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Le regole sul processo della Cedu, di altre convenzioni internazionali

e del diritto dell’Unione come parametri interposti

Una volta consolidatosi il sistema “costruito” dal-le cd. “sentenze gemeldal-le” (nn. 348 e 349 del 2007), e salve le ricorrenti tensioni verso forme di applicazio-ne “diretta” delle norme convenzionali, i giudici a quo hanno spesso evocato le norme sovranazionali quali parametri interposti, attraverso il riformato primo comma dell’art. 117 Cost. Nelle pagine che precedo-no, già più volte la norma costituzionale è risultata inclusa nel novero delle regole sulle quali è stata chie-sta la verifica di legittimità di disposizioni del diritto interno. Del resto, l’ampia coincidenza tra la confor-mazione assunta dai principi del fair trial, anche gra-zie alla giurisprudenza della Corte di Strasburgo, e i contenuti precettivi espressi dagli artt. 24 e 111 Cost.

(quest’ultimo riformato facendo ampio riferimento proprio all’art. 6 Cedu), rende pienamente compren-sibile il fenomeno evocato.

Va rilevato che vengono in rilievo, talvolta, anche quali norme interposte in relazione all’art. 117, com-ma 1, Cost., altre convenzioni internazionali, come ad esempio la Convenzione sui diritti del fanciullo.

Si prendono in considerazione, anche in questo caso, alcuni filoni nei quali l’asserito contrasto con il parametro sovranazionale è risultato elemento esclusivo o dominante della valutazione condotta dalla Corte. In tale contesto assumono decisivo rilie-vo, per ragioni evidenti, le pronunce concernenti le modalità utili all’esecuzione delle sentenze delibera-te dalla Cordelibera-te di Strasburgo, nei casi che richiedono la “rimozione” di una norma del diritto interno. Va rilevato che, come affermato per la prima volta dalla sentenza n. 49 del 2015, il giudice nazionale è vin-colato all’osservanza delle sole sentenze costituenti

«diritto consolidato» o delle «sentenze pilota» in senso stretto. Infatti, se è vero che alla Corte di Stra-sburgo spetta pronunciare la “parola ultima” in ordi-ne a tutte le questioni concerordi-nenti l’interpretazioordi-ne e

l’applicazione della Convenzione e dei suoi Protocol-li, resta fermo che l’applicazione e l’interpretazione del sistema generale di norme è attribuito in prima battuta ai giudici degli Stati membri. Il ruolo di ul-tima istanza riconosciuto alla Corte di Strasburgo, poggiando sull’art. 117, primo comma, Cost. deve quindi coordinarsi con l’art. 101, secondo comma, Cost. nel punto di sintesi tra autonomia interpre-tativa del giudice comune e dovere di quest’ultimo di prestare collaborazione, affinché il significato del diritto fondamentale cessi di essere controverso.

Dunque, il giudice comune è tenuto a uniformarsi alla giurisprudenza europea consolidatasi sulla nor-ma conferente, in modo da rispettare la sostanza di quella giurisprudenza e fermo il margine di apprez-zamento che compete allo Stato membro.

6.1. Principio di pubblicità delle udienze e riesame

Va ricordato preliminarmente che l’art. 6, par. 1, Cedu stabilisce che «ogni persona ha diritto che la sua causa sia esaminata (…) pubblicamente e in un tempo ragionevole, da parte di un tribunale indipen-dente e imparziale», soggiungendo altresì che «il giu-dizio deve essere pubblico, ma l’ingresso nella sala di udienza può essere vietato alla stampa e al pubblico durante tutto o parte del processo nell’interesse della morale, dell’ordine pubblico o della sicurezza nazio-nale in una società democratica, quando lo esigono gli interessi dei minori o la protezione della vita privata delle parti in causa, o nella misura giudicata stretta-mente necessaria dal tribunale, quando in circostan-ze speciali la pubblicità può pregiudicare gli interessi della giustizia».

Secondo la giurisprudenza della Corte Edu, ri-chiamata specificamente dalla sentenza n. 93 del 2010, la pubblicità delle procedure giudiziarie tute-la le persone soggette altute-la giurisdizione contro una giustizia segreta, che sfugge al controllo del pubblico e costituisce anche uno strumento per preservare la fiducia nei giudici (tra le altre, sentenza 14 novembre 2000, nella causa Riepan c. Austria). Con la traspa-renza che essa conferisce all’amministrazione della giustizia, contribuisce, quindi, a realizzare lo scopo dell’art. 6, par. 1, Cedu: ossia l’equo processo (ex plu-rimis, sentenza 25 luglio 2000, nella causa Tierce e altri c. San Marino).

Verso la fine dello scorso decennio, per ben tre volte, la Corte di Strasburgo aveva ritenuto valevole tale principio anche riguardo al nostro procedimento per l’applicazione delle misure di prevenzione (sen-tenza 13 novembre 2007, nella causa Bocellari e Rizza c. Italia; sentenza 8 luglio 2008, nella causa Pierre e altri c. Italia; sentenza 5 gennaio 2010, nella causa

Bongiorno c. Italia). Condannando il nostro Paese, la Corte aveva ritenuto «essenziale», ai fini della rea-lizzazione della garanzia prefigurata dalla norma con-venzionale, «che le persone (…) coinvolte in un proce-dimento di applicazione delle misure di prevenzione si vedano almeno offrire la possibilità di sollecitare una pubblica udienza davanti alle sezioni specializzate dei tribunali e delle corti d’appello». La Convenzione, in effetti, ammette eccezioni al principio di pubblicità, ma, in linea generale, solo per specifiche caratteristi-che del caso concreto, e non per una intera categoria di procedimenti. È concepibile anche una deroga per tipo di procedura, ma solo quanto a fasi di giudizio con carattere «altamente tecnico» (infra). Quindi un divieto positivo e incondizionato di celebrare udienza pubblica risulta illegittimo, a maggior ragione per giu-dizi che siano privi della caratteristica indicata.

La pertinenza delle decisioni di Strasburgo alla materia delle procedure riguardanti le misure di pre-venzione, che qui non interessa direttamente, ha im-plicato che le prime sollecitazioni accolte dalla Cor-te, in base all’ormai nota utilizzazione della norma convenzionale quale parametro interposto, abbiano riguardato appunto la disciplina delle udienze nel procedimento di prevenzione.

Il regime all’epoca vigente non consentiva di ce-lebrare udienza pubblica neppure in caso di richie-sta dell’interessato. Le leggi speciali prescrivevano la procedura in camera di consiglio, e la relativa disci-plina prevedeva che l’udienza si svolgesse in assenza del pubblico (in questo senso si erano pronunciate anche le sezioni unite della Cassazione, con la senten-za n. 26156 del 2003).

La Corte aveva rilevato che non si trattava di un mero procedimento amministrativo, ma di un «pro-cedimento all’esito del quale il giudice è chiamato ad esprimere un giudizio di merito, idoneo ad incidere in modo diretto, definitivo e sostanziale su beni dell’in-dividuo costituzionalmente tutelati, quali la libertà personale (art. 13, primo comma, Cost.) e il patrimo-nio (…) nonché la stessa libertà di iniziativa economi-ca (…) il che conferisce specifico risalto alle esigenze alla cui soddisfazione il principio di pubblicità delle udienze è preordinato».

In applicazione del principio di pubblicità delle udienze come declinato dalla Convenzione, ritenen-do assorbita la censura riguardante l’art. 111 Cost., la sentenza n. 93 del 2010 ha dichiarato «l’illegittimi-tà costituzionale dell’art. 4 della legge 27 dicembre 1956, n. 1423 (…) e dell’art. 2-ter della legge 31 mag-gio 1965, n. 575 (…), nella parte in cui non consentono che, su istanza degli interessati, il procedimento per l’applicazione delle misure di prevenzione si svolga, davanti al tribunale e alla corte d’appello, nelle forme dell’udienza pubblica».

Allo stesso periodo risale un’ulteriore importante decisione, sempre relativa alle misure di prevenzione, che ha ritenuto non fondata la questione di legittimi-tà costituzionale dell’art. 4 l. n. 1423/1956 e dell’art.

2-ter l. n. 575/1965, nella parte in cui non consento-no che, a richiesta di parte, il ricorso per cassazione in materia di misure di prevenzione venga trattato in udienza pubblica, sollevata, in riferimento all’art. 117, primo comma, Cost., dalla Corte di cassazione (sent.

n. 80 del 2011). Tale pronuncia ha sinteticamente af-fermato che i modelli procedimentali, per verificarne la compatibilità con il principio di pubblicità, vanno in effetti apprezzati nel loro complesso e che, quando è preceduta da udienze che sono (o possono essere) aperte al pubblico, una fase finale dedicata esclusiva-mente alla verifica di legittimità può utilesclusiva-mente essere celebrata in forma non partecipata.

Il contenzioso relativo al procedimento di preven-zione si è spostato, successivamente, su procedure di natura diversa, direttamente riconducibili al codice di procedura penale, a cominciare dal giudizio fina-lizzato alla riparazione per ingiusta detenzione. La Corte, con la sentenza n. 214 del 2013, ha dichiarato inammissibile, per difetto di rilevanza, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 315, comma 3, in relazione all’articolo 646, comma 1, cpp, per viola-zione dell’art. 117, primo comma, Cost., in quanto in contrasto con il principio di pubblicità delle udienze sancito dall’art. 6, par. 1, Cedu, così come interpretato dalla Corte europea, la quale, con la sentenza 10 apri-le 2012, Lorenzetti c. Italia, aveva ritenuto «essenzia-le», ai fini del rispetto di detto principio, «che i singoli coinvolti in una procedura di riparazione per custodia cautelare “ingiusta” si vedano quanto meno offrire la possibilità di richiedere una udienza pubblica innanzi alla corte di appello» (la questione era stata posta an-che in rapporto all’art. 111, primo comma, Cost., per contrasto con la regola del «giusto processo»).

Con la sentenza n. 135 del 2014, è stata dichiara-ta l’illegittimità costituzionale degli artt. 666, comma 3, 678, comma 1, e 679, comma 1, cpp, nella parte in cui non consentivano che, su istanza degli interessa-ti, il procedimento per l’applicazione delle misure di sicurezza si svolgesse, davanti al magistrato di sor-veglianza e al tribunale di sorsor-veglianza, nelle forme dell’udienza pubblica.

Secondo la Corte, esigenze di garanzia analoghe a quelle della sentenza n. 93 del 2010 segnava anche il procedimento concernente le misure di sicurezza, il cui scopo precipuo era la verifica di una condizio-ne attuale di pericolosità dell’interessato, alla quale eventualmente consegue (rendendo la “posta in gio-co” particolarmente alta) l’applicazione di provve-dimenti di forte limitazione della libertà personale.

Si trattava di «un procedimento all’esito del quale il

giudice è chiamato ad esprimere un giudizio di me-rito, idoneo ad incidere in modo diretto, definitivo e sostanziale su un bene primario dell’individuo, costi-tuzionalmente tutelato, quale la libertà personale».

La Corte, poi, generalizzando i risultati determi-nati dalla sentenza n. 135 del 2014, ha dichiarato, con la sentenza n. 97 del 2015, l’illegittimità costituzionale degli artt. 666, comma 3, e 678, comma 1, cpp, questa volta nella parte in cui non consentivano che, su istan-za degli interessati, il procedimento davanti al tribu-nale di sorveglianza nelle materie di sua competenza si svolgesse nelle forme dell’udienza pubblica e dunque in relazione a ogni altra questione, ulteriore rispetto alle misure di sicurezza, che la legge riserva alla tratta-zione del tribunale di sorveglianza. Si trattava comun-que di procedimenti con elevata «posta in gioco», privi di carattere spiccatamente «tecnico» e anzi essenzial-mente finalizzati a un accertamento in fatto.

Ciò fino alla sentenza n. 109 del 2015, con la quale la Corte ha esteso il sistema della pubblicità a domanda alle udienze del procedimento di esecuzione che tratti di misure di sicurezza patrimoniali, dichiarando l’ille-gittimità costituzionale degli artt. 666, comma 3, 667, comma 4, e 676 cpp, nella parte in cui non consenti-vano che, su istanza degli interessati, il procedimento di opposizione contro l’ordinanza in materia di appli-cazione della confisca si svolgesse, davanti al giudice dell’esecuzione, nelle forme dell’udienza pubblica.

Nell’ambito di tale sequenza di pronunce, si inse-risce la sentenza n. 263 del 2017, la quale ha rigettato le questioni di legittimità costituzionale, in riferimen-to agli artt. 3, 111, primo comma, e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 6, par. 1, Cedu, degli artt. 309, comma 8, e 127, comma 6, cpp, «nella parte in cui non consentono che il procedimento per il riesame delle misure cautelari si svolga, su richiesta dell’indagato o del ricorrente, nelle forme della pub-blica udienza».

Nella prospettazione del rimettente, un rilievo preminente assume la censura di violazione della garanzia della pubblicità dei procedimenti giudizia-ri, stabilita dall’art. 6, par. 1, Cedu, così come inter-pretato dalla Corte Edu: violazione cui consegue, di riflesso, quella dell’art. 117, primo comma, Cost. Ciò alla luce del noto indirizzo della giurisprudenza di questa Corte – inaugurato dalle sentenze nn. 348 e 349 del 2007 –, secondo il quale le norme della Cedu, nel significato loro attribuito (con giurisprudenza consolidata: sentenza n. 49 del 2015) dalla Corte di Strasburgo, specificamente istituita per dare a esse interpretazione e applicazione, integrano, quali «nor-me interposte», il citato para«nor-metro costituzionale, nella parte in cui impone la conformazione della le-gislazione interna ai vincoli derivanti dagli obblighi internazionali.

Il giudice a quo ritiene che una pronuncia di ille-gittimità costituzionale si imponga anche in rappor-to al procedimenrappor-to di riesame delle misure cautelari personali, che si caratterizza come procedimento non connotato da un elevato tasso di tecnicismo, trat-tandosi di giudizio volto a verificare «la fondatezza dell’addebito cautelare», sotto il profilo della sussi-stenza dei gravi indizi di colpevolezza e delle esigenze cautelari e in cui la «posta in gioco» sarebbe, inoltre, altissima, discutendosi dell’applicazione di provvedi-menti restrittivi della libertà personale che possono avere effetti coincidenti con quelli della pena irroga-ta con la sentenza definitiva e che incidono, altresì, sull’«onorabilità» del soggetto attinto.

Lo snodo cardine della pronuncia, con riferimen-to al parametro di cui all’art. 117 comma 1, Cost. in relazione all’art. 6 Cedu, attiene al fatto che la nor-ma interposta ricavabile dalla Cedu, come interpre-tata dai giudici di Strasburgo, destinata a integrare il parametro costituzionale evocato, risulta essere di segno diverso da quello ipotizzato dal giudice a quo.

Se è vero che la Corte Edu, nella sentenza 13 novem-bre 2007, Bocellari e Rizza c. Italia, richiamata dal giudice a quo, ha ritenuto incompatibile con la ga-ranzia della pubblicità dei procedimenti giudiziari il procedimento per l’applicazione delle misure di pre-venzione, del quale la legge italiana all’epoca vigente prevedeva la trattazione in forma camerale, è anche vero – osserva la Corte costituzionale – che, nel for-mulare la doglianza, il giudice a quo non ha tenuto conto «della giurisprudenza della Corte di Strasburgo attinente, in modo specifico, al procedimento di veri-fica della legittimità della detenzione ante iudicium della persona indiziata di un reato, secondo cui la Convenzione non richiede, in via di principio, che le relative udienze siano aperte al pubblico» (sentenza 15 novembre 2005, Reinprecht c. Austria, conferma-ta da sentenze successive conferma-tanto da dar luogo a una giurisprudenza consolidata).

Il suddetto procedimento, specificamente disci-plinato dall’art. 5, comma 4, Cedu, secondo la Corte europea «deve avere carattere giudiziale, assicurando il rispetto dei principi del contraddittorio e della “pa-rità delle armi”, in quanto “fondamentali garanzie di procedura” e richiede, nel caso in cui la detenzione ricada nella previsione dell’art. 5, paragrafo 1, lettera c) – ossia quando si tratti di detenzione preventiva della persona indiziata di un reato – lo svolgimento di un’udienza» senza imporre necessariamente il suo carattere pubblico. In particolare, tale requisito non può essere ritenuto implicito nella previsione dell’art.

5, par. 4, in quanto finalizzata alla protezione contro l’arbitrio, ovvero desunto dallo stretto collegamento esistente, nella sfera dei procedimenti penali, tra tale previsione e l’art. 6, par. 1 della Convenzione.

L’ap-plicabilità del citato art. 6, par. 1, nella fase anteriore al giudizio «resta, infatti, limitata alle garanzie che, se non applicate in questa fase, pregiudicherebbero l’“equità” dei processi “nella loro interezza”, pregiudi-zio che il difetto di pubblicità dell’udienza di riesame della legalità della detenzione, durante la quale l’inte-ressato sia stato assistito da un difensore, non appare invece idoneo a produrre».

La Corte, sempre richiamando il contenuto della citata pronuncia della Corte Edu, considera altresì, che «le disposizioni degli artt. 5, paragrafo 4, e 6, paragrafo 1, della CEDU, malgrado la loro connes-sione, perseguono diverse finalità. La prima mira a proteggere l’individuo contro l’arbitraria detenzione, garantendo un rapido riesame della legalità di ogni forma di privazione della libertà personale. L’art. 6, paragrafo 1, si occupa invece della verifica della fon-datezza di un’accusa penale ed è volto a garantire che il merito della causa – ossia la questione se l’accusato sia o no colpevole dei fatti contestatigli – fruisca di una “equa e pubblica udienza”. Tale diversità di obiet-tivi spiega perché l’art. 5, paragrafo 4, preveda requi-siti procedurali più flessibili di quelli dell’art. 6, men-tre sia molto più stringente con riguardo alla rapidità della decisione: esigenza con la quale la pubblicità delle udienze potrebbe collidere. Di qui la conclusio-ne che l’art. 5, paragrafo 4, della CEDU, “pur richie-dendo un’udienza per il riesame della legittimità della detenzione anteriore al giudizio, non richiede come regola generale che detta udienza sia pubblica”».

In tale ottica – dà atto la pronuncia – la pubblici-tà delle udienze, come affermato sempre dalla Corte Edu, «non rientra nel “nocciolo duro” delle garan-zie inerenti alla nozione di “equità”, nello specifico contesto dei procedimenti in materia di detenzione (Corte europea dei diritti dell’uomo, 31 maggio 2011, Khodorkovskiy contro Russia)», così come «la pro-cedura prevista dall’art. 5, par. 4, non deve sempre accompagnarsi a garanzie identiche a quelle pretese dall’art. 6, posto che le due disposizioni perseguono obiettivi differenti (tra le ultime, Corte europea dei diritti dell’uomo, 23 maggio 2017, Mustafa Avci con-tro Turchia; 13 dicembre 2016, Kolomenskiy concon-tro Russia)». A fronte di ciò, «in fattispecie nelle quali il difetto di pubblicità delle udienze dei procedimen-ti in quesprocedimen-tione era stata censurata in rapporto tanto all’art. 5 quanto all’art. 6 della CEDU», la Corte Edu ha «rigettato la censura ai sensi dell’art. 35, paragrafi 3 e 4, della Convenzione, reputandola manifestamen-te infondata (Cormanifestamen-te europea dei diritti dell’uomo, 6 di-cembre 2011, Rafig Aliyev contro Azerbaigian; 9 no-vembre 2010, Farhad Aliyev contro Azerbaigian)».

La Corte costituzionale si sofferma anche sul pa-rametro interno rappresentato dalla dedotta viola-zione dell’art. 111, primo comma, Cost., per contrasto

con i principi del «giusto processo». Essa ricorda, in via preliminare, come già prima della legge costituzio-nale n. 2/1999, al principio di pubblicità delle udienze giudiziarie, «pur in assenza di un esplicito richiamo in Costituzione, era stata riconosciuta una indubbia valenza costituzionale, in particolare quale corollario della previsione dell’art. 101, primo comma, Cost. (se-condo la quale “[l]a giustizia è amministrata in nome del popolo”)». Tuttavia, era stato precisato come tale regola non avesse valore assoluto ma fosse affidato alla discrezionalità legislativa il bilanciamento dei vari interessi in gioco (sentenze nn. 235 del 1993 e 373 del 1992), «potendo il legislatore introdurre deroghe al principio di pubblicità in presenza di particolari ragioni giustificative, purché obiettive e razionali (n.

50 del 1989 e n. 212 del 1986), e, nel caso del dibatti-mento penale, collegate ad esigenze di tutela di beni a rilevanza costituzionale (sentenza n. 12 del 1971)». Al principio di pubblicità, pur non espressamente costi-tuzionalizzato neppure in occasione dell’inserimento in Costituzione dei principi del «giusto processo» a opera della l. cost. n. 2/1999, era stata tuttavia ricono-sciuta tale valenza individuandone il riferimento nor-mativo nella previsione del novellato primo comma dell’art. 111 Cost. (secondo la quale «[l]a giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla leg-ge»), sul presupposto che rappresentasse una compo-nente coessenziale del processo equo.

Va rilevato che la Corte riconosce che, nelle prece-denti sentenze nn. 109 e 97 del 2015 e n. 135 del 2014, l’illegittimità costituzionale, oltre che per la violazio-ne dell’art. 117, primo comma, Cost., in relazioviolazio-ne alla disciplina convenzionale, era stata pronunciata anche per la violazione dell’art. 111, primo comma, Cost.

Tuttavia, nel caso concreto si esclude che l’inter-vento auspicato dal giudice a quo possa ritenersi im-posto dalla norma costituzionale interna sul «giusto processo», la quale non impone «in modo indefettibi-le la pubblicità di ogni tipo di procedimento giudizia-rio e di ogni fase di esso». La Corte opera, infatti, una ricostruzione delle caratteristiche del riesame, il quale

«costituisce un procedimento incidentale, innestato sul tronco di un più ampio procedimento penale e non inerente al merito della pretesa punitiva (non diretto, cioè, a stabilire se l’imputato sia colpevole o innocen-te), ma finalizzato esclusivamente a verificare, in tem-pi ristrettissimi e perentori, la sussistenza dei presup-posti della misura cautelare applicata». Non si tratta, inoltre, «di una sedes deputata all’acquisizione della

«costituisce un procedimento incidentale, innestato sul tronco di un più ampio procedimento penale e non inerente al merito della pretesa punitiva (non diretto, cioè, a stabilire se l’imputato sia colpevole o innocen-te), ma finalizzato esclusivamente a verificare, in tem-pi ristrettissimi e perentori, la sussistenza dei presup-posti della misura cautelare applicata». Non si tratta, inoltre, «di una sedes deputata all’acquisizione della