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Se il regolare e medicare la radice e la cagione dei mali potesse di subito render

Nel documento Ragionamenti politici di Nicolò Donà (pagine 111-119)

sano un infermo, un solo rimedio donerebbe a ogni corpo la sua perfetta salute, ne averebbesi uopo di presentare una particolar medicina ad ogni particolar malattia, la quale col frenar l’impeto d’essa, desse tempo alla natura di ringiovanirsi, e ricevendo la salutare impressione dal medicale rimedio, gli permettesse operare per intiero il suo effetto. Ma così non è veramente, ne di tal medicina è palese la cognizione, ne l’uso frequente; anzi a operar saggiamente non solo alle malattie d’ogni corpo si procura di contrapporre una curagione radicale di esse con rimedi lontani, ma nel tempo stesso pensando a quel rimedio che diversamente s’oppone alla malattia di maggiore pericolo, a questa si oppone il particolare rimedio. Così suol farsi da medici un infermo oppresso da qualche malattia più fortemente di quello che dalle ordinarie indisposizioni che per avventura egli soffriscano che mentre pensano alla radice del male; non lasciano d’applicare particolari rimedi alla più gagliarda malattia che lo affligge: così fassi dagli Architetti nel riparare la rovina di qualche edificio cadente, che prima adattano con puntelli il ritaglio alla imminente rovina, mentre pienamente lavorano a migliorarne e fortificarne i fondamenti: così in fine fassi dal buon Capitano che quando è assalito, pensa a diffendersi e a rintuzzare l’assedio del nemico, mentre cerca i modi di sopir ogni occasione di rissa con trattati di pace. Così dunque si faccia ancora da noi or che pensiamo di emendare i difetti di questo Vineziano governo; e se nel ragionamento antecedente abbiam fatto parola della universale medicina appropriata alle di lui indisposizioni generali, poiché lungo tempo dee passare prima che renda palese il suo

Ragionamento III.

60 effetto, e che trattanto, o lentamente di troppo migliorerebbe, o il naturale aumentarsi de’ disordini impedirebbe l’effetto de’ miglioramenti introdotti, necessaria cosa sia d’esibire in questo mentre alcune provvisionali ordinazioni che regolando i disordini più visibili non venga da questi impedita la pena della universal medicina, ma col tempo possa produr il suo effetto. Per questo ragioniamo ora de’ particolari magistrati di questo governo et emendiamo i loro difetti, così che quando sia regolato tutto il corpo dal quale si estraggono cioè il Maggiore Consiglio, si veggano talmente composti da membri perfetti che da se’ stessi camminino per il sentiero più conveniente.

Si cominci dunque Signori Eccellentissimi a ragionare del primo Magistrato della Repubblica qual è quello del Doge, et osservando la sua instituzione, l’esercizio della primiera sua autorità, le restrizioni in progresso della medesima, e lo stato nel quale ora si trova, ravviseremo se alcuna cosa sia in lui meritevole di regolazione novella, e se al presente sia egli regolato quanto conviene.

Fu questo Magistrato instituito come è già noto a VV. EE. (e come accennai nel secondo di questi Ragionamenti), l’anno di nostra salute 697 a fine che l’autorità del solo Doge desse regola agli interni disordini della Città, e freno agli insulti degli esterni vicini. Tanta però e tale fu l’autorità a lui con ciò conceduta che, a dir breve, era egli un Re quasi assoluto e dispotico; mentre oltre l’esercitar tale dignità per tutta la vita sua, favoriva alleanze, guerre, paci, maritaggi con principi e principesse forestiere, viaggi alle Corti degli Imperadori riceveva da questi dignità di Consolo (il che suona dalla voce Ippato con la quale molti di quei primi Dogi si appellarono) di Protospata [ecc.]: e giungeva sino ad associar al governo il figliuolo, e ad ottenere conservare e ricuperare la dignità con le armi alla mano. Non si sa se fosse tenuto da principio a richieder l’assenso del Maggiore Consiglio nelle deliberazioni più importanti, ma è ragionevole che non ne fosse obbligato, imperocché quest’obbligo averebbe ripugnato alla ragione della di lui creazione, cioè che col di lui senno e valore regolasse e trattasse i disordini, interni et esterni.

Trecento e quarantasei anni continuò tale dispotismo nel Doge; ma perché facil cosa è che l’affetto privato induca coloro che posseggono grande autorità ad abusarne per proprio vantaggio, così avvenne ne’ Dogi, i quali dall’esser quasi Re passarono a rendersi Tiranni, indi per sostenere la lor Tirannia da tutti aborrita precipitarono nel rifugiarsi presso de’ Principi esteri, eccitando contro la Patria, e fomentandole contro crudelissime guerre. Così avvenne del Doge Obelerio ricordato rifugiato a Carlo Magno Re di Francia e Imperatore, mentre Pipino suo figliuolo Re d’Italia, a soggestione

Ragionamento III.

61 facilmente eccitato dallo stesso Obelerio imperdurava quella guerra famosa per cui il nostro Canal Orfano per la insigne mortalità de’ Francesi, e vittoria de’ Vineziani, in quell’acque ottenuta, acquistò il nome. Ma suo figliuolo Beato di costumi meno superbi del Padre, per sottrarsi con la persona almeno dall’indignazione della Patria rifuggissi a Niceforo, decorato da questo dalla dignità Consolare. Della quale colpevole condotta de’ Dogi molto sdegno ne Vineziani s’avesse contro quella dignità e molta gelosia dell’autorità loro, si che in progresso molti altri Dogi per la medesima gelosia furono tumultuariamente o deposti o accecati, o privati di vita. L’anno dunque 1047 fu stabilito por freno a così pericoloso dispotismo coll’eleggere prima due, poi quattro, e finalmente sei persone le quali con titolo di Consiglieri non mai si scostassero dalla persona del Doge, acciò con questi dovesse conferire le sue risoluzioni; e affine che meno avesse luogo la fronda e la prepotenza nell’arrivare alla Ducal dignità s’andò a poco a poco stabilendo la presente fortuita forma della di lui elezione. Andossi in appresso formando anche e convalidando l’autorità del Senato, o quarantia, e introducendo l’uso l’anno 1231 che nelle sedi vacanti un Magistrato di Corettori dovesse sempre più regolare e moderare la di lui potestà. Così a poco a poco si ridusse la Ducal dignità come or la veggiamo ad una mera apparenza di Principe, e tale in fatto, che conservando tutte quelle decorse Regalie ed insegne Reali che fa esistere la Repubblica nel rango dei Re, rimane poi la persona del Doge ristrettamente imbrigliata dalle tante pubbliche leggi e oziosa quasi che interamente nella sua autorità. Non resta però egli senza qualche impiego come di eleggere molte cariche, di presiedere ad alcuni luoghi pii [ecc.]. Oltre a che in casi estraordinari fu molte volte impiegata la di lui persona in servizio della Repubblica comandando le di lei armi non meno ne tempi ne’ quali l’autorità di essi Dogi era assai grande quanto ne’ tempi posteriori e a noi vicini. Fuivi circa l’anno 730 Orso Ippato che, ricuperando dalle armi de’ Longobardi la Città di Ravenna restituivvi l’Esarco Imperiale: fauvi circa l’anno 870 Orso Patriciaco che comandò l’armi Venete insieme quelle dell’Imperadore Orientale Basilio I suo alleato contro i Saraceni: fuivi poco di poi Pietro Candiano che guerreggiando contro a’ Narentani vi perdé la vita; Pietro Tribuno contro gli Unni; i due Pietri e Ottone Orseoli, il primo (che ora adoriamo ascritto nel catalogo de’ Santi) contro a’ Saraceni in Puglia, il secondo contro a’ Narentani, ed il terzo contro gli Adriensi e contro Mancimirro Principe di Croazia; Domenico Contarini contro a’ Zaratini ribellati; Domenico Silvio contro a’ Normanni. Ondelafo Taliero prima in Terra Santa poscia in Puglia contro a’ Normanni, indi in Dalmazia contro gli Ungheri da’ quali fu ucciso; Domenico Michiele in Terra Santa;

Ragionamento III.

62 Vital Michiele contro Emanuello Imperador d’Oriente; Sebastiano Ziani contro Federico I Imperador d’Occidente, Enrico Dandolo assai famoso che unito a Francesi conquistò la Città et Impero di Costantinopoli: e ne’ tempi di poi fuivi Andrea Contarini che ricuperò Chioza dalle mani de’ Genovesi; Cristoforo Moro che dovendo portarsi contro a Turchi, e già partito, ritornò alla Città per la morte di Papa Pio II e Francesco Morosini che con l’acquisto de’ Regno della Morea meritò ad emulazion di Scipione e di molti Imperadori Romani il nome di Peloponnesiaco.

Tali dunque sono i limiti della dignità non solamente, ma della autorità del Doge eziandio; della quale dignità descrittane avendo l’essenza, non spiaccia a VV. EE. che si esamini la ragionevolezza della di lei esistenza medesima e l’estensione della di lei autorità dalla quale l’esistenza sua può venir resa conveniente e ragionevole o pur viceversa.

Se assolutamente vogliam considerare quanto a costituire un governo perfetto, necessario sia un capo visibile che presieda ad ogn’uno de’ di lui compositori, ogni ragione palesemente li dimostra, e Aristotele nella Politica lo conferma, allor che considerando la particolare perfezione delle tre spezie di governo Democratico, Aristocratico e Monarchico decide essere migliore d’ogni uno, l’unione di tutti e tre come si vide in Sparta ed in Roma, e come avvisiamo più distintamente tra noi. Per questo discendendo a considerare questa dignità in riguardo al nostro Governo non si può addurre alcuna valevole ragione contro la ragionevolezza della di lei esistenza; imperocché se si pretende che il governo di Venezia sia puramente Aristocratico, prima, esso pure ammette con capi visibili; e poi come è possibile dissimulare la Democrazia del Maggiore Consiglio? al quale essendo unita la Aristocrazia del Senato, ben è ragionevole che si compisca la perfezione del governo con la immagine di Monarchia nella persona del Doge. È vero che eseguendosi ciò che nel Ragionamento precedente mi è dato l’onore di rassegnarle la Democrazia del Maggiore Consiglio verrebbe in parte scemata, e il governo si ridurrebbe assi vicino a quella Aristocrazia dalla quale da principio fu tratto, ma non per ciò ella del tutto si estinguerebbe ne sembrerebbe estinguersi ne’ il Maggiore Consiglio diverrebbe ne mai dovrebbe divenire una unione di soli Ottimati come è il Senato: egli resterebbe mondato soltanto da quelle parti fecciose, che dilatandosi per lo stesso Senato snervano la di lui forma Aristocratica, e tutto il governo decade nella Democrazia, per precipitar poscia nella Oclocrazia e nella Tirrania per conseguenza. Per questo ho suggerito a VV. EE. di trarre un po’ più il governo all’Aristocrazia, non pretendendo però che la Democrazia del Maggiore

Ragionamento III.

63 Consiglio dovesse essere abolita, ma solo inducendola a far si che ella restasse nei termini ne’ quali fu da principio cioè quando si chiuse il Maggiore Consiglio: vale a dire che si rendesse una Democrazia Nobile, e che non corrompesse l’Aristocrazia del Senato. Ridotto dunque questo governo alla purità che si desidera, e ne’quale naturalmente si distinguesse la Democrazia dalla Aristocrazia, e la medesima Democrazia fosse pur tutta Nobili; chiaro risulta esservi necessaria la presidenza di una visibile dignità che con insegne Regali unisca a queste due anche la terza Monarchica forma. Da ciò ne segue che questo capo visibile che dee rappresentare il Monarca non debba essere movibile ne temporaneo, ma duri nella sua dignità tutto il suo vivere; perché rappresentando egli il Monarca dea rappresentare eziandio il Regio Carattere che ( per così dire) a’ Re siane impresso [nell’anima], il quale si conserva indelebile, per lo che inconveniente sarebbe che passasse dopo qualche tempo alla vita privata: dea per ciò la dignità vitalizia, un utile maggiore rispetto alla persona che n’è [provvista] di quello che la temporanea. Ma avvegnaché alla aspirata perfezione non sia ora questo governo, e difficoltà e tempo non breve vi si richieggano per ridonarlo e che in tanto esaminare si debba se la Ducal dignità vi sia conveniente, e in quai limiti; è mio parere che quanto ella sarà conveniente per dar perfezione, et governo allora quando egli sia ridotto secondo lo spiegato sistema; tanto ella sia necessaria in ora ch’egli […] scomposto, per gli effetti che ei dee produrre. In primo luogo se non vi fosse la dignità del Doge, l’ordine de’ Plebei del Maggiore Consiglio, ne’ quali consiste la di lui maggior parte fecciosa, sempre in peggio degenererebbe e scostandosi sempre più coi costumi dalla sua nascita Nobile; sempre più spignerebbero il governo alla Democrazia ma vile e in tutto plebea, la dove veggendosi per capo del corpo suo una persona con onorificenze Reali, e persona di nascita eguale a quella d’essi Plebei, veggono in lui come in uno specchio il proprio loro carattere; onde non potendo con ciò del tutto obbliarlo e empiendosi per questo di qualche spirito di grandezza e di Principato resta in qualche parte frenato in loro quel vile talento per cui s’intrattengono in un viver vizioso e plebeo tanto indegno della nascita de loro maggiori, dell’autorità che esercitano, e vergognoso agli altri Nobili dello stesso loro carattere. In oltre, può darsi, (e si vide l’anno 1700) che secondo la dignità del Doge ottenibile per legge da cadauno de’ Patrizi ch’abbiano l’età d’anni 30 e perciò possa giugnervi tanto un plebeo come uno de’ Proceri (benché per costume ci giungano pochi altri che i Proceri) può darsi, dico, che alcun Plebeo aspirando a meta si alta, speri, con l’ascendere a cariche riguardevoli d’arrivarvi; e quindi dell’esservi nella Repubblica la Regia dignità del Doge conferibile

Ragionamento III.

64 a tutti; può darsi luogo da ogn’uno eziandio de’ Plebei, alla speranza o si conseguirla per se, o che sia conseguita da qualche stretto parente o amico suo; onde per tal cagione o quello stesso che vi aspira, o i suoi parenti o amici regolino i propri costumi et emulando quei de’ vari Nobili, si tolgono dal vizio e dal dimostrarsi vero plebeo. Angelo Diedo Procuratore, benché nato (può dirsi) nella Classe de’ Plebei, che chiese l’anno 1700 la Ducea in competenza di Alvise Pisani Cavaliere e Procuratore, il quale benché prima il di lui casato fosse tra plebei, pure allora molto s’aveva innalzato sopra quello del Diedo: e la sorte sola che gli ridusse in parità di favori fu cagione che così il Diedo come il Pisani non la conseguisse, onde poi fu eletto Giovanni Cornaro. E allora si potrà aver veduto quanto i Diedi non solamente ma tutti i loro benché lontanissimi parenti, i loro amici anche scordati, tutto in somma l’ordine de’ Plebei conoscendo proprio decoro l’innalzamento d’uno de’ suoi, avevano lasciate o sospese le ordinarie loro abitudini, e le loro costumanze vili e plebee, e avevano rivestito Nobili sentimenti degne maniere e non viziose operazioni, si per equipararsi ai costumi del loro competitore e suoi partigiani, si per esiggere rispetto dagl’indifferenti e dal popolo come anche per una inspirazione della grandezza di quella Real dignità che chiedevano. Lo stesso vedossi arrivare se Giovanni Emo Procuratore sopravivendo al Doge di adesso aspiri alla Ducea; che oltre l’essere la di lui famiglia uscita da poco dalle Plebee, ha egli tra Plebei grandissimo numero di parenti, di amici, e di aderenti.

Da questi utili effetti della Ducal dignità, altri ne seguono. La superbia de’ Proceri, che si figura essere questa dignità unicamente riserbata a essi soli, resta alcuna volta frenata e abbassata; frenata allor che un Plebeo si pone in concorrenza con alcuno di loro; e abbassata, allor quando alcuno che non sia dei loro la conseguisce; come avvenne pochi anni sono che Carlo Ruizini Cavaliero e Procuratore benché dell’ordine de’ Benestanti, conseguì la Ducea in competenza di Alvise Pisani Cavaliero e Procuratore (che fu poi Doge dopo di lui et ora è il Doge vivente), il quale benché discendente da progenitori Plebei, pure è innalzato alla Classe de’ Proceri. Abbiamo l’appagamento di tutti gli ordini del Maggiore Consiglio perché quantunque non eleggano essi questa carica che tanto è stimata, pure posseggono essi la facoltà esclusiva, perché possano escludere i 41 elettori quando si sappia che favorischino un Candidato non voluto dal Maggiore Consiglio, come avvenne mentre Giovanni Sagredo Procuratore chiedeva la Ducea, che non godendo egli la grazia de’ Patrizi dovette desistere dalla richiesta perché dal Maggiore Consiglio fu data l’esclusiva alla Maggior parte di quegli elettori che lo favorivano. Abbiamo oltre a ciò il vantaggio che il danaro

Ragionamento III.

65 di quello che viene eletto passa in tanti operai e mercatanti per occasione degli allestimenti e delle feste che fannosi in tali elezioni oltre il danaro del Pubblico Erario che si consuma nella sede vacante; che non poco utile apporta a tante persone.

Per tutte dunque queste ragioni, necessaria dee reputare la persona e dignità del Doge in questa nostra Repubblica, tanto nella costituzione delle cose presenti, quanto allor che sarà regolata come ho proposto. Non è però da supporsi che una si fatta dignità per essere necessaria a questo governo, possa essere esercitata indifferentemente con molta o poca autorità e dispotismo; perché quanto, generalmente parlando, alla via è necessaria, altrettanto vi è necessaria con autorità limitatissima, e quasi che interamente d’autorità priva. Il freno che fu posto all’autorità de’ Dogi, fu prodotto dalla sperienza, maestra fedelissima degli effetti naturali; attesoche fece ben chiaramente palese quanto in pericolo si stesse la libertà della Repubblica, se veniva retta secondo il piacere e comando de’ Dogi. Per questo sempre più si andò mitigando il loro potere, e vigilando sopra la loro condotta, sino a tanto che si ridesse la loro dignità ad una mera apparenza di Principe come ho detto dianzi. Per la quale condotta non posso abbastanza ammirare o lodare i nostri Maggiori; che tanto bene seppero privar quella dignità di tutto intiero il formale senza alcun pregiudizio di quel materiale, che la rende ancor venerabile e da tanti bramata. Lodevolissimo fu niente meno l’escluder da tutti i Magistrati i figliuoli, Fratelli e Nipoti del Doge esistente, perché se siano da malanimo dominati, facilmente potrebbero pretendere di dilatar l’autorità loro sopra de loro Colleghi, e quindi molti disordini ne potriano arrivare. Per questo a dir vero non mi piace che possa esser Doge che abbia Fratelli o figliuoli o Nipoti Procuratori, perché sicome dannoso e pericoloso alla sozietà che le ricchezze si riducano soverchiamente in una famiglia, così pure avviene delle dignità più riguardevoli, che per lo meno destano et eccitano l’invidia degli inferiori et uguali. E a fine che l’autorità quasi estinta de’ Dogi non riprendesse vigore, e tutto a un tratto non si rendesse funesta alla Patria; invegnachè non vi sia più pericolosa autorità di quella che si trova essere armata; io bramerei che fosse fatta un’altra legge, cioè, che mai in alcun tempo ne congiuntura il Doge non potesse uscire a comandar l’armi della Repubblica. Formidabile è l’autorità d’un Doge armato; e fu gran avventura della nostra Patria che Enrico Dandolo prima, e Tommaso Morosini a dì nostri dopo la serie delle loro vittorie non imitassero in tutto Giulio Cesare. Quanto non diviene difficile la condotta del governo con un Generale che sia Doge? Come tenerlo in obbedienza? Come correggere i di lui piccoli trascorsi, tutto che in progresso possano essere stati cagioni di gravissimi disastri? Come privarlo della dignità senza privarlo

Ragionamento III.

66 della vita? Dall’altra parte quanto non è facile a lui esiggere obbedienza soverchia? abusarsi della sua autorità? Lo che se per ventura non precipita in ribellione contro la Patria, può facilissimamente decadere in tenacità d’opinione, in opinione pericolosa e precipitosa, in cagione di disgusto, di disapprovazione, e di alienazione da lui nell’animo de’ Comandanti, e de’ grandissima confusione nella Città e ne sudditi, come più volte si vide, nelle spedizioni de’ Dogi ch’ebbero cattivo successo; e particolarmente in quella di Vital Michiele contro Emanuello Imperadore Orientale, che per aversi lasciato ingannare dal governatore di Negroponte con maneggi di pace proposti per ritardare il corso delle di lui continue vittorie, diede tempo al nemico di usare la frode velenando le acque che dovevano essere bevute dall’armata Vineziana, e ritornando egli a Vinegia con sole 17 galee dopo esserne partito con più di 100 et aver anche introdotta la peste nella Città, poiché tutto il popolo tumultuava contro di lui, uno osò ucciderlo.

Di queste due leggi, cioè di quella che esclude dalla Ducea chi ha fratelli o figliuoli o Nipoti Procuratori, e di quella che proibisce al Doge comandare le armate, veggono VV. EE. quanto sia facile lo stabilimento, si per il tempo del proporle, si per il

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