, se rimanevano in servizio oltre il raggiungimento dell’età di pensionamento di vecchiaia, potevano essere liberamente licenziate dal datore di lavoro, mentre gli uomini entravano nel regime di libera recedibilità cinque anni dopo, a 60 anni di età. Il Legislatore ritenne di dover sanare questa disparità di trattamento con una specifica norma, l’art. 4, legge n. 903/1977 (Parità di trattamento tra uomini e donne), in base al quale le donne, al conseguimento dell’età pensionabile, potevano rimanere in servizio fino al raggiungimento dell’età lavorativa massima degli uomini (60 anni) a condizione che comunicassero tale intenzione al datore di lavoro tre mesi prima del raggiungimento dell’età pensionabile. Sia l’art. 11, comma 1, legge n. 604/1966 sia l’art. 4, legge n.

903/1977, sono stati dichiarati illegittimi dalla Corte Costituzionale in quanto la lavoratrice non poteva essere discriminata rispetto all’uomo con riferimento all’età lavorativa. Nel 1990, quindi, la legge n. 108/1990, oltre ad introdurre rilevanti modifiche nel campo di applicazione della disciplina sui licenziamenti individuali (art. 18, legge n. 300/1970 e art. 2, legge n. 604/1966), ha abrogato il citato comma 1 dell’art. 11, già dichiarato incostituzionale, e con l’art. 4 ha disposto che la tutela contro i licenziamenti individuali privi di giustificazione non si applica nei confronti “dei prestatori di lavoro utrasessantenni, in possesso dei requisiti pensionistici, sempre che non abbiano optato per la prosecuzione del rapporto di lavoro ai sensi dell’art. 6 D.L. 22 dicembre 1981, n. 791”. L’art. 6, D.L. n. 791/1981, aveva introdotto la possibilità per i lavoratori di posticipare il pensionamento optando per la continuazione della propria attività di lavoro fino a raggiungere l’anzianità contributiva massima o per incrementare la medesima, e comunque non oltre il compimento dei 65 anni di età. Detta opzione doveva essere effettuata con una comunicazione da consegnare al datore di lavoro 6 mesi prima della data di conseguimento del diritto alla pensione di vecchiaia. Tale situazione, tuttavia, durò per breve tempo in quanto, con la graduale elevazione dell’età pensionabile introdotte dalle riforme pensionistiche che si sono susseguite, veniva sostanzialmente ripristinata quella disparità di trattamento che la legge n. 108/1990 aveva (temporaneamente) eliminato. Sulla legittimità delle normative che prevedevano la suddetta elevazione, fu nuovamente chiamata a pronunciarsi la Corte Costituzionale, che, con sentenza interpretativa di rigetto n. 256/2002, riaffermava la necessità di distinguere tra età lavorativa ed età pensionabile, confermando i principi già in precedenza espressi. Fino al 31 dicembre 2011, quindi, la donna, ancorché in possesso dei requisiti previsti per il pensionamento di vecchiaia (anzianità contributiva minima di 20 anni e 60 anni di età) non poteva essere licenziata se non al raggiungimento del sessantacinquesimo anno di età, ossia alla medesima età pensionabile prevista per gli uomini, senza alcun onere di comunicazione preventiva al datore di lavoro circa la volontà di proseguire il rapporto di lavoro.

Licenziamento del pensionato

La descritta normativa deve oggi coordinarsi con la complessiva revisione del sistema pensionistico contenuta nell’art. 24 del D.L. n. 201 del 6 dicembre 2011, il cd. Decreto “Salva Italia” (Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il consolidamento dei conti pubblici). La recente riforma pensionistica introduce infatti una disposizione, al comma 4 del richiamato art. 24, che consente al lavoratore, sia donna che uomo, di proseguire a lavorare anche oltre i nuovi requisiti di età anagrafica previsti per la pensione di vecchiaia, e fino ai 70 anni di età. Per rendere effettiva tale facoltà ed allo scopo di incentivare detta prosecuzione, il Legislatore ha previsto che le disposizioni di cui all’art. 18, legge n. 300/1970 (cd. regime di stabilità reale del posto di lavoro), si applichino sino al raggiungimento del predetto limite massimo di flessibilità di 70 anni, termine anch’esso soggetto ad innalzamenti periodici in base all’incremento della speranza di vita. Scriminante per l’applicazione delle diverse tutele Con l’art. 24 del D.L. n. 201/2011 il Legislatore ha dunque introdotto, per la prima volta, due distinte discipline per il recesso ad nutum del lavoratore in possesso dei requisiti per la pensione di vecchiaia, le quali risultano differenziate, a seconda che alla fattispecie concreta trovi o meno applicazione l’art. 18 dello Statuto dei lavoratori. In particolare, le due discipline sono le seguenti:

• se i dipendenti sono in forza presso datori di lavoro che occupano più di 15 dipendenti, essi possono proseguire fino a 70 anni, e sino a tale età sono tutelati contro i licenziamenti senza giustificazione; diversamente,

• se i dipendenti sono in forza presso datori di lavoro che occupano fino a 15 dipendenti, possono essere licenziati al raggiungimento dei requisiti pensionistici, ossia all’età pensionabile dell’uomo, senza poter optare per la prosecuzione sino ai 70 anni di età.

A riguardo va, peraltro, rilevato che ai sensi del comma 14 dell’art. 24, del D.L. n. 201/2011 continua ad applicarsi la precedente normativa “in materia di requisiti di accesso e di regime delle decorrenze”. Dal tenore letterale della norma pare desumersi che tutte le altre disposizioni introdotte dalla riforma, compresa quindi quella in esame limitativa del recesso ad nutum, siano applicabili anche ai soggetti che, pur maturando i requisiti pensionistici con le regole vigenti al 31 dicembre 2011, decidano di non accedere alla pensione e di proseguire il lavoro sino ai 70 anni.

In conclusione, dal 1° gennaio 2012, il regime di libera recedibilità del lavoratore pensionando opera in maniera distinta:

• per le aziende in regime di stabilità reale, di cui all’art. 18, legge n. 300/1970: il dipendente (uomo o donna) che prosegua il lavoro oltre l’età anagrafica prevista per il pensionamento di vecchiaia non può essere licenziato sino ai 70 anni. Una volta raggiunta tale età anagrafica, ferma restando

l’anzianità contributiva minima pari a 20 anni, il datore può liberamente recedere dal rapporto di lavoro dando solo il preavviso contrattuale;

per tutte le altre aziende, in regime di stabilità obbligatoria di cui all’art. 8, legge n. 604/1966: una volta raggiunta l’età lavorativa massima, che si attesta, anche per la donna, all’età pensionabile dell’uomo, pari nel 2012 a 66 anni, fermo restando il raggiungimento dell’anzianità contributiva minima di 20 anni, il datore di lavoro può liberamente recedere dal rapporto di lavoro dando il preavviso contrattuale.