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In tre Classi io penso distinguere i Magistrati Criminali Nella prima è l’eccelso

Nel documento Ragionamenti politici di Nicolò Donà (pagine 119-200)

Consiglio di dieci con i due Magistrati che si estraggono da lui; l’uno è quello de’ Capi dello stesso Consiglio; l’altro è il supremo di VV. EE. Nella seconda sono gli Avogadori di Comun, la quarantia Criminale, la Civil vecchia, et altri Magistrati inferiori, cioè Signori sopra la Sanità, Signori di notte al Criminal, Signori sopra la Bestemmia [ecc.]. Nella terza poi sono i Rettori delle Città Castella e Terre di tutto lo Stato. Di queste tre Classi di giudici uopo è tener particolare discorso, riserbandomi però a ragionar di quest’ultima in altro luogo dove delle cariche e Magistrati esterni della Repubblica farem parola.

Prima però ch’entriamo a favellare degli uffici di questi Magistrati non vi sia discorso Eccellenza che alquanto de altro vi accenni qualche cosa attinente alla essenza et ai limiti della ragion Criminale, generalmente considerata. Trae la ragion Criminale l’origine sua dal possesso e dominio che l’Uomo ha di se stesso, tanto dipendente da’ averi e dalla sua facoltà et ha il suo fondamento nella cognizione del giusto pubblicato dalla instituzione delle leggi. Noi per possesso intendiamo riguardo a noi un assoluto dispotismo sopra la cosa posseduta, e riguardo a questa una totale dipendenza del posseditore. Ottiensi questo per due strade. L’una dipendente dall’altra. La prima per donazione di un primo possessore; la seconda per concambio con alcuna parte di che fu prima donato; il possesso che l'Uomo ha di se stesso in dipendenti e di parte dalle facoltà et averi, viene in lui dalla prima strada della donazione, perché egli l’ottenne immediatamente da Dio, il quale è il primo possessore d’ogni cosa perché essendo egli la prima cagione del tutto, non può essere posseduto da alcuno ma dee possedere se stesso: et essendo il creatore d’ogni cosa poiché ogni cosa è uscita da lui, egli dee tanto esserne possessore quanto lo è di se stesso. Questo è il primo possessore, il quale per donazione all’Uomo, diede il possesso del di lui corpo et anima, e di tutta la terra con quanto viveva e contenevasi in essa; avendosi Dio riservato il solo diretto dominio e le stagioni della sua autorità sopra l’universal sua cosa. L’altro possesso poi che ha l’uomo

Ragionamento III.

68 delle restanti facoltà in quantità maggiore di che sarebbe la porzione ad ogni individuo appartenente proviene dalla strada de’ concambio: imperoché se solo fosse restato un Uomo nel mondo, sarebbe stata superflua questa seconda via del concambio perché per donazione possedeva ogni cosa; ma divisasi la spezie dell’Uomo in quasi stranumerabili individui si divisero eziandio le ragioni sopra la donazione; ad ogni individuo restava soltanto autorità sopra quella porzione di cose che a lui potesse aver toccata in partegio. Tra queste la prima era et è la propria persona, i figliuoli sino a tanto che devono esistere e conservarsi da se stessi, le mogli, gli armenti e i terreni. Così aumentandosi il popolo, e riuscindo diversi i temperamenti e le inclinazioni di vari individui degli Uomini, non tutti sono stati al tutto disposti; si che un Uomo ebbe bisogno dell’opera dell’altro Uomo e il debole, d’essere aiutato dal forte, lo sciocco dal prudente, il timido dal coraggioso. Per ciò la fortezza, la prudenza e il coraggio essendo qualità possedute per dono divino dalla persona che n’ è dotata, allor questa ne impiega essa alcuna parte per comodo o bisogno altrui, viene a restare come mancanza di quella data porzione; onde per riaverla colui a pro del quale viene impiegata da’ alcuna porzione degli averi che possiede in concambio; da che nel forte, coraggioso [ecc.]: ne nasce il possesso delle cose per tale seconda strada. Come però l’altra via della donazione è materia dell’arbitrio e della grazia così questa seconda del concambio è la materia d’ogni giustizia, e Criminale e Civile, e commutativa, e distributiva come esporrò a suoi luoghi. Altro non è la giustizia che una misura sia delle idee, de’ pensieri, delle opere, o pur degli averi, con la quale misura paragonandola a ciò che debbono essere, si riconoscono per eccedenti o mancanti, onde a quello è mancato, e a questo si aggiugne. Quindi è che misurando la giustizia la quantità o qualità di un bene d’alcuno, che brami cambiarlo (per bene intendendosi la propria vita le proprie opere e i propri averi), lo proporziona con quello che dee ricevere in concambio et a misura del prezzo e valor d’ambidui eguaglia alla quantità dell’uno la qualità dell’altro. Così veggiamo provenire dalla giustizia il dar la mercede agli operai perché si proporziona la quantità e la qualità della mercede, con la quantità e qualità della fatica, dell’impiego, e del tempo dell’operaio. Veggiamo altresì da lei provenire gli esborsi che fannosi acquistar averi o poderi i quali esborsi sono in quantità proporzionati dalla giustizia col prezzo dell’avere o podere di cui si dee far l’acquisto. Il fine però di questa misura ne concambi è il solo mantenere il possesso leggitimo a’ posseditori, si che si spropriano di qualche o cosa o opera, vengono risarciti con il concambio. Da che ne segue che quantunque il prezzo per donazione sia materia dell’arbitrio e della grazia, ella lo è nel venir posta in essere, ma il

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69 mantenimento e conservazione di tale possesso è materia della giustizia; (salve sempre le dirette ragioni sopra ogni cosa del supremo donatore, il quale per questa può ritolgere ogni cosa dopo averla donata senza contravenire alla giustizia). Onde due opere conosciamo in essa giustizia sin ora, una è quella del misurare et eguagliare la quantità e qualità delle cose et opere ne concambi, l’altra quella del mantenere il possesso tanto delle donazioni quanto degli concambi. Quivi però non si trattiene l’opera della giustizia: essa vol pubblicar le proposizioni e le quantità e qualità delle cose et il modo del proporzionarle; lo non si fa con leggi et esse divengon la regola delle proporzioni. Ma quando alcuno tolga il possesso altrui di qualche parte di un bene da lui posseduto, e da non potersi identificamente restituire, come sarebbe l’onore o la vita, poiché in tal caso non può la giustizia mantenere il possesso di ciò che fu tolto all’offeso concorda essa mediante la legge che quella sia risarcita col togliere da lui essa eziandio all’affermare tanta parte del suo che divenga eguale all’offeso, e perchè nell’offendere alcuno si tolge nel tempo stesso alla legge l’obbedienza, che è un bene le ragioni del quale sono da lei possedute, e al legislatore o al Sovrano si tolge parte dell’effetto della sua autorità, il quale pure è un bene ch’egli possiede: e la legge e il Sovrano debbono essere risarciti dal reo se non con la restituzione di che loro fu tolto perché le azzioni sono transitorie e dopo fatte non più esistono, almeno con la privazione nel reo di tal bene che si proporzioni con la quantità e qualità che si compone dal bene che tolse all’offeso alla legge, et Sovrano. Ond’è che un ladro (per esempio) dee restituire al suo legittimo possessore la cosa toltagli, e con adeguata pena dee soddisfare l’offesa alla legge e al Sovrano: ma l’adultero che non può in alcun modo restituire al marito la moglie che è un bene da lui posseduta, come gli fu tolta, e perciò lo privò del totale possesso di lei, dee risarcirlo con restar esso privato d’alcun bene da lui posseduto: e come all’offesa del marito s’aggiunge ancor quella che vien fatta alla prole di lui perché il figliuolo dell’adultero non nato al marito tolgerebbe a’ di lui figliuoli una parte della lor facoltà, e che nello stesso tempo resta offesa la legge e il Sovrano; dee l’offensore essere privato di tanto quanto montano tutte le privazioni che cagionò in un sol atto, le che importa la di lui stessa vita. E in fine un omicida proditorio perché privò altrui della vita, dee esserne privato lui stesso; nel che la legge e il Sovrano e quanti altri pregiudicò, restano senza il risarcimento, conveniente tutto che si progrediscano le pene al nome e agl’averi del reo. Sicché si ravvisa come la giustizia mantenga il possesso de’ beni a posseditori nello stabilir la misura de’ concambi, nel risarcirli di che venga lor tolto, e nel tolgere a chi non può restituire, tanto del suo, quanto importi tutto ciò ch’egli

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70 tolse, lo che tutto vien insegnato e specificato dalle leggi e dalla ragione che le compose. Quindi si diparte la ragione Civile dalla ragion Criminale, consistendo quella in quistioni attenenti alla legittimità de’ possessi che insorgono allor o che manca al caso la legge o che ella è di ambigua interpretazione; la dove la ragion Criminale consiste nell’identificazione di fatti palesemente contrari alle leggi più chiare o alla ragione di esse, e nel proporzionare le pene alle colpe secondo il prescritto da esse leggi o quando esse mancano secondo la detta ragione onde le altre sono composte la qual è la cognizione del giusto, che si ritrae dal costume delle più colte Nazioni.

In questo saggio breve e superficiale ch’ho esibito a VV. EE. possono col loro maturo e sperimentato lume ravvisarvi l’essenza e i limiti di tutta la ragion Criminale non solo ma di tutta la giustizia con quanto basta per conoscere la ragion d’ogni legge, et il modo del giudicare. Non le sia ora dispero riandar meco la ragione del riservar a’ Sovrani l’amministrar la giustizia, acciò con il necessario fondamento possiamo poi ragionare de’ Magistrati Criminali.

Con l’aumento e divisione dell’umana prole e della varietà delle inclinazioni degli Uomini dominati da diverse passioni, si produssero nel mondo la superbia, l’interesse, l’invidia, e la violenza; dalle quali tratto l’Uomo a bramare maggior quantità di beni di quei che o avessero a lui toccati in partegio, o giustamente anche ottenuti in concambio per prezzo di sue fatiche o di sua ricchezze, procurò ogn’uno in particolare de’ tentar di spossessarne il posseditore con la violenza, con la frode, e con le uccisioni de’ medesimi posseditori. Così i più forti e più scaltri soprafacendo i più deboli e i meno accorti gli spogliavano d’ogni avere, o almeno almeno rendevano inquietissima la lor vita, e sturbavano interamente la tranquillità de’ loro possessi. Oltre a che il non conoscere le ragioni degli altrui possessi, e il rendere vere alcune proprie ragioni sopra i possessi degli altri indusse gli Uomini a pretendere le cose altrui, e non essendovi alcuno che riconoscesse le ragioni de’ pretendenti, la forza sola decideva la lite e sempre appariva essa vera la ragion del più forte: costume che ancor persistendo nel mondo è la principale cagione di quasi tutte le guerre. Ma finalmente dolendosi gli Uomini della soprafazione de’ più forti, e decidendo di tranquillamente posseder i suoi averi, conobbero essere l’unico spediente quello di ricorrere a uno il quale dovesse riconoscere le ragioni de’ contendenti e mantener nel possesso de’ beni quello a cui appartenevano, e nel tempo medesimo diffendesse chi ricorreva a lui; da’ prepotenti et usurpatori. Quindi seguine che acciò costruita fosse la decisione delle quistioni, e il freno a prepotenti, furon composte le leggi egualissime in tutto il mondo ne’ punti

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71 fondamentali. Pure ne men questo fu bastante perché le passioni umane et i vizi col progresso sempre s’aumentarono; e ciascheduno o voleva interpretarle a seconda del proprio desiderio, e le leggi divenivano superflue, o spinti da più feroce instinto quelle spregiavano e trasandavano. Onde fu necessario instituirsi persone che sole dovessero interpretarle, o con la forza facesse obbedire i loro precetti, e valere le loro interpretazioni.

Da questi principi o in questo o in altro modo disposti debbono necessariamente esser nati i governi e i lor savi, e debbono aver acquistata forma e stabilimento per due sole strade. La prima per una dedizione di popoli o a una persona instituendo la Monarchia, o a molte instituendo l’Aristocrazia, o raramente per una convenzione tra molti di eleggersi reciprocamente per giudici e per difensori, instituendovisi la Democrazia. La seconda per una soprafazione di alcuno o alcuni prepotenti che con la forza abbiano tolti i Paesi, gli averi e le sostanze a loro posseditori, e si abbiano fatto obbedire da’ popoli che avevan soggiogato come avvenne di tutti gl’invasori. Sia però qualunque Impero cominciato per qualsivoglia di questi due modi in ambidue si dimostra che la ragione del far le leggi, dell’interpretarle e sostenerne l’effetto appartiene unicamente a’ Sovrani. E voglia il vero se per dedizione o convenzione che principiò un Impero, poiché con la dedizione egli riceve in dominio i sudditi con la fede di reggerli, e con la convenzione si dia fede di reggersi vicendevolmente; è dovere del Principato il serbare a’ sudditi o a se stesso la detta fede, et è obbligo de’ sudditi e de’ componenti la Democrazia di star al giuramento o ad un Sovrano o a se stessi prestato. Quindi è che dipendendo il reggere dal prescrivere regole atte a mantener in buon sistema quella sozietà che dee essere governata, et dal farne ad ogni modo osservare l’esecuzione e che queste regole sono appunto le leggi, e il farne osservare l’esecuzione è il diritto della Sovranità o Principato: ne segue che a Principi soli appartenga il fare leggi, e il farle eseguire. Che se un Impero ebbe principio per la via del conquisto non meno spetta al Sovrano l’ufficio predetto; perché quando un invasore o legittimo conquistatore s’usurpa o conquista uno Stato, ei ne divien Signore o per possederlo, o per spogliarne il nemico, o per rovinare quello Stato stesso che acquista. E come l’essenza de’ Stati dipende dal popolo che vi abita perché senza questo nulla si ritrarrebbe da loro, così se lo Stato si acquista per possederlo uopo è procurarsene la conservazione del popolo. Lo che unicamente può aversi dal preservar le regole del di lui operare e dall’obbligarli a agire secondo esse regole, le quali regole sono le leggi e il quali obbligar a eseguirle è l’autorità de’ Sovrani come abbiam detto. Se lo Stato si

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72 acquista per spossessare il nemico, o si vuole conservarlo o si vuole distruggerlo; se conservarlo la necessità delle leggi è già spiegata; essendo il caso di non valorare allora solo che si volesse distruggerlo; imperocché quei popoli che vivessero senza leggi e che naturalmente sarebbero dominati dalle passioni viziose non lascerebbero mai d’usurparsi l’un l’altro gli averi, i beni o la vita; onde quindi spogliati per vendicarsi infierirebbero contro la vita degli usurpatori, e questi diffendendosi o unirebbero o toglierebbero ogni potere a’ più deboli; e alla per fine tutto andando a seconda del capriccio e diretto dall’instinto, precipiterebbe in miserabile infelicità, in total sovversione, e in annientamento. Così avvenirebbe ove non fossero leggi; e poco minor male avvenirebbe ove il Principe non ne fosse il solo institutore o almeno l’approbatore; e non ne fosse il solo interprete e il solo mantenitore; perché se cadauno potesse far leggi, non mai o difficilissimamente sarebbero ragionevoli utili, e giuste; a cagione che nel legislatore richiedesi ottima sperienza cognizione della giustizia della essenza della universale morale filosofia, della essenza di quella sozietà cui si debbono dare le leggi, de’ suoi diffetti, de’ suoi costumi virtuosi e viziosi [ecc.]:; cose la cognizione di tutte le quali è quasi impossibile che si ritrovi se non in pochissimi e applicatissimi uomini. Oltre di che colui che fa le leggi dee essere liberissimo non solo da ogni affetto particolare ma da ogni anche minima parzialità per qualunque passione, dovendo essere di un animo indiferentissimo. Dee comporle lentamente, e dopo maturo riflesso e, se è possibile non dee esser solo a comporle essendo verissimo che plui vident oculi quam oculaj. E il Principe solo ne dee essere l’approbatore se non l’institutore, perché lui solo dee interpretarle e sostenerle. E lo dee perché se ogn’uno le interpretasse prima agevolmente non sarebbe indifferente come richiedesi, e poscia non averebbe egli la forza di sostenerle. D’onde segue ch’essendo jus de’ soli Sovrani il far osservare le leggi per le ragioni o della dedizione o della convenzione o della conquista, essi soli averanno il jus d’interpretarle, e o formarle o approvarle.

Non è però che ogni giudice essendo o rappresentando lo stesso Sovrano abbia e gli si convenga facoltà di far leggi; altro essendo l’ufficio di giudice altro quello di legislatore. Il legislatore è l’architetto della fabbrica, il giudice è l’operaio meccanico. Un legislatore allor che formasse le leggi non giudica in pratica, e quando giudica adopera bensì ma non forma le leggi che dee avere formate dianzi. E la ragione si è perché se il giudicio che si forma è un adattare la cosa da giudicarsi alla misura e regola del giusto, mai non si potrà giudicare se questa regola la quale è la legge non esista dianzi, e il giudice che volesse formar leggi nel mentre che giudica, oltre che ei non ha

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73 tale autorità potrebbe quasi impossibilmente riuscirvi, perché doverebbe sostener due grandissimi pesi ad un tratto, quello del considerare tutto ciò ch’è detto esser uopo nel formar le leggi, e quello dell’adattare il caso da giudicarsi con tutte le sue parti, alla legge che vorria stabilire. Per questo Eccellenze cosa di somma importanza è che ogni giudice in qualunque materia abbia tre qualità: la prima una universale e particolare fondatissima cognizione di tutte le leggi attinenti alla materia della sua giudicatura; la seconda una penetrante facoltà con la quale adattar alle leggi stesse il caso da giudicarsi; e la terza una stretta cognizione del proprio Ministero per la quale non si arroghi il carico di legislatore.

Queste sono le qualità che si richieggono in ogni sorta di giudice; ma discendendo giudici particolari altre oltre a queste son quelle che si richieggono in essi. Non ragioniamo ora de’ giudici Civili dovendo farne altrove parola, ragioniamo soltanto de’ Criminali. A questi è necessarissima una particolar cognizione de’ limiti tutti ne’ quali si dee contenere il giudizio: e come dianzi abbiam detto essere il vero limite la legge, così ora aggiungiamo che il giudizio Criminale dee essere contenuto anche da un altro limite il quale è la prudenza perché quella non può essere eseguita quanto bisogni senza la cognizione di questo. L’esatto giudizio criminale come anche civile consiste nell’appropiar nettamente il caso alla legge ma come questa nettezza di appropriazione dipende dalla nettezza della di lui cognizione, e che queste sole pesavasi nel ravvisare tutte tutte le di lui circostanze nel loro verissimo peso nel loro verissimo essere, e nelle loro verissime conseguenze e che i soli casi criminali sono di tale natura: ne segue essere necessarissima la prudenza nel loro giudice, perché questa sola può ravvisare e conoscere a un tratto tutte le cose descritte. La legge prescrive che l’omicida perda la vita, pure quando l’omicidio sia seguito per molte giuste cagioni la verità delle quali conti l’omicida dee essere assolto. Ma se la verità loro è soltanto probabile ivi è necessaria la prudenza del giudice nel penetrare nella probabilità loro e conoscere se questa le renda degne e bastanti a persuadere. La morte di un sedizioso richiede grande e prudente precauzione nell’essere decretata; perché le conseguenze che vi compagnano il caso sono pericolosissime. Di più il giudizio criminale oltre il confrontare il caso alla legge dopo d’averlo riconosciuto nel suo vero aspetto, lo confronta alla pena eziandio; e quindi se difficil cosa è riconoscere il vero aspetto del caso perché ogni minima varietà di circostanze gli farà variare essenza et aspetto altrettanto è difficile il riconoscere l’essenza della pena la quale si rende maggiore o minore secondo la condizione del suggetto cui dee adattarsi, onde tanto più rimane difficile il ravvisare se si proporzioni,

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74 se ecceda, o se non arrivi alla gravità del debito. Per questo senza il limite della

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