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Rappresentazione pittorica e rappresentazione poetica in Tommaso d’Aquino

di Fabrizio Amerini

Parlare di “estetica medievale” non è facile oltre che storiogra-ficamente discutibile 1. Come è stato sottolineato da più studiosi, il principale motivo di difficoltà e di perplessità storiografica risiede nel fatto che durante il Medioevo i canali di accesso e di trattazione delle questioni che oggi noi consideriamo di pertinenza dell’estetica sono stati molteplici e hanno preso forme differenti a seconda del tempo e del luogo in cui vengono studiati. In generale, le riflessioni di estetica che possono essere rintracciate in epoca medievale devono essere ri-cavate da contesti spuri. Nel Medioevo problemi di estetica non sono stati esplicitamente riconosciuti e tematizzati, non essendoci stata una disciplina di studio autonoma qualificabile come estetica né qualcosa di pur lontanamente assimilabile all’estetica come dal Settecento ad oggi viene intesa. Per di più, raramente s’incontrano in epoca medievale osservazioni su che cosa sia una teoria artistica o su quali condizioni debba soddisfare una teoria per essere considerata una teoria estetica. Le riflessioni sono tutte, per così dire, pre-teoriche e riguardano in-tuizioni differenti su che cosa sia il bello e su quali rapporti debbano intercorrere tra la bellezza e la sua rappresentazione artistica. In epoca medievale, cioè, ci s’imbatte di frequente in forme di estetica descrit-tiva, saltuariamente in esempi di estetica normadescrit-tiva, piuttosto sporadi-camente in considerazioni meta-estetiche. Neppure un’attenzione pri-vilegiata viene rivolta all’estetica come ricerca sulle condizioni del pia-cere o della contemplazione estetica, nonostante che la sensibilità nei confronti del bello e il tema del diletto giochino un ruolo importante nelle meditazioni estetiche dei maestri medievali 2. L’attenzione sembra essere tutta rivolta al rapporto che si può instaurare tra esperienza, artista e opera d’arte. Quale esperienza, tuttavia, un’opera d’arte deve intercettare ed esprimere, per un filosofo medievale? È evidente che a seconda che si scelga di privilegiare il rapporto tra l’opera d’arte e il soggetto o tra l’opera d’arte e l’oggetto, scaturiscono due immagini dell’estetica molto differenti. Seppur in modo non troppo esplicito, i maestri medievali hanno esplorato entrambe queste connessioni. In ciò che segue mi limiterò a mettere in risalto alcuni punti di queste esplorazioni che considero rilevanti per una ricostruzione filosofica

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l’estetica nel Medioevo, concentrando l’attenzione soprattutto sul basso Medioevo e, più in particolare, su Tommaso d’Aquino 3.

In generale, è stato notato che i filosofi medievali sviluppano ri-flessioni di estetica prevalentemente all’interno di una più generale riflessione sulla bellezza e sul bello (pulchrum). Tale inclusione spiega le difficoltà che l’estetica ha incontrato nel corso del tempo per gua-dagnare la propria autonomia rispetto ad altre discipline. Il legame tra estetica e teoria del bello fa emergere infatti i debiti che la cosiddetta “estetica medievale” ha avuto nei confronti di altri campi del sapere, come l’etica (per i rapporti tra bello e bene), la teologia (per i rapporti tra bello creaturale e bellezza divina), la metafisica (per la connessione tra bello, essere e vero), l’ottica (per i rapporti tra bello, colore e fe-nomeno della luce), le scienze del quadrivio in genere (per i rapporti tra bellezza e proporzionalità numerica e geometrica).

Il concetto di bello viene connesso dai filosofi medievali, in modo piuttosto condiviso, a quello di ordine (ordo) e quest’ultimo è la chiave che consente loro di proporre una fondazione teologica e scritturale, quindi oggettiva, del bello, dal momento che l’ordine è uno degli at-tributi che Dio ha impresso al mondo all’atto della creazione. Come spiega esemplarmente Bonaventura nel suo Itinerarium mentis in Deum (1259), riassumendo una lunga tradizione interpretativa, specialmente di ascendenza agostiniana, Dio ha creato il mondo in peso, numero e misura (Sapienza, 11, 20). Il peso indica l’ubicazione delle cose nel mondo, il numero il principio della loro distinzione sostanziale e quan-titativa, la misura il fattore della loro delimitazione formale e qualitati-va. Numero e misura sono la radice dell’intelligibilità del reale, che si delinea come il risultato della piena corrispondenza tra la misura e il misurato, tra il modello e la copia. Queste due relazioni “esemplari” non sono troppo diverse tra loro: le cose sono misurate nell’essere da Dio, ma sono state anche create ad immagine e somiglianza del loro Creatore, ed è un tratto essenziale delle creature quello di essere in un rapporto proporzionato di somiglianza (similitudo) con Dio e, di riflesso, con le altre creature. Dal numero e dalla misura delle cose scaturisce quindi l’ordine, che altro non esprime che un rapporto di proporzione, per cui, come aveva precisato già Agostino nel De musica e nel De civitate Dei, «la bellezza non è altro che uguaglianza numeri-camente proporzionata [...] è una certa disposizione delle parti, accom-pagnata dalla soavità del colore» 4. Questa idea agostiniana di bellezza, che si arricchirà nel corso del tempo di sollecitazioni provenienti da altre tradizioni filosofiche, aristoteliche e soprattutto neo-platoniche (e.g. Pseudo-Dionigi), godrà di larga fortuna in epoca medioevale e sarà ripresa, tra gli altri, anche da Tommaso d’Aquino, il quale ricorda come, basilarmente, la «bellezza richieda due cose, lo splendore [del colore] e la proporzione delle parti» 5.

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Queste concise definizioni, proposte da Agostino e riprese tra gli altri da Bonaventura e da Tommaso, rivelano alcune cose. In prima istanza, da queste definizioni emerge come il concetto cardine di una teoria del bello resti quello classico di proporzione (proportio) delle parti in un tutto, che è a sua volta dipendente dal concetto di accor-do tra il tutto e il suo esemplare ideale. Tommaso sintetizza questo concetto attraverso la nozione tecnica di consonantia, che impiegata originariamente in ambito musicale a indicare la melodia e armonia dei suoni, viene generalizzata a regola universale per definire l’armonica proporzione delle parti in un tutto, che è ciò che spiega qualunque stato soggettivo, sensoriale o emozionale, che scaturisce dalla relazione tra il soggetto e l’oggetto 6. In seconda istanza, il successivo riferimen-to al colore e allo splendore (splendor) o chiarezza (claritas) 7 allarga l’orizzonte d’indagine sul bello, permettendo una caratterizzazione del bello non solo in termini intrinsecamente o estrinsecamente oggettivi, ma anche per così dire soggettivi, grazie alla connessione del bello a una teoria generale della percezione sensibile. Infatti, il colore è con-siderato una proprietà reale delle cose, ma il colore in quanto visibile richiede, nei termini del processo percettivo che Aristotele illustra nel

De anima, la presenza di un soggetto percettore e di un fattore

atti-vante questo processo. Il soggetto è identificato con il singolo indivi-duo, mentre il fattore di attivazione è identificato con la luce, la quale permette la trasformazione dei visibili in potenza in visibili in atto e quindi in visti in atto. Rispetto al processo percettivo di ricezione di una forma sensibile, la bellezza viene a esprimere, così, sia l’arrangia-mento armonico delle parti di una cosa colorata (in questo senso un colore bello è «un colore che è conveniente alla vista per vedere» e tale è un colore che a sua volta possiede una gradazione cromatica armoniosa) 8, sia la corrispondenza che si ha tra la forma del ricevente e la forma del ricevuto. La riproduzione a livello percettivo della forma e del colore di una cosa sono a fondamento dell’esperienza del bello, il cui indicatore è dato dal sentimento di piacere che la cosa colorata suscita nell’anima.

È stato fatto notare come l’insistenza agostiniana sulle cose come immagini di Dio, effetti-segni che rinviano alla loro causa-esemplare, sia alla base di gran parte del simbolismo e dell’allegorismo medievale. Non occorre soffermarsi troppo qui sulla connessione tra bello e ordi-ne, e tra bello, luce e colore, essendo queste connessioni un

common-place del pensiero estetico medievale che è stato comunque esaminato

dalla storiografia del secolo scorso. In questa sede mi limiterò a richia-mare due aspetti di queste connessioni che considero particolarmente significativi e su cui, ritengo, ci sia ancora del lavoro da fare.

Il primo aspetto da rimarcare è che il processo di ricezione della forma di un oggetto da parte di un soggetto conoscente garantisce una saldatura tra le due connessioni di un’opera d’arte all’esperienza che

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abbiamo distinto all’inizio. Per quanto ci possano essere eventi o pro-duzioni artistiche la cui funzione è esclusivamente quella di esprimere stati emozionali di un soggetto, o anche di suscitare stati emozionali simili in un altro soggetto (si pensi alle rappresentazioni teatrali o alla poesia, di cui parleremo più avanti), in genere un’opera d’arte deve essere valutata rispetto alla sua capacità di rappresentare o imitare un certo oggetto, e nel caso specifico di rappresentazioni pittoriche, di rappresentare la proporzione armonica delle parti e del colore che un oggetto possiede, riproducendo così una certa forma che l’oggetto ha impresso nel soggetto conoscente. Da questo punto di vista, è de-gno di nota che molte riflessioni sulla rappresentatività dei dipinti si trovino all’interno dei dibattiti epistemologici sulla natura e funzione delle rappresentazioni mentali. Siccome molti filosofi medievali, tra cui Tommaso d’Aquino, ritengono, sulla scia di Boezio, che una rappre-sentazione mentale naturale rappresenti le cose non come sono in sé stesse, al di fuori della mente, ma così come sono state ricevute dalla mente, ne consegue che anche la bellezza di un’opera d’arte viene a risiedere nella capacità che l’opera d’arte possiede di mimare la debita proporzione delle parti e del colore di una cosa rispetto al modo in cui tale proporzione è stata ricevuta dalla mente. In questo senso, il processo rappresentativo richiede non solo una somiglianza qualitativa tra ciò che rappresenta e ciò che è rappresentato, ma anche una loro adeguazione proporzionale, che è il frutto di un intervento di ricosti-tuzione dei dati percettivi operato dalla mente.

Il secondo aspetto che ritengo utile sottolineare si collega in qualche misura al primo. Soprattutto nel corso del xiii secolo, la fondazione teoretica del bello e la determinazione del suo valore cognitivo emergo-no nel contesto di quella che i medievali presentaemergo-no come un’indagine sui cosiddetti trascendenti, ovvero su alcune nozioni transcategoriali, come ens, unum, bonum, verum, aliquid, res, cui qualcuno aggiungerà per l’appunto pulchrum 9. Tommaso d’Aquino, ad esempio, che propo-ne una spiegaziopropo-ne tutto sommato chiara e condivisa della natura dei trascendenti, osserva che i concetti di bello e di bene (ma il discorso vale anche per il rapporto tra il bello e gli altri trascendenti), sono realmente identici se considerati rispetto a un dato oggetto di cui si predicano, perché si fondano su una stessa cosa, cioè sulla forma di questo oggetto. Differiscono tuttavia concettualmente. Mentre il bene riguarda la facoltà appetitiva dell’uomo e si pone come la causa finale rispetto all’agire pratico, il bello riguarda la facoltà conoscitiva e si pone come la causa formale rispetto alla percezione dell’oggetto. Belle, infatti, sono dette quelle cose che piacciono una volta viste (pulchra

dicuntur quæ visa placent) e la vista è una facoltà conoscitiva; ma

sic-come la conoscenza avviene per assimilazione dell’oggetto conosciuto al soggetto conoscente, e l’assimilazione dipende dalla forma, allora il bello riguarda propriamente la forma dell’oggetto 10. Stando a queste

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osservazioni di Tommaso, mentre uno stato emozionale di tipo etico si perfeziona completamente nel raggiungimento di ciò che è bene per la facoltà appetitiva, uno stato emozionale di tipo estetico si realizza pienamente nell’acquisizione cognitiva (apprehensio, cognitio) di una forma e quindi nel piacere di questa acquisizione, e questa compete solamente a quelle che sono le più nobili facoltà conoscitive sensoriali, ossia la vista e l’udito 11.

L’accentuazione del valore cognitivo del bello e della sua connes-sione al processo percettivo costituisce il filo rosso della riflesconnes-sione estetica di Tommaso e di gran parte dei filosofi del basso Medioevo, nelle varie forme in cui essa si articola. È evidente che assumendo que-sto punto di vista compito dell’estetica viene a essere, per Tommaso, quello di fissare le condizioni alle quali l’esperienza del bello possa essere data e, quindi, riprodotta. Un’opera d’arte non sembra avere altro compito che quello di rappresentare un oggetto o un evento bello, ossia di re-presentare la sua forma alla mente del soggetto conoscente. All’interno di questo processo ricettivo e riproduttivo, Tommaso as-sume che non solo un’opera d’arte possa essere detta bella, ma anche un evento o un oggetto, nonostante che “bello” si dica di un oggetto, di un evento o delle loro rappresentazioni in modo diverso. Mentre un oggetto o un evento è bello, infatti, se in virtù di una distribuzione armonica delle parti e dei colori induce un sentimento di piacere in chi lo percepisce, una rappresentazione è bella se è in grado di ri-suscitare un sentimento di piacere rispetto al modo in cui essa rappresenta la forma di quel determinato oggetto o evento. Non è possibile scorge-re ancora in Tommaso una distinzione pscorge-recisa tra bello e sublime, il cui termine per altro è impiegato da Tommaso, seppur confinato a indicare l’eccellenza di uno stato o di una funzione. Stando ai testi di Tommaso, il sublime non sembra esprimere nient’altro che una forma intensa di bellezza o una bellezza cui corrisponde un piacere intenso. Esso scaturisce dal sentimento di admiratio o contemplazione com-piaciuta e timorosa che si prova di fronte a oggetti o eventi maestosi, rari o insoliti, che eccedono cioè le nostre facoltà conoscitive e di cui si ignora la causa 12.

Riassumendo. In termini oggettivi, il criterio intrinseco di definizio-ne del bello continua ad essere dato, per Tommaso, dalla debita pro-porzione delle parti e del colore di una cosa, mentre il criterio

estrin-seco è dato dalla corrispondenza tra la cosa e il suo esemplare divino.

Estrinsecamente una cosa è bella se partecipa della bellezza ideale e una cosa ne può partecipare a vari gradi, a seconda del modo in cui l’idea di bellezza in Dio – che altro non è che Dio stesso considerato in quanto bello – è partecipabile dalle creature 13. In termini sogget-tivi, invece il criterio definitorio del bello risiede nella capacità di una cosa, una volta vista, di suscitare un sentimento di piacere. Un’opera d’arte è al contrario bella se rappresenta il bello, che è considerato da

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Tommaso, sulla scorta dello Pseudo-Dionigi, un fine universalmente e naturalmente ricercato dall’uomo 14.

Una rappresentazione pittorica, dunque, ha come fine la raffigura-zione del bello e non può tendere che a questo fine. Ciononostante Tommaso precisa che, sebbene un’opera d’arte sia detta bella se rap-presenta il bello, tuttavia, in quanto raprap-presentazione, essa deve essere detta bella se rappresenta una cosa in modo perfetto, anche se la cosa è in sé non-bella. Come nel caso delle cose, anche nel caso delle rappre-sentazioni la perfezione o bellezza deve essere valutata, da un punto di vista formale, esclusivamente in termini della capacità di rassomigliare

in modo vero una certa cosa. Ne risulta che il processo rappresentativo

pittorico del bello, anche terminologicamente, è descritto da Tommaso come in tutto e per tutto simile al processo rappresentativo di una cosa da parte di una rappresentazione mentale naturale 15. Questo col-legamento non deve stupire, se si pensa che nel De anima Aristotele aveva caratterizzato l’intelletto come una tabula su cui possono esse-re impesse-resse picturæ diffeesse-renti. In definitiva, come le rappesse-resentazioni mentali, anche la rappresentazione pittorica ha lo scopo di ripresentare una forma, riproducendo così il processo sensoriale che ha suscitato un certo piacere 16.

Se sul versante delle rappresentazioni pittoriche un certo approfon-dimento storiografico è stato portato avanti, decisamente più scoperto appare il versante della poetica, intesa non tanto come teoria della com-posizione letteraria, ma come disciplina che studia l’utilizzo di rappre-sentazioni di tipo segnatamente linguistico, vocale o scritto, o teatrale. Un’attenzione maggiore, invece, è stata rivolta alla retorica 17.

Mi sembra che i motivi principali che hanno determinato nel Me-dioevo una svalutazione della poetica filosofica siano stati due. Il pri-mo è storico e riguarda la sistemazione della poetica all’interno della classificazione delle scienze e il suo inserimento tardo nel curriculum di studio universitario. Il secondo invece è teorico e riguarda il fatto che la poetica tende a prescindere da un criterio stretto di rappre-sentazione mimetica, concernendo principalmente il rapporto tra una rappresentazione e il suo fruitore rispetto a un determinato effetto che si vuol indurre nel fruitore.

Non indugio troppo sul primo motivo, essendo noto che la sistema-zione operata dai commentatori neo-platonici tardo-antichi, soprattutto alessandrini, delle opere aristoteliche aveva comportato l’inclusione del-la Retorica e deldel-la Poetica tra le opere dell’Organon. Come tale questa sistemazione era giunta al mondo arabo e di qui, tramite le varie tratta-zioni de divisione scientiarum, era giunta al mondo latino occidentale 18. Questo fatto aveva avuto ripercussioni sul dibattito circa la natura e la scientificità della retorica e della poetica, così come sull’insegna-mento, poiché la Retorica e la Poetica erano considerati comunemente

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i libri conclusivi dell’Organon e venivano perciò letti solo dopo aver commentato gli altri libri; di fatto, la loro lectura era facoltativa. In particolare, la poetica filosofica ebbe uno sviluppo piuttosto limitato, non essendoci una tradizione poetica consolidata (a differenza della re-torica) alternativa a quella aristotelica con cui i medievali erano venuti in contatto prima dell’arrivo della Poetica aristotelica. Questa, com’è noto, venne tradotta dal greco da Guglielmo di Moerbeke solo molto tardi (1 marzo 1278), mentre fino a quella data l’unica via di accesso alla poetica aristotelica era costituita dalla traduzione dall’arabo del Commento Medio alla Poetica di Averroè, che molti, tra cui Tomma-so, erroneamente citano come traduzione dell’opera aristotelica. Tale traduzione fu portata a termine da Ermanno il Tedesco a Toledo, il 17 marzo 1256, dopo che, nel 1250, in seguito alla traduzione dall’arabo della Retorica, Ermanno aveva rinunciato a tradurre direttamente la

Poetica a causa della sua oscurità e del disaccordo tra metrica araba e

metrica greca 19. Nonostante che il Commento averroista abbia avuto una certa diffusione (siamo a conoscenza di almeno 23 manoscritti che lo conservano), la Poetica fu un testo poco commentato. A tutt’oggi sono sopravvissute in un manoscritto parigino solo alcune glosse e una breve esposizione letterale, databili al 1307, del maestro Bartolomeo da Bruges 20.

Di maggiore interesse filosofico è il secondo motivo. L’inclusione della poetica e della retorica, tanto quella argomentativa quanto quella epidittica, nella logica – secondo l’accezione larga di logica che i me-dievali avevano ereditato dai commentatori neoplatonici tardo-antichi – ne ha determinato inevitabilmente lo statuto. Nella distinzione delle opere dell’Organon che Tommaso propone nel prologo del suo Com-mento agli Analitici Secondi 21, ad esempio, la retorica e la poetica sono accomunate dal fatto di far uso di procedimenti discorsivi, rientrando così, a giusto titolo, nella filosofia razionale 22. Tommaso giustifica que-sta conclusione osservando che ogni arte riguarda atti della ragione, essendo un’arte «nient’altro è che un certo ordinamento della ragione, nel modo in cui attraverso determinati mezzi gli atti umani giungano a un debito fine» 23, e la retorica e la poetica riguardano specifici atti razionali. In particolare, entrambe le discipline vengono incluse in ciò che, sulla base della tradizione, Tommaso chiama l’ars inventiva, in quanto contrapposta all’ars iudicativa. Seguendo l’articolazione propo-sta da Tommaso, emerge con chiarezza la subordinazione della poetica e della retorica alla logica, ma anche, di riflesso, la rivalutazione che Tommaso compie di queste discipline. Modificando la divisione tradi-zionale, seguita ad esempio da Avicenna e Alfarabi, che collocava la re-torica e la poetica a completamento dell’Organon, Tommaso preferisce seguire Simplicio, Gundissalino e Averroè, collocando di conseguenza la retorica e la poetica tra la topica e la sofistica. Così facendo, Tom-maso riconosce al ragionamento retorico e poetico un grado, seppur

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