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Dire l’esperienza estetica a cura di Rita Messori

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Academic year: 2021

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Aesthetica Preprint

Dire l’esperienza estetica

a cura di Rita Messori

Centro Internazionale Studi di Estetica

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Il Centro Internazionale Studi di Estetica

è un Istituto di Alta Cultura costituito nel 1980 da un gruppo di studiosi di Estetica. Con

d.p.r. del 7-1-1990 è stato riconosciuto Ente Morale. Attivo nei campi della ricerca scien- tifica e della promozione culturale, organizza Convegni, Seminari, Giornate di Studio, Incontri, Tavole rotonde, Conferenze; cura la collana editoriale Aesthetica© e pubblica il periodico Aesthetica Preprint© con i suoi Supplementa. Ha sede presso l'Univer- sità degli Studi di Palermo ed è presieduto fin dalla sua fondazione da Luigi Russo.

Aesthetica Preprint©

è il periodico del Centro Internazionale Studi di Estetica. Affianca la collana Aesthetica© (edita da Aesthetica Edizioni, commercializzata in libreria) e presenta pre-pubblicazioni, inediti in lingua italiana, saggi, bibliografie e, più in generale, documenti di lavoro.

Viene inviato agli studiosi impegnati nelle problematiche estetiche, ai repertori biblio- grafici, alle maggiori biblioteche e istituzioni di cultura umanistica italiane e straniere.

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80 Agosto 2007

Centro Internazionale Studi di Estetica

Aesthetica Preprint

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Il presente volume viene pubblicato col contributo del Dipartimento di Filosofia

dell’Università degli Studi di Parma.

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Dire l’esperienza estetica

a cura di Rita Messori

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Indice

Presentazione

di Rita Messori 7 Il rapporto fra poetica e retorica

di Emilio Mattioli 11 Dire l’esperienza: alle origini della letteratura

di Giovanni Lombardo 17 Rappresentazione pittorica e rappresentazione poetica

in Tommaso d’Aquino

di Fabrizio Amerini 27 De la poésie comme réponse à la nuit

L’union du dire et du voir

di Baldine Saint Girons 39

«Ricostruire l’esperienza stessa della genialità»

Il problema del genio in Joseph Louis Segond

di Fabio Rossi 51 Descrivere l’arte, descrivere il mondo: Diderot promeneur

di Rita Messori 63 Stile e stili

di Elio Franzini 75

“Ästhetische Arbeit”: l’estetica atmosferica di Gernot Böhme e l’attualità della retorica

di Salvatore Tedesco 83

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Presentazione

di Rita Messori

Da più di un decennio a questa parte, si è assistito a una vera e propria svolta in ambito estetico: la messa in discussione della identi- ficazione estetica-filosofia dell’arte e la riproposizione dell’esperienza estetica quale questione centrale della disciplina. La ricerca, sia teorica sia storiografica, si è dunque maggiormente concentrata sul significato e sul ruolo che la sensibilità e l’affettività, nelle loro varie e mutevoli declinazioni, assumono in un’ottica generale di ricerca e formazione del senso.

Questa svolta, in concomitanza con alcuni fattori che hanno avuto in ambito estetico una significativa ripercussione – perdita di spinta propulsiva dell’ermeneutica, ma anche della cosiddetta rivalutazione della retorica, “argomentativa” o “figurale” – ha visto un affievolirsi dell’interesse nei confronti di questioni legate al linguaggio, che, come è noto, ha costituito uno dei nodi problematici su cui la filosofia del Novecento si è dibattuta.

A tal punto pare necessario un ripensamento del significato del lin- guaggio in ambito estetico a partire dal rapporto che si viene a instaura- re tra linguaggio ed esperienza estetica: come dire l’esperienza estetica?

In che modo rendere testimonianza del reale esperito? In definitiva:

quale relazione tra sentimento del mondo e articolazione del senso?

È nel tentativo di dare una risposta a tali interrogativi che si è svolto a Parma nel novembre del 2006 il convegno Dire l’esperienza. Nuove prospettive tra estetica e retorica di cui il presente volumetto raccoglie gli atti. Mi auguro che il vivace confronto iniziato durante lo svolgimento dei lavori possa proficuamente proseguire.

A unire i vari contributi è la consapevolezza che sia da un punto di vista teorico, sia da un punto di vista storiografico, determinante appare l’apporto della tradizione retorico-poetica, e non soltanto per- ché costituisce un percorso genetico della nascita dell’estetica: per se- coli ha presentato modalità di espressione la cui pregnanza richiede una adeguata riflessione in grado di esplicitarne il significato filosofico.

Come ribadisce Emilio Matttioli, ripensare l’unità di sentire e parlare

è possibile solo a partire da una ritrovata coappartenenza di poetica e

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retorica. Studi recenti sulla retorica dell’antica Grecia mostrano il ruo- lo fondamentale giocato dal genere epidittico derivato dalla tradizione poetica; se la poesia diviene un atto pubblico attento al sentire comune, il discorso retorico esprime i sentimenti e le passioni del soggetto par- lante. Nella stessa direzione si muove quella teoria del linguaggio che, rifacendosi alla poetica di Meschonnic, vede nel duplice ripiegamento autistico di retorica e poetica un segnale evidente della separazione tra linguaggio e vita.

Inserendosi in un dibattito storiografico attualissimo, l’intervento di Giovanni Lombardo mostra come nell’epos arcaico le tecniche lingui- stiche della narrazione, ovvero le forme verbali che il logos assume per

“dire l’esperienza”, esprimano fondamentalmente due modalità diverse di rapportarsi al reale. O, mediante l’uso dell’imperfetto, noi ci muo- viamo verso i fatti, consapevoli del continuum temporale a cui essi ap- partengono, o, mediante l’uso dell’aoristo, i fatti si avvicinano a noi in una indefinita momentaneità. Si tratta di due modi della visualizzazione del linguaggio poetico che vanno a costituire due schemi interpretativi dell’esperienza dell’arte, sia a livello produttivo sia a livello fruitivo.

Se vi è una storia del “dire l’esperienza” certamente il Medioevo ne rappresenta un momento ancora poco preso in esame dagli estetologi.

Mentre ad esempio alcuni tratti dell’estetica tommasiana concernenti la poetica e la retorica sono stati studiati, altri rimangono in ombra.

Secondo Fabrizio Amerini molto lavoro rimane da fare sulle teorie della rappresentazione applicate al campo pittorico e poetico, e sulle teorie dei colori rispetto alla percettibilità sensoriale e alla conseguente relazione del colore col sentimento del bello. Ciò potrebbe gettare una nuova luce sul rapporto tra poesia e pittura.

Ed è sulla poesia come risposta all’esperienza della vita nella sua fuggevolezza che si concentra il saggio di Baldine Saint-Girons. Resi- stendo al rischio di sacralizzare la lettera e di far dimenticare il reale, la poesia moderna afferma il qui e ora del miracolo evanescente della presenza. Ancora una volta la tradizione retorica, con Longino, ci offre un paradigma interpretativo: le immagini evocate divengono apparizio- ni. Le phantasiai poetiche rappresentano le cose nel momento del loro nascere, del loro emergere dal buio della notte che diviene qui figura dell’altro. La poesia è continua sperimentazione, modo di pensare in atto, le cui tecniche precise rendono conto del continuo movimento tra ciò che si rivela e ciò che si nasconde; quanto a noi si nega rimane sempre al di là di ogni nostra esperienza e di ogni nostro dire, pur costituendone la condizione di possibilità.

La produzione artistica, nel suo essere creazione spirituale e inventio

di nuove modalità espressive, è frutto di una personalità geniale. Sulla

teoria del genio di Joseph Louis Segond, pensatore della prima metà

del Novecento, quasi sconosciuto in Italia e forse presto dimenticato

in Francia, si concentra il contributo di Fabio Rossi. Poiché fondamen-

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talmente naturale e corporea, quella del genio è “potenza di sentire” al di là di ogni riduzione intelletualistica o mistico-sentimentale. Potenza che, attualizzandosi, si concreta in una tecnica, e nell’operare si rende immanente.

E di genio della critica si deve senza alcun dubbio parlare a proposi- to di Diderot salonnier che nella Promenade Vernet conduce il rapporto tra parola e immagine sino all’apice della sperimentazione. Facendo riferimento ai visual studies, in cui il tema dell’ekphrasis gioca un ruo- lo di primo piano, nel mio intervento ho tentato di mostrare come il racconto-descrizione dell’attraversamento fittizio dei paesaggi di Vernet conduca a una messa in questione dell’equivalenza evidentia-enargeia.

Dire l’esperienza del manifestarsi delle cose “come se” qui e ora venis- sero alla presenza significa coglierle nel passaggio dalla potenza all’atto.

La subiectio sub oculis è dunque a un tempo visualizzazione (enargeia) e attualizzazione (energeia).

Utilizzando un termine goetheano, Husserl chiama “stile” la capa- cità di cogliere quel flusso “oscillante” dell’apparire che è il mondo della vita; capacità che si traduce in rappresentazioni dotate di senso e tendenti all’unità. Come dimostra Elio Franzini, in quanto fenomeno originario lo stile diviene la matrice di un senso espressivo, il nucleo di possibilità che dà luogo alla varietà degli stili. In tal modo la pluralità delle forme non è mera frammentazione ma morfogenesi che, come voleva Goethe, ha nel simbolo, cioè nel “legame” tra le parti, nella ricerca della trama del mondo che tiene provvisoriamente insieme le cose che via via ci si presentano, il proprio fondamento di unità.

Il “sentore della presenza” diviene l’evento percettivo fondamentale su cui si costruisce la nuova estetica (Aisthetic), in quanto teoria genera- le della percezione, di Gernot Böhme. Come mette in evidenza il saggio di Salvatore Tedesco, esplicito è il richiamo all’operazione baumgarte- niana e non soltanto riguardo ai contenuti. Se l’interesse conoscitivo si orienta sulla manifestatività occorre concentrarsi su fenomeni intermedi, come l’atmosfera, che si situano al di qua della separazione di polo sog- gettivo e polo oggettivo. È soltanto a partire dai “problemi estetici” che diviene possibile una terminologia adeguata e un impianto concettuale.

In tal senso la retorica può fornire un modello di argomentazione della

teoria estetica nella misura in cui avviene l’articolazione del nesso delle

percezioni sensibili.

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11

Il rapporto fra poetica e retorica

di Emilio Mattioli

Il rapporto fra poetica e retorica ha subito negli ultimi tempi un riassetto e una modificazione. Impossibile tracciarne il quadro com- pleto, mi limiterò ad alcuni momenti problematici e, particolarmente, a due periodi: l’antichità e la contemporaneità. In realtà il problema storiografico si intreccia a quello teorico. In primo luogo va notato che la separazione fra poetica e retorica ha effetti rovinosi, è proprio nel rapporto fra le due discipline che se ne scoprono le radici profonde e le ragioni. È noto come la rinascita novecentesca della retorica, che pure è un fenomeno estremamente importante, sia avvenuta in maniera autonoma ed anzi il rapporto fra le due discipline sia stato considerato un’indebita confusione. Nella cultura italiana si è sentito presto il bi- sogno di ripensare il rapporto e di ricostituirlo, probabilmente anche perché la scuola neofenomenologica italiana aveva creato con il suo lavoro sulle poetiche il terreno adatto anche ad un approccio vitale alla retorica. Aveva scritto Luciano Anceschi, il maggior studioso di poetica del secolo scorso, nel 1957: «Quanto alla Retorica, poi, sem- bra davvero che non giovi indugiare nella nozione che ne ebbero e contro la quale polemicamente si posero, condannandola, i romantici e i realisti del secolo xix ; fu questa una interpretazione ovviamente unilaterale per motivi strumentali; invece, c’è da pensare che la Retori- ca sia una disposizione storicamente variabile che, volta a volta, vuole rilevare e significare in leggi, in norme, in avvertimenti le ragioni del rinnovamento letterario e artistico dei diversi tempi, movimenti»

1

. E non è evidentemente un caso che Renato Barilli, scolaro di Anceschi, abbia pubblicato un libro davvero originale come Poetica e Retorica

2

, in cui l’unità fra poetica e retorica era vista come unità fra sentire e pensare, come antidoto alla divisione delle due culture. Ma direi che su questa strada si sono fatti degli ulteriori passi avanti. Per questi recenti svolgimenti prenderò come testo di riferimento Jeffrey Walker, Rhetoric and Poetics in Antiquity

3

.

Walker smantella l’opinione vastamente diffusa, cui già accenna-

vamo, secondo la quale poetica e retorica sono due discipline incom-

patibili e sostanzialmente differenti che l’antichità ha indebitamente

confuse e cerca di dimostrare che è sbagliata l’idea secondo la quale

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12

la retorica è sorta come un’arte di pratica oratoria civile nelle corti di giustizia e nelle assemblee dell’antica Grecia, mentre la retorica epidit- tica, poetica o letteraria, sarebbe un’arte, puramente formale di secon- daria importanza. Altrettanto sbagliata, secondo Walker, l’idea secondo la quale il passaggio dall’oratoria civile a quella epidittica segna una decadenza. La separazione fra la retorica intesa come dottrina delle figure e la retorica dell’argomentazione e della persuasione si ritrova, con conseguenze negative, nella teoria letteraria moderna. La revisio- ne che Walker fa della storia della retorica nell’antichità comporta un’idea della retorica intesa come un’arte di argomentazione/persua- sione epidittica che deriva originariamente dalla tradizione poetica e che si estende ai discorsi pratici della vita pubblica e privata. Walker riconnette questa impostazione alla riabilitazione dei sofisti compiuta negli anni novanta (in Italia il grande lavoro di Untersteiner sui sofisti è cominciato molto prima) e alla revisione della nozione convenziona- le del discorso epidittico inteso come mero ornamento e limitato alla elencazione rituale delle credenze e dei valori tradizionali.

Inoltre questo discorso si fonda su di un esame dell’antica poesia, principalmente la lirica greca arcaica, intesa e praticata come un’argo- mentazione epidittica che si rivolge ad un uditorio. Walker costruisce quella che può essere chiamata una storia sofistica della retorica che include poesia e poetica come parti centrali del dominio retorico. Se- condo lo studioso la poetica grammaticalizzata della tarda antichità e del medioevo ha reso più difficile cogliere l’idea di retorica poetica che la lirica arcaica incorpora.

È lecito chiedersi quale fondamento filologico abbia questa impo- stazione così profondamente innovativa del rapporto fra poetica e re- torica e della storia della retorica stessa: l’argomentazione è ricchissima e non riassumibile, evidentemente, ma il presupposto primo e fondante sta nell’abbandono dell’idea anacronistica che la poesia antica e la lirica in particolare sia espressione di sentimenti soggettivi ed escluda la dimensione argomentativa. Particolarmente significativa in questo senso l’elaborazione del concetto di entimema lirico, inteso come l’ar- gomentare specifico della poesia. Da sottolineare ancora che il legame fra poesia e quindi poetica e retorica esiste già prima che la retorica assuma la sua denominazione tecnica

4

, a partire da Esiodo che nella Teogonia (vv. 81-104), ne dà, secondo Walker, la prima indicazione, parlando dell’eloquenza del re e di quella dell’aedo

5

. Il termine rhe- torikê, per altro non risulta univoco, «come denominazione equivoca o sineddoche per l’arte del logos in senso ampio o generale comprende implicitamente nel suo dominio tutte le forme del logos, incluso il logos poetico e il pensiero interno come anche tutte le varietà di “prosa”.

Così l’eloquenza persuasiva della “poesia” è contemporaneamente un

sottoinsieme dell’arte generale della “retorica” e il suo antenato. Inol-

tre in quanto quella epidittica è la forma “primaria” e centrale della

(14)

13

poesia, e in quanto la poesia è a sua volta la forma originaria e finale della forma epidittica (o come tale viene intesa), la poesia è anche la forma originaria e finale della retorica»

6

.

Walker sottolinea come le implicazioni di questa situazione si espli- citino nella tarda antichità e si capisce anche così come Elio Aristide possa affermare che la miglior poesia sia quella che si avvicina di più alla retorica

7

.

Walker non cita il poderoso lavoro di Laurent Pernot, La rhétori- que de l’éloge dans le monde gréco-romain

8

, ma è necessario tenerne conto, perché dà due apporti fondamentali che per altro si legano alle posizioni di Walker, non le contraddicono: interpreta in modo radical- mente innovativo il genere epidittico, mostra il legame profondo fra poesia e oratoria e quindi fra poetica e retorica. Farò due citazioni da questo testo che non si può in alcun modo ignorare, se si vuol parlare del genere epidittico con consapevolezza:

«L’analyse traditionelle de l’éloquence épidictique ne doit donc pas être totalement rejetée, puisqu’elle fait apparaître deux aspects im- portants, la dimension esthétique et la dimension rituelle. Mais cette analyse reste insuffisante, parce qu’elle ne tient pas compte du con- tenu des discours. Il est évident que l’art de l’enkômion ne peut être appréhendé indépendamment de tout message, et qu’un discours ne se réduit pas à l’accomplissement d’un cérémonial. Contrairement à la musique, le discours épidictique fait appel au sens. Contrairement au rite, il n’est pas entièrement codifié et déterminé à l’avance. Con- trairement à l’énoncé performatif, il ne se réduit pas à une formule stéréotypée; l’orateur ne se contente pas de dire “Je te loue”, mais il ajoute “parce que…”, et dans les considérants de l’éloge, s’engouffrent la signification et la persuasion. Il faut donc rompre avec la tradition du dédain. Pour comprendre l’éloquence épidictique antique, il faut refuser l’explication paresseuse de l’art pour l’art et identifier les buts et le effets des discours, plus clairement que les anciens n’ont su le faire»

9

. L’analisi dei valori veicolati dal discorso epidittico ne mostra la ricchezza di contenuti e Pernot può ben a ragione affermare che

«la fonction épidictique est un phénomène anthropologique qui se re- trouve – avec d’importantes variations, naturellement – dans beaucoup de sociétés humaines»

10

.

L’altra citazione essenziale per il mio discorso è questa: «Il est im- «Il est im-

possible d’étudier la rhétorique épidictique sans relever, à chaque éta-

pe, des rapprochements avec la tradition poétique, en particulier avec

la tradition de la poésie encomiastique. L’histoire du genre montre que

les orateurs ont progressivement pris en charge des formes héritées

des poètes. La tekhne trahit l’importance des précédents poétiques

dans le domaine de la typologie, avec la célébration plurielle et l’ex-

pression des sentiments et des passions, et dans le domaine du style,

avec l’esthétique de la douceur, l’asianisme, les tropes et les figures, les

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14

rythmes. Ce n’est pas tout, la tradition poétique faisant encore sentir son poids dans la terminologie de l’éloge, dans certains topoi, dans les procédés de composition, parfois dans les conditions de prononciation et dans les titres. En ce qui concerne l’exigence morale, Pindare déjà revendique la vérité de ses éloges. La mission de porte-parole a été assumée par des poètes; enfin, on vient de relever le thème, poétique par excellence de l’inspiration religieuse. Le bilan de ces rapproche- ment [...] s’avère donc extrêmement riche. Il établit, au-delà de toute contestation, l’existence d’une continuité entre la tradition poétique et l’éloquence épidictique»

11

.

Si può a questo punto ritornare a Walker e precisamente alla inter- pretazione che egli dà della I Olimpica di Pindaro. Bloom, che ritiene che la I Olimpica celebri il poeta e Pegaso e non Ierone e Ferenico, decontestualizza l’ode e ignora che cosa sia la poesia epidittica, dan- done una lettura romantica falsificante. L’epinicio non prescinde da vincitore e pubblico, poggia sui valori della società cui appartiene;

solo in questa prospettiva la poesia diventa comprensibile. Ecco un esempio fra molti altri: è nel rapporto fra poetica e retorica che si possono cogliere i valori della letteratura antica.

Ma sembra che ormai questa svolta sia in atto; Eugenio Amato lo testiomonia efficacemente in un resoconto

12

di un volume di Enrico Rebuffat dedicato alle Tecniche di composizione poetica negli Halieutica di Oppiano

13

; il punto di partenza di Eugenio Amato è proprio il supe- ramento della separazione che compie Walker fra retorica e poesia.

Se, dunque, per l’antichità la revisione storiografica è ormai operan- te e i due frutti più vistosi sono il riallineamento di poetica e retorica e la valorizzazione del genere epidittico, resta da esaminare come si ponga il rapporto fra poetica e retorica nel dibattito attuale.

Farò riferimento, per questo aspetto, ad Arnaud Bernadet, La rhéto-

rique en procès. Un point de vue critique: la poétique de Henri Meschon-

nic. Approches et perspectives

14

; scrive l’autore: «La poetica è una delle

maggiori proeccupazioni della retorica oggi»

15

. Occorre chiedersi come

mai. La rinascita della retorica che è un fenomeno vistoso del secolo

appena trascorso, è avvenuta, per lo più, senza rapportarsi alla poetica e

questo ha comportato delle conseguenze gravi, la più vistosa delle quali

è stata l’esasperazione formalistica evidente nell’idea che la retorica fosse

soltanto la dottrina delle figure da riprendere dalla tradizione o da riscri-

vere in termini semiotici come, per esempio, ha fatto il gruppo μ nella

Retorica generale. Le figure della comunicazione

16

. Certamente c’è stato

anche un ricupero diverso che ha privilegiato l’argomentazione, quello

di Perelman, che ha dato luogo ad una nuova retorica fondata, come è

noto, su basi logiche. Ma, mentre da una parte la crisi del formalismo

ha inevitabilmente travolto la retorica delle figure, dall’altra la nuova

retorica, la retorica dell’argomentazione, non poteva prestarsi ad un rap-

porto esauriente con la poetica. Vale la pena allora osservare, seguendo

(16)

15

Bernadet, come uno studioso della poetica del rango di Meschonnic sia giunto a porsi il problema della retorica. Meschonnic, per cui la poetica è lo studio del valore di un’opera, ritrova la retorica, liberando la poetica dall’ascendenza strutturalista. Secondo Bernadet il rinnovamento della retorica non deve aver luogo senza tener conto delle obiezioni critiche che la poetica le muove. Un primo punto è il rifiuto della teoria dello scarto, la separazione fra lingua poetica e lingua quotidiana è un non senso che comporta la separazione del linguaggio dalla vita. Ma non è per questa via che si afferma la specificità di un testo.

«Il taglio fra retorica e poetica non può che favorire un duplice ripiegamento autistico che ha per conseguenza il più spesso una for- malizzazione tecnica e descrittiva dell’oggetto letterario senza teoria del soggetto, della società, senza etica. [...] È l’annessione della poetica da parte della linguistica che ne fa una retorica neo-classica delle figure.

Ricollegando la retorica alla poetica, questa identificazione non è più possibile al contrario, e permette di delimitare il campo specifico di applicazione delle due discipline»

17

. «Poiché la retorica è “una delle strategie del segno, uno degli effetti del paradigma linguistico”

18

, un pensiero del discontinuo, c’è la possibilità effettivamente di includere la retorica nella poetica, di includere il discontinuo nel continuo, senza annullare la specificità di questa disciplina. Se questa trasformazione del retorico in poetico si manifesta principalmente nella scrittura let- teraria, essa è ugualmente presente nel discorso scientifico»

19

.

Questo si spiega non dimenticando «che una dimostrazione è anche la scrittura di una dimostrazione; che la scienza è anche una retorica, perché essa non mira solo a dimostrare e a provare, ma a persuadere della prova e della dimostrazione»

20

. E così «la specificità poetica e re- torica del discorso vero è la leva attraverso la quale è possibile e anche legittimo mettere in discussione la validità delle verità prodotte dalle scienze»

21

. «È diventando poetici che la figura, l’analogia, il ragiona- mento diventano pensiero. Si manifesta così una forte correlazione tra il valore di un pensiero e il valore del discorso di questo pensiero, cioè un discorso e un pensiero portati al valore»

22

.

Di straordinaria importanza è il discorso relativo al rapporto fra poesia e figure. «La modernità della figura è la scomparsa della figura.

Integrata al sistema della poesia, essa non appartiene più allo stile ma

diventa un linguaggio soggettivo in quanto esso è “la storicità delle

trasformazioni del vedere, del pensare, del sentire, del comprende-

re”

23

, tutte categorie di coscienza trasformate in categorie etiche. La

defigurazione della forma retorica non è un’antiretorica ma consacra

il transfert dal retorico al poetico di cui l’antiretorica non costituisce

che un caso particolare. La figura di una poesia è poetica soltanto

se mette in risalto l’attività soggettiva di questa poesia. [...] Il valore

sistematico di una figura dipende dal suo carattere unico, essa non ha

valore – questo valore qui – che in questa poesia qui»

24

.

(17)

16

In conclusione a me preme sottolineare che soltanto in una rinno- vata prospettiva del rapporto fra poetica e retorica, sia a livello sto- riografico che teorico, questi studi possono ritrovare un senso e uno slancio.

1

L. Anceschi, Barocco e Novecento, Milano, Rusconi, 1960, p. 231; già in “Aut Aut”, n. 30 (1957).

2

R. Barilli, Poetica e Retorica, Milano, Mursia; 1969, n, ed. 1984.

3

J. Walker, Rhetoric and Poetics in Antiquity, New Jork,Oxford University Press, 2000.

4

La rhétorique avant la rhétorique per usare l’espressione di Laurent Pernot sul quale ci soffermeremo fra poco.

5

Già prima di Walker, Friedrich Solmsen aveva segnalato che Esiodo considera la retorica come sorella della poesia e che questa concezione non era rimasta senza eco, ma Walker non cita il contributo di Solmsen The ‘Gift’ of Speech in Homer and Hesiod, in Kleine Schriften, Hildesheim, 1968, pp. 1-15, ben presente invece a Giovanni Lombardo in Il genio del cantore Poetica e Retorica nella supplica di Femio (Hom.,Od., XXII 344- 353), “Helikon”,

xxxv

-

xxxviii

, 1995-98, pp. 3-54, in cui l’autore dimostra che Femio dà un bell’esempio dell’arcaica sorellanza fra poetica e retorica: Femio il professionista della poetica si rivolge a Odisseo, il professionista della retorica.

6

J. Walker,cit., p. 41, trad. nostra.

7

Contra Platonem, 427-428.

8

L. Pernot, t.

i

, Histoire et technique, t.

ii

Les valeurs, Paris, Institut d’études augustiniennes, 1993.

9

L. Pernot, cit., pp. 660-61.

10

Ivi, p. 796.

11

Ivi, pp. 635-36.

12

http//www.plekos.uni-muenchen.de./2003/rrebuffat.html.

13

E. Rebuffat, Tecniche di composizione poetica negli Halieutica di Oppiano, Firenze, Olschki, 2001.

14

www.hatt. nom. fr/rhetorique/art 12c.htm.

15

A. Bernadet, cit., p. 42.

16

Gruppo μ, Retorica generale. Le figure della comunicazione, Milano, Bompiani, 1976.

17

A. Bernadet, cit. p. 22.

18

H. Meschonnic, Politique du rythme Politique du sujet, Lagrasse, Verdier, 1995, p. 384.

19

A. Bernadet, cit., p. 27.

20

Ibid., rimaneggiato.

21

Ivi, p. 29. Ivi, p. 29. , p. 29.

22

Ivi, p. 30. Ivi, p. 30. , p. 30.

23

H. Meschonnic, cit., p. 551.

24

A. Bernadet, cit., pp. 35-36.

(18)

1

Dire l’esperienza: alle origini della letteratura

di Giovanni Lombardo

In questo mio intervento, vorrei affrontare il tema del nostro incon- tro, “Dire l’esperienza”, dal punto di vista dei piú remoti inizî della letteratura: quelli che ci vengono attestati dall’epos omerico. Infatti le prime testimonianze relative a un’esperienza estetica (intendendo qui per “esperienza estetica” l’esecuzione di un testo poetico e la sua simultanea ricezione da parte di un pubblico) ci vengono proprio dalla prassi dei piú antichi cantastorie: gli aedi omerici. Nell’epos arcaico,

“dire l’esperienza” significa anzitutto “raccontare una storia”. L’espres- sione “raccontare una storia” può essere riferita alla realtà o all’inven- zione. Raccontano storie coloro che espongono eventi realmente acca- duti, ma raccontano storie anche coloro che espongono eventi possibili o addirittura fantastici. Vedremo appunto che l’alternativa tra verità e finzione (destinata a diventare un motivo ricorrente nella plurisecolare vicenda dell’estetica letteraria) è già chiara a Omero, quando al canto veritiero dei cantori contrappone il canto menzognero delle Sirene.

Ma il bisogno di oggettività precede l’inclinazione fantastica e investe

il senso primevo dell’attitudine a raccontare una storia. Che significa,

infatti, originariamente, “raccontare una storia”? La risposta al nostro

quesito è ancora custodita dall’etimo dei termini che, in italiano, de-

finiscono questa attività. L’espressione “raccontare una storia” consta

di una parola discesa dal latino (raccontare) e di una parola discesa

dal greco (storia). Cominciamo a interrogare la parola di derivazione

latina. Il verbo raccontare è un composto del verbo contare e indica

propriamente, attraverso il prefisso iterativo ri-, il ripetersi di un proce-

dimento di calcolo applicato agli eventi, in modo che la loro verbaliz-

zazione proceda secondo un certo ordine. Questa esigenza di ordine si

deve al verbo latino da cui l’italiano contare deriva: il verbo computare,

composto tardo del verbo putare, che significa propriamente “pulire”,

con riferimento alla mondatura degli alberi, e quindi “sfrondare” o,

per l’appunto, “potare”. L’accezione materiale del mettere ordine nel

fogliame di una pianta o di un albero genera l’accezione traslata del

mettere ordine nei pensieri e nelle parole ovvero il significato di “cal-

colare”, “fare il conto” o, più in generale, “giudicare”. Spiega Varrone

nel de lingua latina (6.63):

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1

putare valet purum facere [...] ideo putator, quod arbores puras facit. Ideo ratio putari dicitur, in qua summa fit pura: sic is sermo in quo pure disponuntur verba, ne sit confusus atque ut diluceat, dicitur disputare.

putare significa rendere pulito [...] perciò si dice “potatore”: perché rende puliti gli alberi. Perciò si dice anche che “risulta potato [pulito]” quel calcolo in cui si ottiene una conclusione netta. Così quel discorso in cui le parole vengono disposte in maniera pulita, in modo che riesca non già confuso ma chiaro, si dice disputare.

(Lascio – tra parentesi – agli esperti di informatica il piacere di constatare come l’urgenza ordinatrice del verbo putare e dei suoi com- posti sia ancora evidente nel piú famoso fra i discendenti moderni del verbo computare: il termine computer).

La stessa alternanza fra un senso materiale e un senso intellettua- le, propria del verbo latino putare, si ritrova nel verbo greco legein, da cui deriva il termine logos, uno dei vocaboli greci per indicare il

“racconto”. Il verbo legein discende da una radice ie. leg- indicante l’atto del “raccogliere” e attiva anche nel latino legere. E appunto il verbo legein significa anzitutto “raccogliere”, sia nel senso di unificare cose inizialmente disperse, sia nel senso di individuare, in un insieme disparato, gli oggetti appartenenti a una determinata classe, separan- doli dagli oggetti appartenenti a una classe diversa. Nei due casi, è evidente un bisogno di ordine che genera, per traslato, il significato, poi piú diffuso, di “dire”, “parlare” – ovvero un significato in cui gli oggetti non sono piú raccolti e ordinati materialmente, ma sono uni- ficati attraverso un enunciato verbale, nella rappresentazione di colui che parla. Questo enunciato può avere anche la forma di un discorso interno e cioè di un logos nel senso di un “pensiero”. (La radice leg- si ritrova, come ho accennato, anche nel verbo latino legere col significa- to iniziale di “raccogliere”, “scegliere”, e con il significato traslato di

“leggere”, disceso probabilmente dalla locuzione legere oculis, “racco- gliere, trascegliere con gli occhi [le lettere dell’alfabeto]”). Il racconto si configura dunque originariamente nella forma di un “calcolo”, di un’operazione intesa a mettere ordine. Ed è certo significativo che, in Omero, la comunicazione linguistica, considerata dal punto di vista del chiedere e del dare informazioni, sia espressa da un composto del verbo legein: il verbo katalegein, che vale propriamente “enumerare”

(donde il termine katalogos che è appunto una “enumerazione”): ka- talegein un oggetto, una situazione, un evento significa per l’appunto fornirne un rendiconto verbale affidabile e dettagliato.

Veniamo ora al secondo termine della nostra formula “raccontare

una storia”: il termine storia. Questo termine risale, attraverso il latino

historia, al greco historíe, in cui si riconosce la radice ie. *wid-, indican-

te l’atto del vedere e riscontrabile, per es., nei termini greci oîda, “io

so”, ideîn, “vedere”, idéa, “forma visibile”, eîdos, “specie visibile”, ei-

dolon, “immagine”, e nel latino video. Rientrando nel campo semantico

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1

del verbo oîda, “io so in quanto ho visto”, la historie, è propriamente l’inchiesta, l’indagine compiuta attraverso l’osservazione diretta delle fonti. Nel v sec. a. C., accingendosi a raccontare le guerre della Grecia contro la Persia, Erodoto (ca. 484-425 a.C.) – il grande logógraphos, cioè il grande “scrittore di racconti”, che viene spesso salutato come il padre della storiografia e talvolta anche come il padre dell’etnogra- fia – dichiara di concepire il suo lavoro come una histories apódexis, ovvero come l’esposizione di ciò che egli ha visto, come il racconto di un’indagine condotta con la curiosità del viaggiatore infaticabile che, nello spirito della scienza ionica, ricerca le cause degli eventi serven- dosi, per quanto è possibile, di una verifica personale delle fonti.

La nostra rapida analisi etimologica ci dimostra dunque che, in prin- cipio, “raccontare una storia” non significa altro che “dire l’esperienza”

ovvero imporre un ordine verbale a una serie di cose e di eventi che il narratore ha visto con i proprî occhi. Questa dimensione autoptica del racconto si ritrova appunto nella poetica degli antichi aedi, coí come ci permettono di ricostruirla i dati estraibili dai poemi di Omero. Nel- l’Odissea ci viene presentata l’esibizione di due cantori: Femio, che canta davanti ai proci, i pretendenti di Penelope, a Itaca; e Demodoco, che canta davanti ai Feaci, alla corte del re Alcinoo. Assistito dalla Musa (simbolo della memoria sociale e garanzia, insieme, della discendenza sovrannaturale e dell’attendibilità del canto), il cantore celebra le imprese degli uomini e degli dèi in modo da perpetuarne il kléos, cioè la «fama», la «gloria» (anzitutto nel significato del “sentore”: il termine kléos ri- manda al verbo klyein, “ascoltare”). Queste imprese possono riferirsi ai miti tradizionali: per esempio, gli Amori di Ares e Afrodite (oggetto del secondo dei tre canti di Demodoco); o possono prendere la forma di una aoidè neotáte, cioè di un «canto novissimo», suggerito dalle vicende della storia contemporanea: per esempio, i fatti della guerra troiana (Troiká) o i ritorni (nóstoi) degli eroi greci da Ilio. Temi di grande attualità, che avvincono straordinariamente l’attenzione degli astanti inducendoli in uno stato di térpsis (cioè di «diletto») e di thélxis (cioè di «fascinazione»).

Non sempre però l’ascolto aedico genera la spensieratezza dell’in- trattenimento aproblematico e fascinatorio. Se i proci godono quando Femio rievoca il luttuoso rimpatrio degli eroi, Penelope è straziata da quel canto (che le ricorda l’incerto destino del consorte ancora lontano) e invita perciò l’aedo a intonare un’altra storia. Se i Feaci si compiac- ciono quando Demodoco ricorda i fatti di Troia, Ulisse prorompe in singhiozzi all’udire quelle storie che lo coinvolgono in prima persona.

Ignorando che il naufrago ospitato alla corte di Alcinoo è il famoso re

di Itaca, Demodoco rievoca un episodio della guerra troiana che vede

Achille a diverbio con lo stesso Ulisse. Ma Ulisse, benché turbato da

questo racconto, loda l’aedo e lo invita a cantare un altro episodio

troiano di cui egli stesso è stato protagonista: lo stratagemma del cavallo

ligneo. Leggiamo i versi di Omero (Od. 8.487-98):

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20

Demodoco, al di sopra di tutti i mortali io ti lodo:

ti ha addestrato la Musa, figlia di Zeus, oppure Apollo, perché davvero secondo un bell’ordine tu canti il destino degli Achei:

quanto fecero, quanto subirono, quanto gli Achei soffrirono.

Come se tu stesso fossi stato presente o lo avessi sentito da altri che furono lí.

Ma suvvia, cambia argomento e canta l’allestimento [il kosmos]

del cavallo di legno, che Epeo fabbricò con Atena:

l’inganno che un giorno Ulisse condusse sull’acropoli, avendolo riempito dei guerrieri che distrussero Ilio.

E se anche queste cose come si deve racconterai, io certamente dirò a tutti gli uomini

che un dio propizio ti ha concesso il canto divino.

A giudizio di Ulisse, il canto di Demodoco è bello, dilettevole e affascinante perché risponde a un criterio di appropriatezza insieme formale e morale: esso è infatti costruito nel rispetto di un kósmos e di una moîra, cioè secondo un “bell’ordine” compositivo e secondo una pertinente “destinazione” contenutistica e pragmatica. Ulisse si compiace che l’ordine verbale del racconto aderisca all’ordine reale degli eventi ed elogia l’aedo per la maestria con cui riferisce certi fatti

“come se” egli stesso ne fosse stato testimone oculare o “come se” ne avesse avuto notizia da un testimone oculare. La prospettiva del “come se” rinvia alle tecniche della mimesis e presuppone che la realtà e la narrazione non siano perfettamente isomorfe e sovrapponibili: anche ai livelli più elementari, rappresentare la realtà con un racconto equivale già a interpretarla, a filtrarla attraverso un meccanismo selettivo che sappia estrarne gli elementi significativi per ricomporli in un nuovo ordine mimetico. Perciò il “come se” implica anche che la realtà possa essere rappresentata o per quello che essa è oppure per quello che essa potrebbe essere. Implica cioè la differenza tra il vero e il verosimile e dunque la possibilità dell’illusionismo poetico. Esaminiamo brevemente i due aspetti di questa differenza.

Nel caso di una poetica del vero, “dire l’esperienza” ovverosia “rac-

contare una storia” risponde a quel bisogno di verifica diretta che ab-

biamo poc’anzi estratto dalla nostra analisi etimologica. Tra il pubblico

di Demodoco, nessuno quanto l’ideatore dell’astuzia del cavallo sarà

in grado di verificare se sia stato fornito un racconto fedele. Questa

precisione autoptica è peraltro il segno di una specialissima assistenza

sovrannaturale: le Muse o addirittura Apollo sono garanti dell’attendi-

bilità di un aedo che sappia intonare una aoidè neotáte, un «canto d’at-

tualità», perché i soggetti tratti dalla storia contemporanea richiedono

un impegno poetico molto strenuo. Tant’è vero che l’Iliade e l’Odissea,

esempî supremi di canti ispirati dall’attualità, si aprono invocando il

soccorso della Musa nell’ardua esposizione di alcune importanti vi-

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cende della storia nazionale (non è diversa la funzione della preghiera alle Muse nell’iliadico proemio del Catalogo delle navi). Ispirato da un’energia divina, il cantore rafforza i poteri immaginifici della sua arte e coinvolge immediatamente l’uditorio negli eventi evocati dal canto, mettendoli sotto gli occhi mentali dei suoi ascoltatori attraverso quei procedimenti stilistici che poi i trattati di retorica registreranno fra le tecniche di visualizzazione proprie dell’enárgeia, cioè dell’evidenza realistica ovvero della subiectio sub oculos. Tecniche che implicano, per cosí dire, la capacità di “far vedere con le orecchie”: perché, proprio mentre colgono con l’orecchio la magica affinità tra il corso delle pa- role e il corso delle cose, gli ascoltatori provano le medesime emozioni che proverebbero se gli avvenimenti raccontati si svolgessero realmente davanti ai loro occhi.

Sennonché, mettere un evento sotto gli occhi dell’ascoltatore significa trasportare l’ascoltatore nel passato in cui quel certo evento è accaduto oppure trasportare l’evento nel presente in cui esso viene evocato per l’ascoltatore. A detta di Ulisse, il cantore è bravo perché racconta i fatti di Troia “come se” egli stesso ne fosse stato testimone diretto (cioè

“come se” egli stesso si fosse avvicinato a quei fatti) o “come se” li aves-

se appresi da qualcuno che ne sia stato testimone diretto (cioè “come

se” i fatti si fossero avvicinati al cantore). Nel primo caso, gli occhi del-

l’ascoltatore vanno verso l’evento, nel secondo caso l’evento viene sotto

gli occhi dell’ascoltatore. Alcuni studî recenti hanno tentato di spiegare

come queste due possibilità di visualizzazione mentale dipendano dal-

l’aspetto dei tempi verbali piú frequenti nella narrazione – l’imperfetto

e l’aoristo – e hanno ricollegato l’uso dell’imperfetto all’oggettività del

racconto storiografico, l’uso dell’aoristo alla soggettività del racconto

poetico (cfr. E. J. Bakker, Pointing to the Past. From Formula to Perform- From Formula to Perform-

ance in Homeric Poetics, Cambridge, Ma., 2005). Considerati in rapporto Considerati in rapporto

alla categoria morfologica dell’aspetto (cioè in rapporto alla categoria

afferente all’eîdos di un’azione ovvero al modo in cui essa viene per l’ap-

punto vista attraverso il linguaggio), l’imperfetto e l’aoristo definiscono

la durata o la momentaneità di un certo fatto. L’aspetto durativo del-

l’imperfetto implica che l’azione sia vista “come se” si stesse svolgendo

in un passato più esteso del testo che la descrive e che può ritagliarne

solo la fase registrata da un testimone: qui la visione dei fatti dà luogo

al loro racconto. L’aspetto momentaneo dell’aoristo implica invece che

l’azione sia vista “come se” accadesse in una dimensione assoluta, in

un tempo indefinito (o per l’appunto aóristos, «indeterminato»), che

può anche essere il tempo passato, ma senza alcuna precisazione rela-

tiva alla durata e all’origine (recente o remota) dell’azione stessa: qui il

racconto dei fatti dà luogo alla loro visione e l’azione tende ogni volta

a riattualizzarsi e a coestendersi nel testo che la descrive. Così, quando

prevale l’imperfetto, il presente si immerge nel passato; quando invece

prevale l’aoristo, il passato riemerge al presente.

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Che, anche a prescindere dall’uso di questi due tempi verbali, la subiectio sub oculos possa realizzarsi secondo questa doppia modalità è indubbio; ma l’ipotesi che su questa base il linguaggio dello storico venga poi a distinguersi dal linguaggio del poeta non sempre trova sicu- re conferme nella precettistica antica in tema di visualizzazione mentale.

Vero è che, per esempio, Aristotele, attribuendo alla poesia, protesa all’universale, un valore più filosofico della storia, legata al particolare, sembra riproporre la differenza tra la dimensione assoluta del discorso poetico e la dimensione relativa del discorso storico; ma è anche vero che i precetti aristotelici sull’atto del pro ommáton tithesthai, cioè del

“mettere sotto gli occhi”, riconoscono alla poesia entrambe le possi- bilità di visualizzazione. Nella Poetica, Aristotele vuole che il dram- maturgo, accingendosi a comporre il suo testo, provi a prefigurarsene gli effetti scenici ed emotivi (Aristot. Poet. 17.1-2, 1455a 22-33). Una mimesis che intenda infatti catturare gli spettatori alla vicenda messa in scena esige che il poeta sappia dosare la carica immaginifica delle sue parole, saggiando anzitutto su sé stesso la tecnica dell’enárgeia.

Conferendo allo stile una grande forza icastica, questa tecnica permette di “dire l’esperienza” in modo che l’ascoltatore colga con l’occhio della mente quanto viene descritto. Prima che il linguaggio poetico, l’atto del pro ommáton tithesthai definisce però, piú in generale, il processo psicologico definito per solito phantasía. Correlato al verbo phainesthai,

“apparire”, il termine phantasía indica l’«immaginazione»: non già, ov- viamente, nel significato moderno dell’intuito creativo del genio, ma nel significato antico di una facoltà rappresentativa dipendente dalle sensa- zioni. Più precisamente, la phantasía è una sorta di movimento attivato nell’anima dalla percezione (aisthesis) in modo da generarvi un flusso di phantásmata, di “apparizioni” ovverosia una serie di precise – ancorché immateriali – «immagini» delle cose percepite (aisthémata). Queste im- magini permettono alla mente di pensare e non v’è àmbito conoscitivo che possa farne a meno. Il movimento della phantasía – spiega Aristote- le – può essere volontario o involontario (Aristot. de an. 327b 17-20; de insomn. 460b 9-19). Facciamo un uso attivo e deliberato della phantasía quando, per es., richiamiamo alla memoria un’immagine passata; ne facciamo invece un uso passivo e non calcolato quando – per esempio nei sogni o nei delirî della febbre – la nostra mente è abitata da visioni che possono facilmente ingannarci. Nel primo caso, noi andiamo verso un’immagine passata (secondo lo schema che, per comodità, possiamo chiamare imperfettivo, anche se in Aristotele non c’è alcun riferimento all’uso dei tempi verbali); nel secondo caso, un’immagine, per così dire,

“si attualizza”, venendo verso di noi (secondo lo schema che possiamo chiamare aoristico).

Per prelibare mentalmente gli effetti d’una scena in corso di com-

posizione, anche il poeta deve ricorrere alla sua facoltà immaginati-

va: e può farlo volutamente, attivando gli strumenti del suo ingegno,

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23

oppure spontaneamente, secondando le spinte della sua ispirazione.

L’alternativa tra un uso cosciente e governabile e un uso spontaneo e irriflesso della phantasía viene infatti illustrata mediante i due più tradizionali modelli del poeta in quanto personalità “creativa”: il mo- dello del poeta euphyés cioè del poeta che trae le sue doti dal talento naturale, e il modello del poeta manikós, cioè del poeta che deve il suo canto a una sorta di divina follia (di manía). Il poeta di talento è detto euplastos, “duttile”, perché sa piegare le sue facoltà alle esigenze della composizione; il poeta ispirato è detto ekstatikós, “fuori di sé”, perché – secondo la vecchia equazione tra la poesia e l’enthousiasmós – compone come posseduto da un dio. La differenza tra questi due tipi creativi emerge quando i poeti devono, appunto con il soccorso della phantasía, sperimentare su sé stessi le emozioni che la loro parola, con- fortata dal gesto scenico, accenderà negli spettatori: se il sobrio poeta euphyés ricorre alla facoltà immaginativa per fingersi (come capita nei processi della memoria) un certo stato emotivo, l’ebro poeta manikós abita già in uno stato emotivo tale da nutrire (come avviene nei sogni o nelle allucinazioni) la facoltà immaginativa. Ritorna anche qui la doppia modalità di visualizzazione che già conosciamo: o la mente dell’euphyés va verso l’immagine (secondo lo schema imperfettivo) oppure l’imma- gine viene verso la mente del manikós (secondo lo schema aoristico).

In entrambi i casi, abbiamo però da fare con l’attività poetica, non già con l’attività storiografica. E in entrambi i casi (ma soprattutto nel caso del poeta manikós) la phantasía è collegata al pathos, all’emozione.

Questo collegamento è proposto da Aristotele anche nella Retorica, dove anzi i processi di visualizzazione sembrano piuttosto privilegiare la modalità aoristica. Occupandosi delle strategie discorsive adatte ad accendere le passioni dell’uditorio, Aristotele tratta della paura (phobos) e della pietà (eleos), cioè dei pathe proprî dell’esperienza tragica (Rhet.

2.5.1, 1382a 21-22, 2.8.3, 1385b 13-16). Chi voglia muovere gli ascol- tatori alla paura o alla pietà deve attivarne la phantasía, in modo che essi possano fingersi una sventura (kakón) imminente e, sentendosene atterriti o commossi, possano poi vivere l’esperienza della catarsi. Gli oratori capaci di una recitazione tale da accompagnare, con un’acconcia gestualità, le nervature emotive del linguaggio, «fanno apparire (phaine- sthai) vicino il male», dice Aristotele, «mettendolo sotto gli occhi (pro ommáton poioûntes) dell’ascoltatore»: un pathos che si mostri davanti agli occhi (en ophthalmoîs phainómenon) è infatti condiviso più pronta- mente (Rhet. 2.8.14-15, 1386a 33-34, 1386b 8). E qui appunto sembra prevalere la modalità di visualizzazione aoristica: l’immagine si appros- sima agli occhi della mente e provoca una forte risposta emotiva.

Un altro antico trattatista che contempla la doppia modalità della visualizzazione mentale nell’àmbito della poesia è Longino. Nel cap.

15 del Perì hypsous, egli si occupa della phantasía (detta anche eido-

lopoiía, “fabbricazione di immagini”) e la definisce «un pensiero che,

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24

comunque si presenti alla mente, genera un discorso» (phantasía pân to hoposoûn ennóema gennetikòn logou paristámenon). Ma distingue l’enárgeia, l’“evidenza realistica”, tipica della fantasia oratoria, più le- gata all’oggettività e alla verisimiglianza, dall’ekplexis, l’urto emotivo, proprio della fantasia poetica, più libera e più proclive al meraviglioso.

Questa distinzione sembrerebbe riproporci la differenza tra la visua- lizzazione durativa o storiografica (nella quale la nostra vista mentale si avvicina ai fatti) e la visualizzazione momentanea o appunto poetica (nella quale i fatti si avvicinino alla nostra vista mentale). Sennonché Longino adduce come esempio di fantasia poetica un passo dell’Ore- ste di Euripide (vv. 255-57) in cui il protagonista, ossesso dalle Furie anguicrinite, invoca la madre perché lo liberi dalla morsa delle sue persecutrici:

Madre, t’imploro, non aizzare contro di me quelle giovani con gli occhi di sangue, serpentiformi:

sono loro, sono loro: e mi saltano intorno.

«Qui – spiega Longino – il poeta stesso ha visto le Erinni e ha qua- si costretto anche i suoi ascoltatori a guardare ciò che la sua fantasia gli ha raffigurato». Nel comporre la scena, Euripide visualizza dun- que mentalmente l’angoscia di Oreste, trasferendosi nell’antico mito e identificandosi con il suo personaggio. Ma quando Longino afferma che cosí anche gli ascoltatori di Euripide sono portati a guardare (a theásasthai) ciò che il poeta ha immaginato, pensa alla lettura del testo, piuttosto che alla sua messa in scena: è chiaro infatti che in teatro questa situazione viene fruita anzitutto come spettacolo per l’occhio della vista. Quando Euripide e, con lui, i suoi lettori s’immedesimano nello stato d’animo del personaggio, si verifica una subiectio sub oculos di tipo imperfettivo, che disloca l’ascoltatore dal piano del suo “qui e ora” al piano del “lí e allora”, proprio dell’evento visualizzato; quan- do invece gli spettatori, a teatro, fruiscono del testo attraverso la sua concreta rappresentazione, si verifica una subiectio sub oculos di tipo aoristico, che disloca l’evento visualizzato dal suo “lí e allora” al “qui e ora” della messa in scena.

Torniamo a Omero e agli elogi di Ulisse a Demodoco. Esponendo

i fatti “come se” vi avesse preso parte, il cantore si dimostra abile a

governare quelle tecniche della verosimiglianza che potrebbero ingan-

nare gli ascoltatori impossibilitati a controllare l’effettiva attendibilità

di un racconto. Siamo cosí giunti al secondo aspetto dell’alternativa tra

verità e finzione entro cui, come abbiamo preavvisato, si dibattono le

antiche tecniche per dire l’esperienza. A questo punto, infatti, la nostra

formula “raccontare una storia” si allontana dal significato etimologico

che la vincolava al rendiconto autoptico delle cose e si avvicina a uno

dei significati che, ancora oggi, il linguaggio comune le affida allorché

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dice “raccontare storie” per intendere “raccontare favole” o addirittura

“raccontare fandonie” (per cui, quando abbiamo l’impressione che il nostro interlocutore voglia raggirarci, lo invitiamo a non “raccontarci storie”). Avendo partecipato all’impresa troiana, Ulisse può attestare che Demodoco è un cantore fededegno. Ma ove ai fruitori non sia dato di controllarne la corrispondenza al vero, un prodotto mimeti- co trae efficacia fascinatoria da quella che, in termini aristotelici, si definisce la sua apergasía, cioè la sua “lavorazione” in quanto kosmos capace di rispecchiare, con i fatti reali, anche i fatti possibili: e dunque in quanto kosmos capace di mentire. Tale sarà, secondo Parmenide, il kosmos epéon apatelós, l’«ingannevole universo verbale» della doxa, dell’«opinione», che, allestendo una seduzione illusionistica pronta a distrarre i mortali dalla via verso la alétheia, verso la «verità», impone al filosofo di riconsiderare con un piú vigile rigore teoretico la tensione tra un impiego attendibile e un impiego malfido del linguaggio, così che i suoi uditori non si lascino irretire dalle finzioni di chi tramuta la realtà nelle sue immagini fallaci.

L’estremizzazione leggendaria degli effetti illusorî del canto dà luogo ai miti della seduzione musicale: per esempio, il mito di Orfeo, il canto- re che con la sua voce piega le fiere, le selve e le rocce. O il mito delle Sirene che, nell’Odissea, attirano i naviganti con una melodia irresistibi- le e fatale. Esse tentano anche Ulisse, promettendogli il piacere assoluto e, insieme, il sapere assoluto. L’integrazione di piacere e di sapere è il postulato fondamentale della poetica autoptica: la poesia non può ga- rantire alcun godimento vero se non si prefigge di raccontare fatti veri.

Ma le Sirene smentiscono questo postulato nell’atto stesso in cui sem- brano confermarlo: giacché alla dolcezza delle loro voci non s’accoppia l’autenticità delle loro affermazioni. Ai naviganti esse offrono scienza e ritorno in patria: di fatto – come diceva Marziale (3.64) – esse non dànno che un crudele gaudium e una blanda mors, una «gioia crudele»

e una «morte carezzevole». La sola “verità” del loro canto ammaliante sta appunto nel piacere dell’ascolto, nella lusinga fisica di un orecchio tutto atteso a una melodia bellissima e inesorabile.

L’intuizione omerica dell’autonomia formale della poesia e dei suoi

poteri illusionistici anticipa una problematica che verrà poi sviluppata

nella retorica dei Sofisti e soprattutto di Gorgia. E appunto in àmbito

retorico la nozione di kosmos si affermerà con il significato decisa-

mente estetico di ornatus, “abbellimento stilistico”. Ma con i Sofisti

ci troviamo ormai in una fase avanzata della storia letteraria. Una fase

in cui la problematica relativa ai modi di “dire l’esperienza” porta a

maturazione quell’alternativa tra una poetica della pura invenzione e

una poetica del racconto attendibile che, come ho cercato di suggerire,

trova le sue radici, già alle origini della letteratura, nell’arte omerica

di raccontare una storia.

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(28)

2

Rappresentazione pittorica e rappresentazione poetica in Tommaso d’Aquino

di Fabrizio Amerini

Parlare di “estetica medievale” non è facile oltre che storiogra- ficamente discutibile

1

. Come è stato sottolineato da più studiosi, il principale motivo di difficoltà e di perplessità storiografica risiede nel fatto che durante il Medioevo i canali di accesso e di trattazione delle questioni che oggi noi consideriamo di pertinenza dell’estetica sono stati molteplici e hanno preso forme differenti a seconda del tempo e del luogo in cui vengono studiati. In generale, le riflessioni di estetica che possono essere rintracciate in epoca medievale devono essere ri- cavate da contesti spuri. Nel Medioevo problemi di estetica non sono stati esplicitamente riconosciuti e tematizzati, non essendoci stata una disciplina di studio autonoma qualificabile come estetica né qualcosa di pur lontanamente assimilabile all’estetica come dal Settecento ad oggi viene intesa. Per di più, raramente s’incontrano in epoca medievale osservazioni su che cosa sia una teoria artistica o su quali condizioni debba soddisfare una teoria per essere considerata una teoria estetica.

Le riflessioni sono tutte, per così dire, pre-teoriche e riguardano in-

tuizioni differenti su che cosa sia il bello e su quali rapporti debbano

intercorrere tra la bellezza e la sua rappresentazione artistica. In epoca

medievale, cioè, ci s’imbatte di frequente in forme di estetica descrit-

tiva, saltuariamente in esempi di estetica normativa, piuttosto sporadi-

camente in considerazioni meta-estetiche. Neppure un’attenzione pri-

vilegiata viene rivolta all’estetica come ricerca sulle condizioni del pia-

cere o della contemplazione estetica, nonostante che la sensibilità nei

confronti del bello e il tema del diletto giochino un ruolo importante

nelle meditazioni estetiche dei maestri medievali

2

. L’attenzione sembra

essere tutta rivolta al rapporto che si può instaurare tra esperienza,

artista e opera d’arte. Quale esperienza, tuttavia, un’opera d’arte deve

intercettare ed esprimere, per un filosofo medievale? È evidente che

a seconda che si scelga di privilegiare il rapporto tra l’opera d’arte e

il soggetto o tra l’opera d’arte e l’oggetto, scaturiscono due immagini

dell’estetica molto differenti. Seppur in modo non troppo esplicito, i

maestri medievali hanno esplorato entrambe queste connessioni. In

ciò che segue mi limiterò a mettere in risalto alcuni punti di queste

esplorazioni che considero rilevanti per una ricostruzione filosofica del-

(29)

2

l’estetica nel Medioevo, concentrando l’attenzione soprattutto sul basso Medioevo e, più in particolare, su Tommaso d’Aquino

3

.

In generale, è stato notato che i filosofi medievali sviluppano ri- flessioni di estetica prevalentemente all’interno di una più generale riflessione sulla bellezza e sul bello (pulchrum). Tale inclusione spiega le difficoltà che l’estetica ha incontrato nel corso del tempo per gua- dagnare la propria autonomia rispetto ad altre discipline. Il legame tra estetica e teoria del bello fa emergere infatti i debiti che la cosiddetta

“estetica medievale” ha avuto nei confronti di altri campi del sapere, come l’etica (per i rapporti tra bello e bene), la teologia (per i rapporti tra bello creaturale e bellezza divina), la metafisica (per la connessione tra bello, essere e vero), l’ottica (per i rapporti tra bello, colore e fe- nomeno della luce), le scienze del quadrivio in genere (per i rapporti tra bellezza e proporzionalità numerica e geometrica).

Il concetto di bello viene connesso dai filosofi medievali, in modo piuttosto condiviso, a quello di ordine (ordo) e quest’ultimo è la chiave che consente loro di proporre una fondazione teologica e scritturale, quindi oggettiva, del bello, dal momento che l’ordine è uno degli at- tributi che Dio ha impresso al mondo all’atto della creazione. Come spiega esemplarmente Bonaventura nel suo Itinerarium mentis in Deum (1259), riassumendo una lunga tradizione interpretativa, specialmente di ascendenza agostiniana, Dio ha creato il mondo in peso, numero e misura (Sapienza, 11, 20). Il peso indica l’ubicazione delle cose nel mondo, il numero il principio della loro distinzione sostanziale e quan- titativa, la misura il fattore della loro delimitazione formale e qualitati- va. Numero e misura sono la radice dell’intelligibilità del reale, che si delinea come il risultato della piena corrispondenza tra la misura e il misurato, tra il modello e la copia. Queste due relazioni “esemplari”

non sono troppo diverse tra loro: le cose sono misurate nell’essere da

Dio, ma sono state anche create ad immagine e somiglianza del loro

Creatore, ed è un tratto essenziale delle creature quello di essere in

un rapporto proporzionato di somiglianza (similitudo) con Dio e, di

riflesso, con le altre creature. Dal numero e dalla misura delle cose

scaturisce quindi l’ordine, che altro non esprime che un rapporto di

proporzione, per cui, come aveva precisato già Agostino nel De musica

e nel De civitate Dei, «la bellezza non è altro che uguaglianza numeri-

camente proporzionata [...] è una certa disposizione delle parti, accom-

pagnata dalla soavità del colore»

4

. Questa idea agostiniana di bellezza,

che si arricchirà nel corso del tempo di sollecitazioni provenienti da

altre tradizioni filosofiche, aristoteliche e soprattutto neo-platoniche

(e.g. Pseudo-Dionigi), godrà di larga fortuna in epoca medioevale e

sarà ripresa, tra gli altri, anche da Tommaso d’Aquino, il quale ricorda

come, basilarmente, la «bellezza richieda due cose, lo splendore [del

colore] e la proporzione delle parti»

5

.

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Queste concise definizioni, proposte da Agostino e riprese tra gli altri da Bonaventura e da Tommaso, rivelano alcune cose. In prima istanza, da queste definizioni emerge come il concetto cardine di una teoria del bello resti quello classico di proporzione (proportio) delle parti in un tutto, che è a sua volta dipendente dal concetto di accor- do tra il tutto e il suo esemplare ideale. Tommaso sintetizza questo concetto attraverso la nozione tecnica di consonantia, che impiegata originariamente in ambito musicale a indicare la melodia e armonia dei suoni, viene generalizzata a regola universale per definire l’armonica proporzione delle parti in un tutto, che è ciò che spiega qualunque stato soggettivo, sensoriale o emozionale, che scaturisce dalla relazione tra il soggetto e l’oggetto

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. In seconda istanza, il successivo riferimen- to al colore e allo splendore (splendor) o chiarezza (claritas)

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allarga l’orizzonte d’indagine sul bello, permettendo una caratterizzazione del bello non solo in termini intrinsecamente o estrinsecamente oggettivi, ma anche per così dire soggettivi, grazie alla connessione del bello a una teoria generale della percezione sensibile. Infatti, il colore è con- siderato una proprietà reale delle cose, ma il colore in quanto visibile richiede, nei termini del processo percettivo che Aristotele illustra nel De anima, la presenza di un soggetto percettore e di un fattore atti- vante questo processo. Il soggetto è identificato con il singolo indivi- duo, mentre il fattore di attivazione è identificato con la luce, la quale permette la trasformazione dei visibili in potenza in visibili in atto e quindi in visti in atto. Rispetto al processo percettivo di ricezione di una forma sensibile, la bellezza viene a esprimere, così, sia l’arrangia- mento armonico delle parti di una cosa colorata (in questo senso un colore bello è «un colore che è conveniente alla vista per vedere» e tale è un colore che a sua volta possiede una gradazione cromatica armoniosa)

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, sia la corrispondenza che si ha tra la forma del ricevente e la forma del ricevuto. La riproduzione a livello percettivo della forma e del colore di una cosa sono a fondamento dell’esperienza del bello, il cui indicatore è dato dal sentimento di piacere che la cosa colorata suscita nell’anima.

È stato fatto notare come l’insistenza agostiniana sulle cose come immagini di Dio, effetti-segni che rinviano alla loro causa-esemplare, sia alla base di gran parte del simbolismo e dell’allegorismo medievale.

Non occorre soffermarsi troppo qui sulla connessione tra bello e ordi- ne, e tra bello, luce e colore, essendo queste connessioni un common- place del pensiero estetico medievale che è stato comunque esaminato dalla storiografia del secolo scorso. In questa sede mi limiterò a richia- mare due aspetti di queste connessioni che considero particolarmente significativi e su cui, ritengo, ci sia ancora del lavoro da fare.

Il primo aspetto da rimarcare è che il processo di ricezione della

forma di un oggetto da parte di un soggetto conoscente garantisce una

saldatura tra le due connessioni di un’opera d’arte all’esperienza che

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abbiamo distinto all’inizio. Per quanto ci possano essere eventi o pro- duzioni artistiche la cui funzione è esclusivamente quella di esprimere stati emozionali di un soggetto, o anche di suscitare stati emozionali simili in un altro soggetto (si pensi alle rappresentazioni teatrali o alla poesia, di cui parleremo più avanti), in genere un’opera d’arte deve essere valutata rispetto alla sua capacità di rappresentare o imitare un certo oggetto, e nel caso specifico di rappresentazioni pittoriche, di rappresentare la proporzione armonica delle parti e del colore che un oggetto possiede, riproducendo così una certa forma che l’oggetto ha impresso nel soggetto conoscente. Da questo punto di vista, è de- gno di nota che molte riflessioni sulla rappresentatività dei dipinti si trovino all’interno dei dibattiti epistemologici sulla natura e funzione delle rappresentazioni mentali. Siccome molti filosofi medievali, tra cui Tommaso d’Aquino, ritengono, sulla scia di Boezio, che una rappre- sentazione mentale naturale rappresenti le cose non come sono in sé stesse, al di fuori della mente, ma così come sono state ricevute dalla mente, ne consegue che anche la bellezza di un’opera d’arte viene a risiedere nella capacità che l’opera d’arte possiede di mimare la debita proporzione delle parti e del colore di una cosa rispetto al modo in cui tale proporzione è stata ricevuta dalla mente. In questo senso, il processo rappresentativo richiede non solo una somiglianza qualitativa tra ciò che rappresenta e ciò che è rappresentato, ma anche una loro adeguazione proporzionale, che è il frutto di un intervento di ricosti- tuzione dei dati percettivi operato dalla mente.

Il secondo aspetto che ritengo utile sottolineare si collega in qualche

misura al primo. Soprattutto nel corso del xiii secolo, la fondazione

teoretica del bello e la determinazione del suo valore cognitivo emergo-

no nel contesto di quella che i medievali presentano come un’indagine

sui cosiddetti trascendenti, ovvero su alcune nozioni transcategoriali,

come ens, unum, bonum, verum, aliquid, res, cui qualcuno aggiungerà

per l’appunto pulchrum

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. Tommaso d’Aquino, ad esempio, che propo-

ne una spiegazione tutto sommato chiara e condivisa della natura dei

trascendenti, osserva che i concetti di bello e di bene (ma il discorso

vale anche per il rapporto tra il bello e gli altri trascendenti), sono

realmente identici se considerati rispetto a un dato oggetto di cui si

predicano, perché si fondano su una stessa cosa, cioè sulla forma di

questo oggetto. Differiscono tuttavia concettualmente. Mentre il bene

riguarda la facoltà appetitiva dell’uomo e si pone come la causa finale

rispetto all’agire pratico, il bello riguarda la facoltà conoscitiva e si

pone come la causa formale rispetto alla percezione dell’oggetto. Belle,

infatti, sono dette quelle cose che piacciono una volta viste (pulchra

dicuntur quæ visa placent) e la vista è una facoltà conoscitiva; ma sic-

come la conoscenza avviene per assimilazione dell’oggetto conosciuto

al soggetto conoscente, e l’assimilazione dipende dalla forma, allora il

bello riguarda propriamente la forma dell’oggetto

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. Stando a queste

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