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Il recesso determinativo

La figura del recesso determinativo risponde all’esigenza di integrare il contenuto del contratto sotto il profilo della durata del vincolo.

Sul piano storico, detta fattispecie di recesso affonda le sue radici nell’art. 1780 del Code Napolèon, in forza del quale «on ne peut engager ses services qu'à

temps, ou pour une entreprise déterminée»338. Appurata l’insussistenza di una

commistione tra fiduciarietà e temporaneità nel fondamento di questa tipologia di recesso339, si deve constatare l’assenza di una norma generale che accordi alle parti la facoltà di sciogliere ex uno latere i rapporti obbligatori connotati dall’indeterminatezza della durata. A fronte di tale lacuna, il potere caducatorio – rispondente, sul piano concettuale, al binomio tra recesso e libertà340 – viene puntualmente previsto nella disciplina dei contratti riconducibili entro la categoria dei rapporti obbligatori ad esecuzione periodica o continuata. La ricorrenza dell’attribuzione ex lege del rimedio consente di desumere, dalle singole fattispecie tipizzate, un principio generale secondo cui i rapporti di durata si contraddistinguono per la reciproca soggezione dei contraenti all’esercizio dell’altrui facoltà – immanente e non esterna al contratto – di far cessare, con efficacia ex nunc, la forza di legge del vincolo.

L’esercizio del recesso nella sua accezione liberatoria non si pone, peraltro, in chiave derogatoria rispetto al contenuto precettivo dell’art. 1372 c.c. La

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La portata giuridico-culturale di tale principio è stata diversamente valutata dalla dottrina italiana del 1900. Sulla base di un primo orientamento, in particolare, la norma costituisce espressione del ripudio, da parte dei redattori del Code, del servaggio e delle gerarchie sociali della società medievale (MAZZONI, Dalla legge n. 604 del 1966 alla legge n. 300 del 1970: problematica

in tema di licenziamenti individuali, in I licenziamenti individuali e la reintegrazione nel posto di lavoro, Milano, 1972, 3 ss.).

L’impostazione maggioritaria ha smorzato la forza innovatrice della disposizione, individuando nella stessa una risposta alle relazioni contrattuali emerse a seguito della rivoluzione industriale ed insuscettibili di modellarsi sull’antico paradigma della locatio operis (in tal senso G.F. MANCINI, op. loc. cit.).

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v. retro, nota 320. 340

Scrive FERGOLA, op. cit., 38-39: «L’equazione: libertà-recesso è considerata equivalente alla uguaglianza: temporaneità dei vincoli obbligatori-recesso, opposta all’equazione: servaggio- rapporto irresolubile. Sul piano astratto l’intera costruzione teorica del potere di recesso è, sin dalle sue origini, fondata e dimostrata sul rapporto reciproco di tali proposizioni».

vincolatività “normativa” dell’intesa negoziale è infatti ab origine connotata dal carattere della temporaneità. In tale prospettiva, l’asserita soccombenza del principio di forza di legge rispetto a quello di non perpetuità dei vincoli giuridici è solo apparente, in quanto il recesso non smentisce la cogenza del rapporto obbligatorio, costituendone piuttosto un limite “interno” che consente di inscrivere il contratto entro una cornice temporale (almeno potenzialmente) definita341.

Dal carattere fisiologico dell’estinzione dei rapporti di durata discende, quale corollario, l’equipollenza concettuale tra l’apposizione di un termine finale e la previsione della facoltà di recesso ad nutum. Con l’entrata in vigore della l. 6/2003, detta fungibilità trova espressa consacrazione nel formante legislativo. Il legislatore della riforma del diritto societario ha infatti previsto, all’art. 2328, II comma n. 13, che l’atto costitutivo della società per azioni deve indicare «la durata della società ovvero, se la società è costituita a tempo indeterminato, il periodo di tempo, comunque non superiore ad un anno, decorso il quale il socio potrà recedere». La nuova formulazione della norma sancisce definitivamente l’equivalenza tra recesso (determinativo) e termine (finale), entrambi ritenuti strumenti idonei ad assicurare al socio la temporaneità dell’investimento effettuato. In definitiva, la disciplina dei contratti ad esecuzione continuata e periodica sottende un principio immanente che non contraddice il disposto l’art. 1372 c.c., ma ne precisa la portata nella categoria dei rapporti di durata, i quali avranno forza di legge sino allo spirare del termine pattiziamente convenuto ovvero fino all’esercizio del recesso di uno dei contraenti342.

Una volta appurato il substrato ideologico del recesso determinativo, l’interesse della dottrina e della giurisprudenza si è progressivamente spostato dalla

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Sul punto – e con riguardo alla fenomenologia dei patti parasociali – osserva recentemente la Cassazione: «atteso il generale disfavore dell'ordinamento per il protrarsi indefinito di vincoli siffatti […] in coerenza con il principio generale di buona fede stabilito dall'art. 1375 c.c., [i patti parasociali debbono ritenersi integrati] dall'implicita quanto ineludibile previsione del diritto di recesso unilaterale di ciascun partecipante, con obbligo di preavviso o per giusta causa» (cfr. Cass. 22 marzo 2010, n. 6898, Diritto & Giustizia, 2010, con nota di PAPAGNI).

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Al riguardo v. SAN GIORGI, Rapporti di durata e recesso ad nutum, cit., 186, il quale rilevava argutamente che «insistere […] nella equiparazione: mancanza di termine-perpetuità, è lo stesso che sostenere che la mancanza di determinazione quantitativa di un genere importa che sia dedotta in obbligazione … l’intera categoria».

sfera giuridica del recedente a quella del contraente che subisce la volontà risolutoria. La giustificazione del rimedio sul piano dei principi, invero, lascia intatta l’incidenza che la caducazione del vincolo assume nella programmazione di interessi della controparte. Preso atto dell’impossibilità di conferire rilevanza giuridica all’affidamento delle parti nell’intangibilità del rapporto – giacché la protezione di tale aspettativa si porrebbe in stridente contrasto con le premesse concettuali poc’anzi tratteggiate – lo strumento storicamente deputato a contenere la traumaticità dello scioglimento del contratto è stato il preavviso di recesso.

L’ultimo stadio dell’evoluzione dottrinale e giurisprudenziale in materia di scioglimento ad nutum del contratto ha avuto ad oggetto la possibilità di scrutinare l’esperimento del rimedio non solo sulla base del formale rispetto dell’obbligo di preavviso, ma anche alla luce della clausola di buona fede oggettiva. L’esigenza di conformare la condotta del recedente al canone di correttezza impone, infatti, di estendere il sindacato ex art. 1375 c.c. oltre il mero riscontro dei requisiti normativamente e/o convenzionalmente previsti per l’esercizio del diritto.

La questione dell’ammissibilità di un controllo giudiziale sul recesso (rectius: licenziamento) affonda le sue radici nel diritto del lavoro, per estendersi successivamente ad altri paradigmi contrattuali, quali la locazione ad uso abitativo e commerciale, caratterizzati da una genetica disparità di potere tra le parti e la conseguente esigenza di arginare gli abusi della parte “forte”. La dialettica tra

recesso e abuso è transitata dal diritto comune dei contratti – ove il problema è

stato generalmente risolto attraverso la tipizzazione delle “giuste cause” di scioglimento anticipato del vincolo – alle nuove fattispecie negoziali B2C e B2b, rendendosi necessario per un verso evitare che lo ius poenitendi divenga uno strumento di legittimazione di capricci ed esigenze idiosincratiche del consumatore e, per un altro verso, verificare che l’impresa dominata non subisca un’interruzione arbitraria e/o vessatoria della collaborazione commerciale. Onde ricostuire in termini unitari l’evoluzione interpretativa circa la sindacabilità del recesso nel diritto comune e nelle contrattazioni asimmetriche, conviene rinviare alla terza parte del lavoro l’intera esposizione della materia, valorizzando così la duplice

connessione del rimedio caducatorio con il divieto di abuso del diritto e la clausola di buona fede oggettiva.