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Il diritto penale nella giurisprudenza della Corte costituzionale degli ultimi anni

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Il diritto penale nella giurisprudenza della Corte costituzionale degli ultimi anni

di Raffaele Gargiulo

Lo scritto si propone di esaminare alcune significative pronunce della Corte costituzionale rese nell’ultimo lustro nella materia del diritto penale e, in particolare, della procedura penale, analizzandone i contenuti, le rationes e i residui profili problematici. Si sono privilegiate soprattutto quelle pronunce che si inseriscono in filoni già oggetto di attenzione da parte della Corte, attinenti alla procedura penale.

1. L’inviolabilità della libertà personale / 1.1. Automatismi nell’individuazione delle misure cautelari (il reato di associazione di tipo mafioso e quello di associazione a scopo di terrorismo) / 1.2. La deroga all’obbli- go di custodia cautelare in carcere per il genitore di figlio infraseienne / 1.3. la riserva di legge in materia di libertà personale / 2. Il diritto di azione e di difesa / 2.1. La legittimazione dello Stato in via esclusiva a costituirsi parte civile per il danno ambientale / 2.2. Il divieto di chiamata in giudizio del responsabile civile da parte dell’imputato, notaio assicurato per obbligo di legge / 2.3. Diritto di accesso e diritto di difesa nei riti speciali / 2.4. Contestazioni suppletive e diritto di accesso ai riti speciali / 2.5. Diversa qualificazione del fatto e accesso alla messa alla prova / 3. Il principio del contraddittorio nella formazione della prova / 4. La ragionevole durata del processo / 5. Terzietà e imparzialità del giudice / 6. Le regole sul processo della Cedu, di altre convenzioni internazionali e del diritto dell’Unione come para- metri interposti / 6.1. Principio di pubblicità delle udienze e riesame / 6.2. Ne bis in idem e doppio binario sanzionatorio / 6.2.1. I riflessi della sentenza Grande Stevens c. Italia sulla giurisprudenza costituzionale / 6.2.2. I riflessi della sentenza A e B c. Norvegia sulla giurisprudenza costituzionale / 6.2.3. Ne bis in idem nell’ambito della Cedu e nell’ambito dell’Unione europea / 6.2.4. Ne bis in idem alla luce della giurispruden- za convenzionale: idem factum e concorso formale di reati / 6.2.5. Un ulteriore incidente di costituzionalità motivato dalla necessità di conformarsi alla sentenza della Corte Edu Scoppola c. Italia (fattispecie relativa alla richiesta di giudizio abbreviato formulato nella vigenza del dl n. 341/2000) / 7. La messa alla prova:

l’acquisizione degli atti delle indagini preliminari ai fini della decisione sulla richiesta di messa alla prova; il principio di presunzione di innocenza sino alla condanna definitiva; il principio di legalità penale; le prerogative del potere giudiziario

1. L’inviolabilità della libertà personale 1.1. Automatismi nell’individuazione delle misure cautelari (il reato di associazione di tipo mafioso e quello di associazione

a scopo di terrorismo)

La produzione della giurisprudenza costituziona- le a proposito di inviolabilità della libertà personale, e

della relativa riserva di legge e di giurisdizione, è stata nel tempo piuttosto cospicua.

Nel periodo di riferimento, occorre registrare due recenti interventi della Corte relativamente ai vincoli posti, nella materia cautelare personale, alla discrezio- nalità del giudice. Ciò con riguardo all’individuazione della misura restrittiva necessaria e sufficiente a garan- tire le esigenze indicate all’art. 274 cpp e avuto riguardo alla novella che, nel 2015, ha interessato l’art. 275 cpp.

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Giova ricordare che nel corso del 2015, proprio e anche in conseguenza della lunga serie di pronunce della Corte iniziata con la pronuncia n. 265 nel 2010, il legislatore ha quasi completamente rinunciato allo strumento della presunzione per la determinazione della misura cautelare personale applicabile nei singo- li casi di specie. Nel contesto di un’ampia riforma delle cautele (legge 16 aprile 2015, n. 47, recante «Modifi- che al codice di procedura penale in materia di misu- re cautelari personali. Modifiche alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di visita a persone affette da handicap in situazione di gravità»), il testo del com- ma 3 dell’art. 275 cpp è stato novellato sì che l’applica- zione necessaria della custodia in carcere – sempreché non debba escludersi la ricorrenza di esigenze cautela- ri – risulta ormai disposta solo per delitti associativi di matrice sovversiva, terroristica o mafiosa, come san- zionati dagli artt. 270, 270-bis e 416-bis cp.

È proprio in relazione alla presunzione concer- nente il reato di cui all’art. 416-bis cp che è nuova- mente intervenuta la Corte, confermando sostanzial- mente, anche con riguardo alla nuova formulazione della disposizione, sia il precedente risalente al 1995 sia in generale la sua giurisprudenza più recente, la quale aveva sempre posto in evidenza la peculia- rità della fattispecie dell’associazione a delinquere di stampo mafioso. Peraltro si è chiuso, in qualche modo, il cerchio, in quanto la Corte si è occupata per la prima volta anche della presunzione assoluta in tema di reato di cui all’art. 289-bis cp, vale a dire dell’associazione a delinquere a fini di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico. Anche in tal caso la pronuncia, sicuramente di interesse, ha concluso per l’infondatezza della questione di legittimità costi- tuzionale sollevata.

Al fine di meglio chiarire il senso della pronuncia intervenuta nel periodo in esame, giova ricordare che vi è stata una rilevante evoluzione della giurispruden- za costituzionale in materia, la quale è intervenuta con riferimento alla previgente formulazione dell’art.

275, comma 3, cpp. Essa stabiliva, a fianco di una presunzione relativa di sussistenza delle esigenze cautelari («salvo che siano acquisiti elementi dai qua- li risulti che non sussistono esigenze cautelari»), una presunzione assoluta di adeguatezza della sola misu- ra cautelare della custodia in carcere, applicabile in rapporto a un’ampia serie di reati.

Il punto di svolta si è avuto con la sentenza n. 265 del 2010, che ha posto il primo freno alla sopraindi- cata presunzione assoluta presente nella norma. Ad

1. Si rinvia, per una più approfondita trattazione delle pronunce, a G. Leo, Sei anni di giurisprudenza costituzionale sul processo penale, Corte costituzionale, Servizio studi, STU 294, marzo 2016, (www.cortecostituzionale.it/documenti/convegni_seminari/STU_294_Sei_

anni_giurisprudenza.pdf).

essa ne sono seguite molte altre (sentt. nn. 164, 231, 331 del 2011, 110 del 2012, 57, 213, 232 del 2013, 48 del 2015) che hanno riguardato i reati richiamati nel- la citata disposizione.

Tra i criteri utilizzati dalla Corte per valutare il te- sto vigente all’epoca dell’art. 275, comma 3, cpp vi è quello per cui «le presunzioni assolute, specie quando limitano un diritto fondamentale della persona, vio- lano il principio di eguaglianza, se sono arbitrarie e irrazionali, cioè se non rispondono a dati di esperien- za generalizzati, riassunti nella formula dell’id quod plerumque accidit». Si è dunque specificato come l’irragionevolezza della presunzione assoluta si colga tutte le volte in cui sia “agevole” formulare ipotesi di accadimenti reali contrari alla generalizzazione posta alla base della presunzione medesima.

Alla luce di questi principi, la Corte ha esaminato i casi in cui la «carcerazione obbligatoria» veniva sta- bilita sulla base del titolo del reato contestato all’in- dagato o all’imputato.

Giova ricordare che, con le riforme attuate fino al 2009, la platea dei reati a «carcerazione obbligato- ria» era stata fortemente ampliata, fino a comprende- re gran parte dei delitti sessuali, l’omicidio volontario e i più gravi tra i reati attribuiti alla cognizione del procuratore «distrettuale» (a norma dei commi 3-bis e 3-quater dell’art. 51 cpp). La dilatazione progressi- va dei delitti rispetto ai quali operava la presunzione ha indebolito la relativa base empirica, senza più as- sicurare un’accettabile frequenza delle corrisponden- ze tra caratteristiche del caso concreto e previsione astratta1.

Inoltre, la Corte, nell’opera di applicazione dei principi enunciati in apertura, ha conferito rilievo risolutivo alle differenze tra i reati di mafia e quelli nella specie sottoposti alla sua valutazione.

La Corte, nell’ambito di una logica di auto-conte- nimento già adottata a proposito del patrocinio a spe- se dell’erario, ha ritenuto illegittima la presunzione in relazione al suo carattere assoluto, di fatto ricono- scendo al legislatore la possibilità di fondare sul titolo del reato modificazioni del regime di prova in punto di adeguatezza del trattamento cautelare.

In conclusione, la norma censurata contrastava con l’art. 3 Cost., ma anche con l’art. 13, primo com- ma, quale parametro fondamentale per il regime del- le misure cautelari privative della libertà personale, e con l’art. 27, secondo comma, in quanto attribuiva alla coercizione processuale tratti funzionali tipici della sanzione.

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La Corte, pertanto, seguendo il medesimo sche- ma nelle varie pronunce, ha dichiarato l’illegittimi- tà costituzionale dell’art. 275, comma 3, secondo e terzo periodo, cpp, come modificato dall’art. 2 dl n.

11/2009, nella parte in cui – nel prevedere che, quan- do sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine ai singoli delitti di volta in volta oggetto di esame, è applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sus- sistono esigenze cautelari – non fa salva, altresì, l’i- potesi in cui siano acquisiti elementi specifici, in rela- zione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure.

Al riguardo vanno ricordate le sentenze: n. 265 del 2010, riguardante i delitti di cui agli articoli 600- bis, primo comma, 609-bis e 609-quater cp; n. 164 del 2011, riguardante il delitto di cui all’art. 575 cp (omicidio); n. 231 del 2011, in tema di associazione a delinquere finalizzata al narcotraffico (art. 74 dPR n. 309/1990); n. 110 del 2012, in tema di associazio- ne per delinquere “semplice”, art. 416 cp, quando commessa al fine di realizzare illeciti pertinenti alla contraffazione dei marchi e al commercio di cose con segni mendaci e marchi contraffatti (artt. 473 e 474 cp); n. 57 del 2013, riguardante i delitti commessi mediante il cd. «metodo mafioso», o commessi al fine di agevolare l’attività di un’organizzazione ma- fiosa, per i quali è previsto un aggravamento di pena (art. 7 dl 13 maggio 1991, oggi inserito nell’art. 416- bis.1); n. 213 del 2013, in tema di sequestro di per- sona a scopo di estorsione (art. 630 cp); n. 232 del 2013, riguardante la violenza sessuale di gruppo; n.

48 del 2015, in tema di concorso esterno nel reato di cui all’art. 416-bis cp. In relazione alla sentenza n.

331 del 2011, la quale non ha riguardato l’art. 275, comma 3, cpp, ma una norma speciale, il comma 4-bis dell’art. 12 d.lgs 25 luglio 1998, n. 286, di con- tenuto corrispondente a quella del codice di rito, che imponeva l’applicazione della custodia in carcere con riguardo ai reati di favoreggiamento dell’immigra- zione clandestina, la dichiarazione di illegittimità si è articolata comunque nel medesimo verso delle pre- cedenti. Sostanzialmente, la presunzione assoluta si è trasformata in presunzione relativa.

Particolarmente rilevanti, ai fini dell’esame della pronuncia n. 136 del 2017, rientrante nel periodo in esame, appaiono le pronunce n. 57 del 2013 e n. 47 del 2015, relative a due fattispecie contigue all’asso- ciazione mafiosa. In particolare la sent. n. 57/2013 riguarda i delitti commessi mediante il cosiddetto

«metodo mafioso», o commessi al fine di agevolare l’attività di una organizzazione mafiosa, per i quali è previsto un aggravamento di pena (art. 7 dl 13 mag- gio 1991, recante «Provvedimenti urgenti in tema di lotta alla criminalità organizzata e di trasparenza e

buon andamento dell’attività amministrativa», con- vertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, l. 12 luglio 1991, n. 203, oggi confluito nell’art. 416-bis.1 cp) e in relazione ai quali, per effetto dell’inclusione nel novero dei reati di competenza della cd. procura distrettuale (art. 51, comma 3-bis, cpp), era appunto vigente l’obbligo sancito dal comma 3 dell’art. 275.

Secondo un metodo ormai collaudato, la Corte ha valutato nel dettaglio la portata della fattispecie sostanziale, al fine di verificare la maggiore o minore omogeneità dei comportamenti in essa ricompresi, e dunque la ricorrenza di una costante nel senso della pericolosità più elevata. L’ha fatto, in particolare, con riguardo alla fattispecie come interpretata dal diritto vivente: considerandola dunque integrata a fronte di un qualsiasi effetto di agevolazione, e anche a fronte di condotte riferibili a persone non partecipi dell’or- ganizzazione interessata. Proprio la possibilità di ap- plicazione nei confronti di soggetti estranei al vincolo associativo ha comportato la differenza essenziale del caso da decidere rispetto a quello attinente all’asso- ciazione a delinquere di stampo mafioso, richiamato già dalla sentenza n. 265 del 2010: è “agevole” con- cepire casi di integrazione della fattispecie da parte di soggetti che, pur responsabili di fatti dalla conno- tazione mafiosa (magari in modo occasionale), siano liberi da quei vincoli interni di intimidazione e di con- dizionamento territoriale che hanno storicamente ed empiricamente reso assai probabile la reiterazione di comportamenti delittuosi.

La Corte ha giudicato illegittima (alla luce de- gli artt. 3, 13, primo comma, e 27, secondo comma, Cost.) la previsione di un automatismo non superabi- le, stabilendo che la custodia in carcere potesse essere evitata in presenza di «elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cau- telari possono essere soddisfatte con altre misure».

Nella specie si è, però, precisato che il giudice non avrebbe potuto trascurare quale elemento fondamen- tale, per la valutazione di ciascun caso concreto, la posizione di intraneità o di estraneità dell’agente alla compagine associativa cui viene eventualmente rife- rita la condotta in contestazione.

Nel caso della sentenza n. 48 del 2015, la Corte si è occupata invece della fattispecie di “concorso ester- no” nell’associazione mafiosa, pervenendo alla me- desima dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art. 275, comma 3, nel senso di ribaltare la pre- sunzione legislativa, da assoluta a relativa. Il giudizio della Corte si è fondato proprio sull’idea centrale che caratterizza le contestazioni di concorso esterno, cioè che un soggetto possa partecipare a un fatto associa- tivo, assumendone la corresponsabilità, pur senza es- sere strutturalmente partecipe dell’organizzazione e dunque senza essere legato ad essa da quel vincolo,

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fondato anche sull’intimidazione interna, che rende statisticamente implausibile ipotesi di una rottura con l’ambiente criminale, e dunque di una diminuzio- ne della pericolosità. La Corte ha preso atto, inoltre, che la condotta di concorso esterno può essere inte- grata anche da un solo contributo alla sopravvivenza o al rafforzamento dell’organizzazione, circostanza che, a sua volta, può rendere inefficace il ragionamen- to presuntivo che riguarda i futuri comportamenti della persona accusata.

L’ordinanza n. 136 del 2017, ha dichiarato, invece, manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3, 13, primo comma, e 27, secondo comma, Cost., dell’art. 275, comma 3, cpp, «nella parte in cui nel prevedere che quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in or- dine al delitto di cui all’art. 416-bis c.p. è applicata la misura della custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussi- stono esigenze cautelari, non fa salva, altresì, l’ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautela- ri possono essere soddisfatte con altre misure».

La questione concerne l’art. 4, comma 1, l. n.

47/2015, il quale sostituendo il secondo periodo del comma 3 dell’art. 275 cpp, ha limitato la presunzione assoluta di adeguatezza della sola custodia in carce- re ai reati di cui agli artt. 270, 270-bis e 416-bis cp, mentre per gli altri reati oggetto della disposizione previgente ha previsto una presunzione relativa, sta- bilendo che possono essere applicate anche misure cautelari personali diverse dalla custodia in carcere, quando in concreto risultano sufficienti a soddisfare le esigenze cautelari.

La Corte sottolinea che con la modifica legislativa sopraindicata il legislatore «ha recepito la giurispru- denza della Corte, la quale, dapprima con la senten- za n. 265 del 2010 e successivamente con varie altre, ha dichiarato, rispetto ad alcuni delitti, costituzio- nalmente illegittimo l’art. 275, comma 3, cod. proc.

pen., nella parte in cui – nel prevedere che, quando sussistono gravi indizi di colpevolezza, è applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigen- ze cautelari – non faceva salva, altresì, l’ipotesi in cui fossero stati acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risultava che le esigenze cau- telari potevano essere soddisfatte con altre misure».

La Corte precisa di avere, fin dalla sentenza n. 265 del 2010 e, poi, in altre pronunce, «delineato la ratio giustificativa del particolare regime stabilito per gli imputati del reato previsto dall’art. 416-bis cod. pen., rilevando che l’appartenenza a un’associazione di tipo mafioso implica, nella generalità dei casi e secondo una regola di esperienza sufficientemente condivisa,

un’esigenza cautelare che può essere soddisfatta solo con la custodia in carcere, non essendo le misure “mi- nori” sufficienti a troncare i rapporti tra l’indiziato e l’ambito delinquenziale di appartenenza in modo da neutralizzarne la pericolosità».

Tale ratio era stata ribadita «anche nella sentenza relativa ai delitti aggravati dall’uso del metodo mafio- so o dalla finalità di agevolazione mafiosa (sentenza n. 57 del 2013) e in quella relativa al concorso esterno nell’associazione di tipo mafioso (sentenza n. 48 del 2015), che hanno riguardato fattispecie “contigue” a quella dell’art. 416-bis cod. pen., ma non caratterizza- te da un’uguale esigenza».

La Corte richiama la metodologia argomentativa seguita nelle pronunce concernenti il previgente art.

275, comma 3, cpp, rappresentata da «una compara- zione tra gli altri reati previsti da tale disposizione e og- getto delle varie questioni di legittimità costituzionale, da un lato, e l’associazione di tipo mafioso, dall’altro, rimarcando di volta in volta la diversità di quest’ul- tima». In particolare, individua un valido termine di riferimento nel delitto di associazione finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti, ma nell’effettuare il test di comparazione, rileva che delitto di associazio- ne di tipo mafioso, pur essendo come l’altro di natura associativa, «è “normativamente connotato – di rifles- so ad un dato empirico-sociologico – come quello in cui il vincolo associativo esprime una forza di intimi- dazione e condizioni di assoggettamento e di omertà, che da quella derivano, per conseguire determinati fini illeciti”». La specificità del vincolo mafioso implica ed è suscettibile di produrre, da un lato, «una solida e permanente adesione tra gli associati, una rigida orga- nizzazione gerarchica, una rete di collegamenti e un ra- dicamento territoriale e, dall’altro, una diffusività dei risultati illeciti, a sua volta produttiva di accrescimento della forza intimidatrice del sodalizio criminoso”».

Snodo cruciale nell’argomentazione della pro- nuncia è quello secondo cui «[s]ono tali peculiari connotazioni a fornire una congrua “base statistica”

alla presunzione considerata, rendendo ragionevole la convinzione che, nella generalità dei casi, le esigen- ze cautelari derivanti dal delitto in questione non pos- sano venire adeguatamente fronteggiate se non con la misura carceraria, in quanto idonea – per valersi delle parole della Corte europea dei diritti dell’uomo – “a tagliare i legami esistenti tra le persone interes- sate e il loro ambito criminale di origine”, minimiz- zando “il rischio che esse mantengano contatti perso- nali con le strutture delle organizzazioni criminali e possano commettere nel frattempo delitti” (sentenza 6 novembre 2003, Pantano contro Italia)» (sentenza n. 231 del 2011).

La Corte precisa che, in sede di comparazione, con riferimento all’art. 416-bis cp si è generalmente

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riferita alla fattispecie della partecipazione all’asso- ciazione di tipo mafioso. L’elemento ritenuto in gra- do di legittimare costituzionalmente «la presunzione assoluta di adeguatezza della sola custodia in carce- re è rappresentato infatti dallo stabile inserimento nell’associazione di tipo mafioso, il quale, per le ca- ratteristiche del vincolo, capace di permanere inal- terato nonostante le vicende personali dell’associato e di mantenerne viva la pericolosità, fa ritenere che questa non sia adeguatamente fronteggiabile con mi- sure cautelari “minori”». In tale ottica, pertanto «la diversa graduazione di gravità e di pericolosità tra le condotte dei singoli appartenenti all’associazione ri- leva ai fini della determinazione della pena da irroga- re in concreto, ma non incide sulle esigenze cautelari, perché anche la semplice partecipazione è idonea, per le connotazioni criminologiche del fenomeno mafio- so, a giustificare la presunzione sulla quale si basa la norma in questione».

Smentendo l’assunto del giudice a quo, la Corte nega che abbia rilievo la distinzione tra la posizione del partecipe e quella degli associati con ruoli api- cali, perché, «quali che siano le specifiche condotte dei diversi associati e i ruoli da loro ricoperti nell’or- ganizzazione criminale, il dato che rileva, e che sot- to l’aspetto cautelare li riguarda tutti ugualmente, è costituito dal tipo di vincolo che li lega nel contesto associativo, vincolo che fa ritenere la custodia in car- cere l’unica misura in grado di “troncare i rapporti tra l’indiziato e l’ambito delinquenziale di apparte- nenza, neutralizzandone la pericolosità”». Consegue a tali rilievi la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale in relazione a tutti i pa- rametri evocati.

Va aggiunto che la citata l. n. 47/2015 ha determi- nato, tra l’altro, l’ordinanza n. 41 del 2016, di restitu- zione degli atti della questione riguardante l’art. 275, comma 3, cpp in relazione al delitto di attività orga- nizzate per il traffico illecito di rifiuti, di cui all’art.

260 d.lgs 3 aprile 2006, n. 152 («Norme in materia ambientale»).

L’ultima pronuncia su tale tema specifico è stata la sentenza n. 191 del 2020, riguardante l’altra fatti- specie residua, vale a dire l’associazione a delinquere a scopo di terrorismo, caratterizzata dal punto di vista cautelare dalle due presunzioni, l’una relativa circa la sussistenza delle esigenze cautelari e l’altra assoluta, in ordine alla adeguatezza della sola custodia cautela- re in carcere. È proprio tale ultima presunzione che è stata oggetto della questione di legittimità costituzio- nale sulla quale si è pronunciata la Corte con la sen- tenza sopraindicata. Essa ha dichiarato non fondate, in riferimento agli artt. 3, 13, primo comma, e 27, se- condo comma della Costituzione, le questioni di legit- timità costituzionale sollevate dalla Corte di assise di

Torino con riguardo all’art. 275, comma 3, cpp, nella parte in cui – nel prevedere che, quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine al delitto di cui all’art. 270-bis cp, è applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari – non fa salva, altresì, l’ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risul- ti che le esigenze cautelari possano essere soddisfatte con altre misure meno afflittive.

La Corte analizza in modo specifico l’evoluzione legislativa che ha riguardato l’art. 275, comma 3, cpp e il susseguirsi delle sue pronunce in materia, che hanno portato all’ultima modifica normativa rappre- sentata dall’art. 4 l. n. 47/2015. La pronuncia è cali- brata non già sulla generalità dei reati compiuti con finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine demo- cratico, e in ispecie sui “reati fine” dell’associazione di cui all’art. 270-bis cpp, bensì proprio e specialmente sulle condotte associative (di promozione, costituzio- ne, organizzazione, direzione, finanziamento e mera partecipazione) contemplate dalla norma incrimina- trice in questione.

Nel percorso argomentativo della pronuncia assu- me rilievo centrale la giurisprudenza della Cassazione sul reato in questione, richiamata con dovizia di parti- colari. La formula legislativa allude dunque a un dop- pio livello finalistico che deve caratterizzare l’associa- zione nel suo complesso: a un primo livello, l’intento di compiere atti di violenza; a un livello ulteriore, la finalità ultima di tali condotte, indicata come «terro- rismo» o «eversione dell’ordine democratico». Una particolare attenzione è dedicata proprio alla nozione di finalità di terrorismo, regolata dall’art. 270-sexies cp, il quale considera, in particolare, «condotte con finalità di terrorismo» quelle che, sul piano oggettivo,

«per la loro natura o contesto, possono arrecare grave danno ad un Paese o ad un’organizzazione interna- zionale»; e, sul piano soggettivo, sono compiute con una delle tre finalità alternative indicate dalla norma, e cioè lo scopo: a) di intimidire la popolazione, b) di costringere i poteri pubblici o un’organizzazione in- ternazionale al compimento o al mancato compimen- to di un atto, ovvero c) di «destabilizzare o distrugge- re le strutture politiche fondamentali, costituzionali, economiche e sociali di un Paese o di un’organizzazio- ne internazionale». Appare rilevante sottolineare che la pronuncia, nell’analizzare le finalità in questione, richiamandosi alla giurisprudenza della Cassazione, rileva che «la terza finalità corrisponde in larga par- te alla tradizionale nozione di finalità di “eversione dell’ordine democratico”, divenuta così – oggi – una sottoipotesi della stessa finalità di terrorismo, così come definita dall’art. 270-sexies cod. pen.; sicché la loro duplice menzione, che pure è conservata nel

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testo e nella rubrica dell’art. 270-bis cod. pen. così come in varie altre norme incriminatrici, costituisce ormai una mera endiadi».

Uno degli snodi principali della pronuncia attiene al consueto confronto con la fattispecie di cui all’art.

416-bis cp. A differenza di quest’ultima, infatti, l’art.

270-bis cp non fornisce alcuna descrizione del modus operandi dell’associazione criminosa ivi disciplinata, né contempla alcun requisito di natura oggettiva in grado di orientare la discrezionalità dell’interprete.

Anche in questo caso sono richiamate le sentenze del- la Cassazione che fissano i requisiti dell’ipotesi di re- ato considerata e in particolar modo quelle che, in os- sequio al principio costituzionale di offensività, hanno in proposito chiarito che, «pur non richiedendosi la predisposizione di un programma operativo di azioni terroristiche, ai fini del riconoscimento di un’associa- zione ex art. 270-bis cod. pen. occorrerà tuttavia che risulti provata la “costituzione di una struttura orga- nizzativa con un livello di ‘effettività’ che renda pos- sibile la realizzazione del progetto criminoso (…). Ne deriva che la rilevanza penale dell’associazione si lega non alla generica tensione della stessa verso la fina- lità terroristica o eversiva, ma al proporsi il sodalizio la realizzazione di atti violenti qualificati da detta fi- nalità: costituiscono pertanto elementi necessari, per l’esistenza del reato, in primo luogo, l’individuazione di atti terroristici posti come obiettivo dell’associa- zione, quantomeno nella loro tipologia; e, in secondo luogo, la capacità della struttura associativa di dare agli atti stessi effettiva realizzazione nella lettura del- la fattispecie criminosa” (Corte di cassazione, sezione quinta penale, sentenza 14 luglio-14 novembre 2016, n. 48001; in senso analogo, ex multis, sezione sesta penale, sentenza n. 46308 del 2012; sezione sesta pe- nale, sentenza n. 25863 del 2009)».

Il confronto con l’art. 416-bis cp induce la Corte costituzionale a ritenere che l’art. 270-bis cp non for- nisce alcuna definizione nemmeno delle singole con- dotte relative all’associazione menzionate nel primo e nel secondo comma. Anche in questo caso si attinge pertanto al cd. “diritto vivente”, che in modo costi- tuzionalmente orientato ha precisato che la (mera)

“partecipazione”, che integra l’ipotesi meno grave tra quelle contemplate dalla norma e al tempo stesso segna la soglia minima della rilevanza penale della condotta associativa, «non può essere desunta dal solo riferimento all’adesione ideale al programma criminale, dalla comunanza di pensiero ed aspirazio- ni, ma occorre l’effettivo inserimento nella struttura organizzata, desumibile da condotte univocamente evocative e sintomatiche, consistenti nello svolgi- mento di attività preparatorie per l’esecuzione del programma e nell’assunzione di un ruolo concreto nell’organigramma criminale (Corte di cassazione,

sezione prima penale, sentenza 22 marzo-27 maggio 2013, n. 22719 e in senso analogo, più di recente, se- zione seconda penale, sentenza 4 dicembre 2019-27 febbraio 2020, n. 7808)».

Pur individuando ulteriori differenze tra l’asso- ciazione terroristica e quella di tipo mafioso, attinen- ti alla struttura rudimentale della prima rispetto alla seconda, che è invece caratterizzata da rigide gerar- chie e precise regole di ingresso nel sodalizio, il nu- cleo dell’argomentazione della pronuncia si coglie nel requisito dell’adesione a un’ideologia propugnante la violenza, che caratterizza la fattispecie in esame. La Corte costituzionale precisa infatti che «la “partecipa- zione” a un’associazione terroristica – e il rilievo vale, a maggior ragione, per le altre più gravi condotte de- scritte dalla norma incriminatrice – non si esaurisce nel compimento, pur necessario, di azioni concrete espressive del ruolo acquisito all’interno del sodalizio, ma presuppone altresì l’adesione a un’ideologia che, qualunque sia la visione del mondo ad essa sottesa e l’obiettivo ultimo perseguito, teorizza l’uso della vio- lenza in una scala dimensionale tale da poter cagionare un “grave danno” a intere collettività. Ed è proprio una simile adesione ideologica a contrassegnare nel modo più profondo la “appartenenza” del singolo all’asso- ciazione terroristica: un’appartenenza che – proprio come quella che lega, pur con modalità diverse, il par- tecipe all’associazione mafiosa – normalmente perdu- ra anche durante le indagini e il processo, e comunque non viene meno per il solo fatto dell’ingresso in carce- re del soggetto, continuando così a essere indicativa di una sua pericolosità particolarmente accentuata».

È proprio il (normale) permanere del vincolo di ap- partenenza del singolo all’associazione terroristica che è ritenuto alla base della valutazione legislativa che considera «le misure cautelari non custodiali, in primis gli arresti domiciliari», inidonee a controllare la sua del tutto peculiare pericolosità. Al riguardo, si evidenzia la pratica impossibilità di impedire che la persona sottoposta a misura extramuraria riprenda i contatti con gli altri associati ancora in libertà at- traverso l’uso di telefoni e di internet, in quanto tale prospettiva non appare efficacemente neutralizzabile mediante la semplice imposizione dei corrispondenti divieti all’atto della concessione della misura. Da ciò nasce il pericolo, osserva la Corte, che il soggetto si al- lontani senza autorizzazione dalla propria abitazione e commetta gravi reati in esecuzione del programma criminoso dell’associazione, di cui continua a far parte e dalla quale potrebbe continuare a ricevere ordini, ciò soprattutto in considerazione della struttura fluida, “a rete” di tali associazioni e in particolare dell’utilizza- zione di internet e dei social media non solo come mezzo di reclutamento e di indottrinamento degli as- sociati, ma anche come strumento di pianificazione

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e organizzazione degli attentati nei quali si sostanzia lo stesso programma criminoso dell’associazione. In conclusione, secondo la Corte, di fronte alla grandez- za dei rischi derivanti da misure diverse dalla custo- dia in carcere, la presunzione assoluta di adeguatez- za della sola custodia cautelare appare sostenuta da una congrua base empirico-fattuale, sì da sottrarsi al giudizio di irragionevolezza che ha colpito l’analoga presunzione che operava rispetto alle figure di reato – diverse dalla partecipazione all’associazione di tipo mafioso – sinora esaminate.

Aggiunge la Corte che «La compressione, peraltro solo parziale, dei poteri discrezionali del giudice trova qui giustificazione, nell’ambito di un bilanciamento che questa Corte non ritiene di poter censurare dal punto di vista della sua legittimità costituzionale, in relazione alla finalità di tutelare la collettività contro i gravissimi rischi che potrebbero derivare dall’even- tuale sopravvalutazione, da parte del giudice, dell’a- deguatezza di una misura non carceraria a contenere il pericolo di commissione di reati, pur ritenuto sussi- stente nel caso di specie». Il giudice deve peraltro va- lutare, nella fase genetica e poi nell’intero arco della vicenda cautelare, l’effettiva sussistenza e permanen- za delle esigenze cautelari, e di disporre la revoca del- la misura in essere ogniqualvolta risulti che, nel caso concreto, tali esigenze non sussistano o siano cessa- te, anche alla luce dell’eventuale percorso di distacco dall’associazione e dai suoi programmi criminosi che l’imputato abbia nel frattempo compiuto.

1.2. La deroga all’obbligo di custodia cautelare in carcere per il genitore di figlio infraseienne

Sempre in materia di libertà personale, si è re- gistrata una pronuncia di rilievo anche riguardo alla deroga all’obbligo di custodia cautelare in carcere per la madre di figlio infraseienne.

Essa riguarda anche il tema del bilanciamento tra le esigenze di difesa sociale e la garanzia della fun- zione genitoriale, quale presidio primario di diritti riconosciuti ai bambini, anche in sede sovranaziona- le. Tale pronuncia si segnala anche per riaffermare la distinzione tra lo status di detenuto in espiazione di pena e quello di detenuto in esecuzione di misura cautelare personale.

Con l’ordinanza n. 17 del 2017, in particolare, la Corte ha dichiarato infondate le questioni di legit- timità costituzionale in riferimento agli artt. 3, 13, 24, 31 e 111 Cost., dell’art. 275, comma 4, cpp, «nella parte in cui prevede che non possa essere disposta o mantenuta la custodia cautelare in carcere nei con- fronti di imputati, detenuti per gravi reati, che siano genitori di prole solo di età non superiore a sei anni».

La Corte parte dalla premessa secondo cui «l’in- dividuazione normativa del limite dei sei anni di età del minore per l’applicazione del divieto di custodia cautelare in carcere non può essere accostata alle presunzioni legali assolute che comportano l’appli- cazione di determinate misure o pene sulla base di un titolo di reato, con l’effetto di impedire al giudi- ce di tenere conto delle situazioni concrete o delle condizioni personali del destinatario della misura o della pena».

La pronuncia chiarisce il diverso meccanismo alla base dei commi 3 e 4 dell’art. 275 cpp, precisando che l’automatismo che il rimettente lamenta è, semmai, quello contenuto nel citato art. 275, comma 3, il qua- le, «laddove sussistano esigenze cautelari, prevede – per gli imputati di alcuni gravi reati, fra i quali quello di cui all’art. 416-bis cod. pen. – che esse siano soddi- sfatte solo attraverso la custodia in carcere. È questa presunzione, in realtà, ad impedire al giudice di valu- tare la specifica idoneità di ciascuna misura in rela- zione alla natura e al grado delle esigenze cautelari».

La Corte, però, anticipando in un certo senso il con- tenuto dell’ordinanza n. 136 del 2017 (vds. supra), ri- leva che «tale presunzione è stata considerata non ir- ragionevole da questa Corte, poiché i tratti tipici della criminalità mafiosa (qualificata da forte radicamento territoriale, fitta rete di collegamenti personali, alta capacità di intimidazione) forniscono un fondamento razionale alla valutazione legislativa –basata su dati di esperienza generalizzata, riassunti nella formula dell’id quod plerumque accidit – di adeguatezza della sola misura custodiale carceraria».

La disposizione espressamente censurata, cioè il successivo comma 4 dell’art. 275 cpp, invece, contie- ne «un divieto di applicazione della custodia cautela- re in carcere, riferito ad alcune categorie di imputati (tra i quali la madre di figli minori infraseienni con lei conviventi); un divieto, si osservi, di carattere gene- rale, che prescinde, cioè, dal titolo di reato e non è ri- feribile, pertanto, alle sole ipotesi considerate all’art.

275, comma 3, cod. proc. pen.». La Corte, aderendo alla giurisprudenza di legittimità, precisa che «non si è in presenza di una “situazione di automatismo”, ma, al contrario, di una deroga (sia pur soggetta a con- dizioni e limiti) ai criteri che i commi precedenti del medesimo articolo dettano in tema di applicazione delle misure cautelari e, quindi, anche alla presunzio- ne legale stabilita al comma precedente».

L’attenzione della pronuncia si focalizza, poi, su un’ulteriore censura sollevata nell’ordinanza del giu- dice a quo, consistente nel porre in discussione, alla luce degli artt. 3 e 31 Cost., la valutazione che il legi- slatore ha compiuto in astratto, bilanciando le esigen- ze di difesa sociale, da un lato, e l’interesse del mino- re, dall’altro.

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Osserva pertanto la Corte che il divieto posto dall’art. 275, comma 4, cpp «è frutto del giudizio di valore operato dal legislatore, il quale stabilisce che, nei termini e nei limiti ricordati, sulla esigenza pro- cessuale e sociale della coercizione intramuraria deve prevalere la tutela di un altro interesse di rango costi- tuzionale, quello correlato alla protezione costituzio- nale dell’infanzia, garantita dall’art. 31 Cost.».

Dopo avere ripercorso l’evoluzione legislativa ri- guardante il comma 4 dell’art. 275 cpp, che ha com- portato varie modulazioni del citato bilanciamento,

«caratterizzate dal progressivo ampliamento della tutela accordata» all’interesse del minore, fino ad ar- rivare alla disposizione oggetto di scrutinio, la Cor- te rileva che la scelta legislativa, pur riconoscendo

«[l]’elevato rango dell’interesse del minore a fruire in modo continuativo dell’affetto e delle cure mater- ne, tuttavia, non lo sottrae in assoluto ad un possibile bilanciamento con interessi contrapposti, pure di ri- lievo costituzionale, quali sono certamente quelli di difesa sociale, sottesi alle esigenze cautelari, laddove la madre sia imputata di gravi delitti», come si evince dalla stessa disposizione censurata, «che fa comun- que salve le esigenze cautelari di eccezionale rilevan- za anche in presenza di un figlio minore di sei anni».

Tale scelta «appare non irragionevolmente giusti- ficata dalla considerazione che tale età coincide con l’assunzione, da parte del minore, dei primi obblighi di scolarizzazione e, dunque, con l’inizio di un processo di (relativa) autonomizzazione rispetto alla madre».

La Corte aggiunge che l’accoglimento della que- stione, nei termini dell’addizione richiesta, avrebbe assegnato una «prevalenza assoluta all’interesse del minore, a prescindere dalla sua età, a mantenere un rapporto continuativo con la madre, cancellando il bilanciamento compiuto dal legislatore», mentre la soluzione di affidare alla discrezionalità del giudice l’apprezzamento caso per caso della particolare con- dizione del minore, avrebbe incongruamente asse- gnato al giudice penale il compito di applicare una misura all’imputato, sulla base di valutazioni relative non già a quest’ultimo, ma a un soggetto terzo – il minore – estraneo al processo.

La Corte rileva, inoltre, che «Tutte le misure che i codici penale e di procedura penale, nonché la leg- ge 26 luglio 1975, n. 354, recante “Norme sull’ordi- namento penitenziario e sull’esecuzione delle misure privative e limitative della libertà”, prevedono a tute- la dei minori, in relazione alla condizione detentiva dei genitori, indicano al giudice un criterio oggettivo, calibrato sull’età del minore (oltre alla disposizione oggetto del presente giudizio e a quella, ad essa col- legata, contenuta all’art. 285-bis cod. proc. pen., si ricordino gli artt. 146 e 147 cod. pen. e gli artt. 21-bis, 21-ter, 47-ter e 47-quinquies della legge n. 354 del

1975). E non può trascurarsi che tali criteri oggettivi – posti dal legislatore in riferimento alla condizione di un soggetto, il minore, estraneo al processo e non coinvolto nelle valutazioni sulla pericolosità dell’im- putato – costituiscono anche un efficace usbergo del- la serenità del giudice, chiamato a delicate decisioni, in special modo nei casi relativi a gravi delitti di cri- minalità organizzata».

Di conseguenza la Corte ha escluso che la norma de qua determinasse un’ingiustificata disparità di trattamento rispetto a disposizioni dell’ordinamen- to penitenziario che tutelano il preminente interesse dei minori, figli di condannati in via definitiva, sino al compimento dei dieci anni. A fronte dell’identico in- teresse del minore a mantenere un rapporto costante ed equilibrato con le figure genitoriali e della perdu- rante necessità di evitare che il costo della strategia di lotta al crimine venga irragionevolmente traslato su un soggetto terzo estraneo alle attività delittuose delle quali un genitore sia imputato o in conseguen- za delle quali sia stato definitivamente condannato, il carattere cautelare o esecutivo del titolo di detenzione della madre o del padre condiziona profondamente le contrapposte esigenze di difesa sociale.

La Corte precisa che «le disposizioni in materia cautelare finalizzate alla tutela dell’interesse dei mi- nori figli di genitori imputati non costituiscono ido- nei tertia comparationis rispetto a quelle analoghe dettate dall’ordinamento penitenziario per i genitori ristretti a seguito di condanna», sottolineando, da un lato, «la non assimilabilità, ai fini di uno scruti- nio di eguaglianza, di status fra loro eterogenei, quel- lo dell’imputato sottoposto ad una misura cautelare personale, (…) e quello del condannato in fase di esecuzione della pena»; e, dall’altro, le diverse fun- zioni della pena e della custodia cautelare in carcere, che come tutte le misure cautelari, a differenza della pena, è volta a presidiare i pericula libertatis, cioè a evitare la fuga, l’inquinamento delle prove e la com- missione di reati.

Se le rispettive esigenze di difesa sociale sono di natura profondamente diversa, ne consegue – secon- do la Corte – che il principio da porre in bilanciamen- to con l’interesse del minore è, nei due casi, differente e non raggiunge, pertanto, il livello della irragionevo- lezza manifesta la circostanza che il bilanciamento tra tali distinte esigenze e l’interesse del minore fornisca esiti non coincidenti.

Infine, la Corte osserva che le disposizioni del codice di procedura penale e dell’ordinamento peni- tenziario, sono «attualmente orientate nel senso di assicurare in via primaria il rapporto del minore con la madre». L’allegata assenza del padre non avrebbe potuto giustificare l’estensione del divieto di applica- zione della custodia cautelare alle imputate madri di

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figli di età superiore ai sei anni, poiché questa solu- zione ispirata al principio dell’indispensabile presen- za di uno dei due genitori, condurrebbe a giustificare persino la custodia in carcere della madre, se il padre è presente, secondo una ratio del tutto eccentrica ri- spetto al contesto normativo sopraindicato.

1.3. La riserva di legge in materia di libertà personale

Altro filone della giurisprudenza costituzionale riguarda la disciplina dell’astensione dalle udienze degli avvocati, che viene in rilievo con riguardo al principio della riserva di legge assoluta in materia di libertà personale stabilita dall’art. 13, comma 5, Cost.

La sentenza n. 180 del 2018 ha dichiarato l’illegit- timità costituzionale dell’art. 2-bis l. 13 giugno 1990, n. 1462, nella parte in cui consente che il codice di autoregolamentazione delle astensioni dalle udien- ze degli avvocati – adottato in data 4 aprile 2007 dall’Organismo unitario dell’avvocatura (Oua) e da altre associazioni categoriali (Ucpi, Anf, Aiga, Uncc), valutato idoneo dalla Commissione di garanzia per lo sciopero nei servizi pubblici essenziali con delibera n.

07/749 del 13 dicembre 2007 e pubblicato nella Gaz- zetta ufficiale n. 3 del 2008 – nel regolare, all’art. 4, comma 1, lett. b, l’astensione degli avvocati nei proce- dimenti e nei processi in relazione ai quali l’imputato si trovi in stato di custodia cautelare, interferisca con la disciplina della libertà personale dell’imputato.

La pronuncia presenta molteplici aspetti di inte- resse: oltre ai significativi profili di merito, si è occu- pata di una questione interpretativa di non scarso ri- lievo, in materia di processo costituzionale, attinente ai contenuti e all’estensione dell’obbligo, conseguente alla sollevazione di una questione di costituzionalità, di sospendere il processo principale ex art. 23, com- ma 2, l. n. 87/19533.

Nel merito, la Corte ritiene che la «questione po- sta in riferimento all’art. 13, quinto comma, Cost. è fondata nei limiti e nei termini che seguono, con con-

2. Recante «Norme sull’esercizio del diritto di sciopero nei servizi pubblici essenziali e sulla salvaguardia dei diritti della persona costi- tuzionalmente tutelati. Istituzione della Commissione di garanzia dell’attuazione della legge».

3. La Corte ha affermato, tra l’altro, che «l’art. 23 della legge n. 87 del 1953, interpretato alla luce del principio della ragionevole durata del processo che pervade ogni giudizio – civile, penale, o amministrativo che sia –, non esclude che il giudice rimettente possa limitare il provvedimento di sospensione al singolo momento o segmento processuale in cui il giudizio si svolge, ove solo ad esso si applichi la disposizione censurata e la sospensione dell’attività processuale non richieda di arrestare l’intero processo, che può proseguire con il com- pimento di attività rispetto alle quali la questione sia del tutto irrilevante», restando fermo il controllo da parte della Corte costituzionale

«dell’effettiva possibilità di circoscrivere la rilevanza della questione, che rimane pur sempre incidentale e che, come tale, è pregiudiziale rispetto ad una decisione del giudice rimettente». Vds., al riguardo, R. Gargiulo, Quattro anni di giurisprudenza costituzionale sul proces- so penale (2016-2019), Corte costituzionale, Servizio studi, STU 314, maggio 2020 (www.cortecostituzionale.it/documenti/convegni_se- minari/STU%20314_ProcessoPenale_2016-2019.pdf).

4. Recante «Modifiche ed integrazioni della legge 12 giugno 1990, n. 146, in materia di esercizio del diritto di sciopero nei servizi pubblici essenziali e di salvaguardia dei diritti della persona costituzionalmente tutelati».

seguente assorbimento degli altri profili di dedotta illegittimità costituzionale».

Essa muove dalla sentenza n. 171 del 1996, che ha riconosciuto che «“l’astensione dalle udienze degli avvocati e procuratori è manifestazione incisiva della dinamica associativa volta alla tutela di questa forma di lavoro autonomo”, in relazione alla quale è identi- ficabile, più che una mera facoltà di rilievo costituzio- nale, un vero e proprio diritto di libertà», da porre in bilanciamento «con altri valori costituzionali merite- voli di tutela, tenendo conto che il secondo comma, lettera a), dell’art. 1, della legge 146 del 1990 indica fra i servizi pubblici essenziali “l’amministrazione della giustizia, con particolare riferimento ai provvedimen- ti restrittivi della libertà personale ed a quelli cautelari ed urgenti nonché ai processi penali con imputati in stato di detenzione”». Nel bilanciamento tra questi valori e il diritto del difensore di aderire all’astensione collettiva, i primi hanno una «forza prevalente».

La Corte osserva che la legge n. 146/1990, che non aveva operato tale bilanciamento non avendo affatto previsto l’astensione collettiva dei professionisti, era risultata (all’epoca) carente, non prevedendo una ra- zionale e coerente disciplina che includesse tutte le altre manifestazioni collettive capaci di comprimere detti valori primari. Con la sentenza n. 171 del 1996, quindi, è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 2, commi 1 e 5, l. n. 146/1990, nella parte in cui non prevedeva, nel caso dell’astensione collettiva dall’attività defensionale degli avvocati e dei procura- tori legali, l’obbligo di un congruo preavviso e di un ragionevole limite temporale dell’astensione e, altresì, nella parte in cui non prevedeva gli strumenti idonei a individuare e assicurare le prestazioni essenziali du- rante l’astensione stessa, nonché le procedure e le mi- sure conseguenziali nell’ipotesi di inosservanza.

Il legislatore è intervenuto solo qualche anno dopo, con la legge 11 aprile 2000, n. 834, inserendo nella l. n. 146/1990 il censurato art. 2-bis.

La Corte ha quindi chiarito che tale articolo «ri- conosce il diritto (sindacale) di “astensione collettiva

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dalle prestazioni, a fini di protesta o di rivendicazio- ne di categoria” e fissa, al contempo, il principio del necessario “contemperamento con i diritti della per- sona costituzionalmente tutelati”, ma poi coinvolge gli stessi destinatari di questo bilanciamento richie- dendo l’adozione, da parte “delle associazioni o degli organismi di rappresentanza delle categorie interes- sate”, di “codici di autoregolamentazione”.

Il suddetto rinvio è ritenuto formale perché ri- mette alla disciplina subprimaria il completamento della regolamentazione, ossia l’individuazione delle fattispecie di “prestazioni indispensabili”, e non già materiale, che richiede invece che «il richiamo sia in- dirizzato a norme determinate ed esattamente indivi- duate dalla stessa norma che lo effettua”».

È stato inoltre evidenziato che il codice di auto- regolamentazione, in virtù della delibera di idoneità adottata dalla Commissione di garanzia, autorità am- ministrativa indipendente, costituisce una vera e pro- pria normativa subprimaria e non già solo un atto di autonomia privata delle associazioni categoriali che raggruppano gli avvocati nell’esercizio del diritto di associarsi (art. 18 Cost.), con validità erga omnes. Tale codice vincola il giudice, se le sue disposizioni sono conformi alla legge (art. 101, secondo comma, Cost.).

La Corte osserva che la «disposizione del codice di autoregolamentazione (art. 4, comma 1, lettera b) richiama in particolare l’art. 420-ter, comma 5, cod.

proc. pen. che stabilisce che il giudice provvede a nor- ma del comma 1, rinviando ad una nuova udienza, nel caso di assenza del difensore, quando risulta che l’assenza stessa è dovuta ad assoluta impossibilità di comparire per legittimo impedimento, con conse- guente sospensione dei termini di durata massima della custodia cautelare ai sensi dell’art. 304 cod.

proc. pen., salvo che l’imputato chieda che si proce- da in assenza del difensore impedito. Espressamente, quindi, la disposizione del codice di autoregolamen- tazione mira ad introdurre – ed introduce – una fat- tispecie analoga e parallela a quella legale che, dando rilievo all’assenso dell’imputato, incide parimenti sul prolungamento, o no, dei termini di durata massima

5. E. Gianfrancesco, Il codice di autoregolamentazione degli avvocati come fonte del diritto di natura secondaria, in Giur. cost., n. 4/2018, pp. 1918 ss.; T. Alesci, Astensione collettiva e procedimento con detenuti. La decisione della Consulta e le ricadute processuali, in Processo penale e giustizia, n. 1/2019, pp. 91 ss.; E. Aprile, La Consulta interviene sul tema dell’adesione del difensore all’astensione dalle udienze e sugli effetti sul regime cautelare dell’imputato, in Cass. pen., n. 4/2019, pp. 1540 ss.; F. Ciampi, L’iter processuale deve prevalere sul diritto di sciopero, in Guida al diritto, n. 35-36/2018, pp. 73 ss.; L. Diotallevi, La Corte costituzionale si pronuncia sull’astensione forense nei processi con imputati in stato di custodia cautelare: interrogativi di natura processuale e ragioni di ordine sostanziale, in Giur. cost., n. 4/2018, pp. 1929 ss.; T.F. Giupponi, L’interpretazione “costituzionalmente orientata” dell’incidentalità: la Corte e il Codice di autore- golamentazione dell’astensione collettiva degli avvocati, tra riserva di legge e disapplicazione, in Forum di Quad. cost., n. 6/2019 (www.

forumcostituzionale.it/wordpress/wp-content/uploads/2019/06/nota_giupponi_180_2018_14_2019.pdf); S. Lonati, L’astensione del di- fensore dalle udienze nei processi con imputati in custodia cautelare: in attesa di un intervento del legislatore riemerge per il giudice il potere di bilanciamento dei diritti costituzionali in conflitto, in Giur. cost., n. 4/2018, pp. 1942 ss.; G. Pecorella, Una sentenza della Corte co- stituzionale (apparentemente) oscura. Può ancora esercitarsi il diritto di astensione nei processi con imputati detenuti?, in Dir. pen. cont., 17 ottobre 2018; R. Rudoni, Promovimento in via incidentale del processo costituzionale e sospensione “parziale” del processo principale, in Forum di Quad. cost., n. 3/2019 (www.forumcostituzionale.it/wordpress/wp-content/uploads/2019/03/nota_180_2018_rudoni.pdf).

della custodia cautelare, e finisce per toccare proprio la disciplina legale di tali termini».

Proprio per tale profilo, la Corte ha ritenuto la nor- mativa censurata in contrasto con la prescrizione del- la riserva di legge di carattere assoluto posta dall’art.

13, quinto comma, Cost., in quanto solo la legge può stabilire i limiti massimi della carcerazione preventi- va, oggi custodia cautelare. A livello di fonti primarie, il «codice di rito prevede un’articolata disciplina dei termini di durata, fissando termini finali complessi- vi, in funzione di limite massimo insuperabile, sì da coprire l’intera durata del procedimento, garantendo, da un lato, un ragionevole limite di durata della cu- stodia cautelare, e, dall’altro, attribuendo al giudice una discrezionalità vincolata nella valutazione della sussistenza dei presupposti per la sua sospensione ex art. 304 cod. proc. pen. (sentenza n. 204 del 2012)».

La Corte ha ribadito che i «“limiti che deve incon- trare la durata della custodia cautelare, discendono direttamente dalla natura servente che la Costitu- zione assegna alla carcerazione preventiva rispetto al perseguimento delle finalità del processo, da un lato, e alle esigenze di tutela della collettività, dall’al- tro, tali da giustificare, nel bilanciamento tra interes- si meritevoli di tutela, il temporaneo sacrificio della libertà personale di chi non è ancora stato giudicato colpevole in via definitiva” (sentenze n. 219 del 2008 e n. 229 del 2005)».

Alla luce di tali considerazioni, la Corte ha conclu- so nel senso che la norma censurata viola la riserva di legge posta dall’art. 13, quinto comma, Cost., nella par- te in cui consente al codice di autoregolamentazione di interferire nella disciplina nella libertà personale; in- terferenza consistente nella previsione che l’imputato sottoposto a custodia cautelare possa richiedere, o no, in forma espressa, di procedere malgrado l’astensione del suo difensore, con l’effetto di determinare, o no, la sospensione, e quindi il prolungamento, dei termini massimi (di fase) di custodia cautelare.

Tale pronuncia lascia aperto il problema delle sue ricadute, in ordine al quale si è cimentata la dottri- na5. Sembra evidente che, stante la dichiarazione di

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illegittimità costituzionale sopraindicata, in assenza di una nuova disposizione di legge, non è consentita ai difensori l’adesione a iniziative di astensione dalle udienze proclamate dalle associazioni di categoria nei procedimenti con imputati detenuti (per i fatti per cui si procede)6. L’astensione dei difensori nei procedi- menti e nei processi in relazione ai quali l’imputato si trova in stato di custodia cautelare oggi è priva di copertura normativa, tenuto conto che la disciplina subprimaria contenuta nel richiamato art. 4, comma 1, lett. b del codice di autoregolamentazione, la quale trovava fondamento nella norma primaria, ritenuta illegittima proprio nella parte in cui fa rinvio al citato art. 4, non è più applicabile. Se si volesse ritenere che, in astratto, nei procedimenti in cui l’imputato si trovi in stato di custodia cautelare, il difensore possa anco- ra esercitare il diritto di aderire all’astensione colletti- va7, non sarebbe possibile un rinvio del procedimento penale ad altra udienza e, soprattutto, non sarebbe più consentita la sospensione dei termini di durata massima della custodia cautelare ai sensi dell’art. 304 cpp. Al riguardo appare estremamente significativo che, in occasione della proclamazione dell’astensione dalle udienze per i giorni dal 20 al 23 novembre 2018, la giunta dell’Unione delle camere penali italiane, con la decisione dell’8 novembre, ha deliberato «secondo le vigenti regole di autoregolamentazione, nel rispet- to della sentenza della Corte costituzionale n. 180 del 2018 e dunque con esclusione dei processi con impu- tati detenuti in custodia cautelare».

2. Il diritto di azione e di difesa 2.1. La legittimazione dello Stato in via esclusiva a costituirsi parte civile per il danno ambientale

Con riferimento al diritto di difesa, con riguar- do in particolare al diritto di promuovere una certa azione e di prendere parte a un determinato procedi- mento penale, vanno segnalate numerose pronunce.

La sentenza n. 126 del 2016 ha affrontato la tematica relativa alla legittimazione dello Stato in via esclusiva a costituirsi parte civile per il danno ambientale. La questione di legittimità costituzionale è sollevata con riguardo alla normativa posta dal codice dell’ambien- te, la quale costituisce il punto di arrivo di un’evolu- zione complessa, frutto anche dell’influenza determi- nante esplicata dalla disciplina europea.

6. In tal senso vds. anche E. Aprile, La Consulta interviene sul tema dell’adesione del difensore all’astensione dalle udienze e sugli effetti sul regime cautelare dell’imputato, in Cass. pen., n. 4/2019, p. 1543.

7. G. Pecorella, Una sentenza, op. cit.

La questione sollevata dal Tribunale ordinario di Lanusei nel procedimento penale promosso a carico di M.F. e altri, per il reato di cui all’art. 437, commi 1 e 2, cp ha ad oggetto, in riferimento agli artt. 2, 3, 9 24 e 32 Cost., l’art. 311, comma 1, d.lgs 3 aprile 2006, n. 152 («Norme in materia ambientale»), nella parte in cui attribuisce al Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, e per esso allo Stato, la legittimazione all’esercizio dell’azione per il risarci- mento del danno ambientale, escludendo quella con- corrente o sostitutiva della Regione e degli enti locali sul cui territorio si è verificato il danno.

Con la sentenza n. 126 del 2016, la Corte ha ri- tenuto infondato il dubbio di costituzionalità che si sostanzierebbe, in sintesi, nell’asserita inadeguatezza della disciplina impugnata a salvaguardare la tutela dell’ambiente, anche in relazione al ruolo delle auto- nomie locali.

La Corte, dopo aver analizzato l’evoluzione della normativa ambientale, evidenzia che, in attuazione della direttiva n. 220/35/CE, il codice dell’ambien- te (d.lgs n. 152/2006) ha statuito «la priorità delle misure di “riparazione” rispetto al risarcimento per equivalente pecuniario, quale conseguenza dell’as- soluta peculiarità del danno al bene o risorsa “am- biente”». Pertanto due sono le opzioni di scelta che il citato art. 311 riconosce al Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare: la via giudizia- ria o quella amministrativa. Nel secondo caso (artt.

313 e 314 codice dell’ambiente), «con ordinanza immediatamente esecutiva, il Ministero ingiunge a coloro che siano risultati responsabili del fatto il ri- pristino ambientale a titolo di risarcimento in forma specifica entro un termine fissato». In caso di man- cato adempimento in tutto o in parte al ripristino, il Ministro «determina i costi delle attività necessarie a conseguire la completa attuazione delle misure an- zidette secondo i criteri definiti con il decreto di cui al comma 3 dell’art. 311 e, al fine di procedere alla realizzazione delle stesse, con ordinanza ingiunge il pagamento, entro il termine di sessanta giorni dalla notifica, delle somme corrispondenti».

Si rileva che «la scelta di attribuire all’ammini- strazione statale le funzioni amministrative trova una non implausibile giustificazione nell’esigenza di as- sicurare che l’esercizio dei compiti di prevenzione e riparazione del danno ambientale risponda a criteri di uniformità e unitarietà, atteso che il livello di tutela ambientale non può variare da zona a zona e conside- rato anche il carattere diffusivo e transfrontaliero dei

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problemi ecologici, in ragione del quale gli effetti del danno ambientale sono difficilmente circoscrivibili entro un preciso e limitato ambito territoriale».

La disciplina censurata che «ha riservato allo Sta- to, ed in particolare al Ministro dell’ambiente e del- la tutela del territorio e del mare, il potere di agire, anche esercitando l’azione civile in sede penale, per il risarcimento del danno ambientale (art. 311), e ha mantenuto solo “il diritto dei soggetti danneggiati dal fatto produttivo di danno ambientale, nella loro salu- te o nei beni di loro proprietà, di agire in giudizio nei confronti del responsabile a tutela dei diritti e degli interessi lesi” (art. 313, comma 7, secondo periodo)», costituisce secondo la Corte la conseguenza logica del cambiamento di prospettiva intervenuto nella mate- ria. All’esigenza di «unitarietà della gestione del bene

“ambiente” non può infatti sottrarsi la fase risarcito- ria. Essa, pur non essendo certo qualificabile come amministrativa, ne costituisce il naturale completa- mento, essendo volta a garantire alla istituzione su cui incombe la responsabilità del risanamento, la di- sponibilità delle risorse necessarie, risorse che hanno appunto questa specifica ed esclusiva destinazione».

L’assetto ora descritto «non esclude che ai sensi dell’art. 311 del d.lgs. n. 152 del 2006 sussista il potere di agire di altri soggetti, comprese le istituzioni rap- presentative di comunità locali, per i danni specifici da essi subiti». La Corte ricorda, infatti, al riguardo proprio la giurisprudenza della Corte di cassazione, che ha più volte affermato in proposito «che la nor- mativa speciale sul danno ambientale si affianca (non sussistendo alcuna antinomia reale) alla disciplina generale del danno posta dal codice civile, non po- tendosi pertanto dubitare della legittimazione degli enti territoriali a costituirsi parte civile iure proprio, nel processo per reati che abbiano cagionato pregiu- dizi all’ambiente, per il risarcimento non del danno all’ambiente come interesse pubblico, bensì (al pari di ogni persona singola od associata) dei danni di- rettamente subiti: danni diretti e specifici, ulteriori e diversi rispetto a quello, generico, di natura pubblica, della lesione dell’ambiente come bene pubblico e di- ritto fondamentale di rilievo costituzionale».

Infine, la Corte ha escluso il paventato rischio di una inazione statuale, nel caso di mancata costituzio- ne di parte civile. Fermo restando che la proposizione della domanda nel processo penale è solo una delle opzioni previste dal legislatore, potendo lo Stato agire direttamente in sede civile, o in via amministrativa,

«l’interesse giuridicamente rilevante di cui sono por- tatori gli altri soggetti istituzionali non può che atte- nere alla tempestività ed effettività degli interventi di risanamento» e il codice dell’ambiente consente alle Regioni, alle Province autonome e agli enti locali, anche associati, oltre agli altri soggetti ivi previsti, di

presentare al Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, denunce e osservazioni, correda- te da documenti e informazioni, concernenti qualsiasi caso di danno ambientale o di minaccia imminente di danno ambientale e di chiedere l’intervento statale a tutela dell’ambiente, esplicitando l’azionabilità di tale interesse dinanzi al giudice amministrativo.

2.2. Il divieto di chiamata in giudizio del responsabile civile da parte dell’imputato, notaio assicurato per obbligo di legge

La Corte, con la sentenza n. 34 del 2018, ha di- chiarato non fondate, in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost., le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 83 cpp «nella parte in cui non prevede la fa- coltà dell’imputato di citare in giudizio il proprio as- sicuratore, quando questo sia responsabile civile ex lege per danni derivanti da attività professionale».

Le questioni sono state sollevate nell’ambito di un processo penale a carico di un notaio, assicurato per obbligo di legge contro la responsabilità civile per i danni derivanti dall’esercizio della propria attività professionale.

La Corte non ha ritenuto estensibile all’assicura- zione obbligatoria per la responsabilità civile del no- taio la ratio decidendi della sentenza n. 112 del 1998, che aveva giudicato lesiva dell’art. 3 Cost. la denun- ciata disposizione nella parte in cui non prevedeva che, nel caso di responsabilità civile derivante dalla assicurazione obbligatoria prevista dalla legge 24 dicembre 1969, n. 990, l’assicuratore potesse essere citato nel processo penale a richiesta dall’imputato.

Secondo la Corte, le enunciazioni di principio rac- chiuse nella sentenza n. 112 del 1998 «si presentano intimamente saldate alle “specifiche caratteristiche che rendono del tutto peculiare la posizione dell’as- sicuratore chiamato a rispondere, ai sensi della legge n. 990 del 1969, dei danni derivanti dalla circolazione dei veicoli e dei natanti”, implicando “una correlazio- ne tra le posizioni coinvolte di spessore tale da ren- dere necessariamente omologabile il (…) regime ad esse riservato, tanto in sede civile che nella ipotesi di esercizio della domanda risarcitoria in sede penale”

(sentenza n. 75 del 2001)».

La decisione del 1998 ha messo risalto due aspetti: «gli artt. 18 e 23 della legge n. 990 del 1969 (trasfusi nell’art. 144 del Codice delle assicurazioni private), prevedendo, rispettivamente, l’azione di- retta del danneggiato nei confronti dell’assicurato- re e il litisconsorzio necessario fra responsabile del danno e assicuratore nel giudizio promosso contro quest’ultimo, consentono di collocare la particolare ipotesi di responsabilità civile in discorso fra i casi ai quali si riferisce il secondo comma dell’art. 185 cod.

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