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IV. LA SPEDIZIONE GERMANICA

2. Le relazioni tra romani e barbari

La spedizione germanica si presenta come una campagna condotta con gli obiettivi di vendicare la clades variana del 9 d.C. e di incutere timore, attraverso una serie di incursioni, ai Germani. Non tutte le tribù germaniche si trovavano tuttavia in conflitto con i Romani. Il nemico di Roma era infatti Arminio, il quale era stato capace di portare dalla propria parte un gran numero di Germani. Alcuni capi barbari erano però in buoni rapporti con Roma o scelsero, tra il 14 e il 16 d.C., sostenere Tiberio.

I rapporti tra Romani e Germani assunsero prevalentemente la forma di ambascerie, anche se Tacito riporta episodi in cui Germanico veniva raggiunto da disertori barbari o da supplici, che alla battaglia preferivano arrendersi a Roma.463 Erano ambasciatori quelli che Segeste inviò per chiedere l’intervento romano contro coloro che erano passati dalla parte di Arminio e lo tenevano sotto assedio. Tra gli ambasciatori Segeste inviò anche il figlio Segimondo, che si diceva si fosse però schierato tra i Germani quando questi si erano ribellati.464 Segeste voleva forse dimostrare in questo modo di avere piena fiducia nella clemenza e nella generosità dei Romani nonché nell’alleanza che da tempo li legava. In seguito alla liberazione Segeste pronunciò un discorso in cui ricordava e ribadiva il legame che lo univa a Roma: «non è questo il primo giorno in cui io offro testimonianza di costante lealtà al popolo romano. Dal giorno che da Augusto mi è stata largita la cittadinanza romana, ho scelto amici e nemici, mirando soltanto all’utile vostro, non per ostilità verso la patria, poiché i traditori sono invisi anche a coloro che essi favoriscono, ma perché ritenevo che i Romani e i Germani avessero interessi comuni e che la pace dovesse preferirsi alla guerra. Perciò io posi in stato di accusa alla presenza di Varo, allora capo dell’esercito, Arminio, il rapitore di mia figlia, colui che violò il patto sancito con voi. Procrastinato ogni provvedimento per l’inerzia del

463 Tac. Ann. II, 12. 464 Tac. Ann. I, 57, 2.

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generale, io scongiurai Varo perché traesse in arresto me, Arminio e i partecipi delle leggi: mi è testimone quella notte, che dio volesse fosse stata l’ultima per me! I fatti che seguirono si possono meglio narrare piangendo che giustificare: per altro io trassi in catene Arminio, e io a mia volta dalla sua fazione fui costretto in catene. Dal momento che mi è dato parlare con te, io mi affretto a dichiarare che preferisco l’antico stato di cose al presente, e la quiete ai perturbamenti, non per averne un premio, ma per fare atto di pentimento della mia slealtà e nello stesso tempo divenire il naturale rappacificatore della gente germanica, se preferirà la confessione della colpa alla rovina. Domando perdono per l’errore giovanile di mio figlio: ammetto, poi, che mia figlia è stata qui condotta per forza. Tocca a te giudicare, se per lei valga più il fatto che abbia concepito una creatura di Arminio, oppure che sia nata da me».465 Segeste sembra affidarsi totalmente a Germanico. In primis egli si dichiara cittadino romano per concessione di Augusto. Come Arminio, anche Segeste aveva avuto già dei precedenti contatti con i Romani e si era particolarmente distinto per aver offerto il proprio aiuto a Varo. È probabile che Segeste fosse consapevole delle accuse di tradimento che Arminio gli rivolgeva e pare che, attraverso questo discorso, egli volesse discolparsi agli occhi dei suoi uomini e allontanare dai Romani l’immagine di traditore che egli poteva assumere. La sola cosa che Segeste dichiarava di aver avuto a cuore era la pace. Per questo egli era passato dalla parte dei Romani, probabilmente perché intuiva che prima o poi essi avrebbero assoggettato la Germania e che dunque fosse più vantaggioso essere loro alleati. L’atteggiamento di Segeste pare fosse di ossequio e riverenza nei confronti di Germanico: egli si dichiarava consapevole dell’onore ricevuto ottenendo di poter parlare con il comandante romano; si presentava supplice e mortificato per la slealtà del figlio; rimetteva a Germanico qualsiasi decisione relativa alla figlia la quale, nonostante fosse stata rapita, era divenuta la moglie di Arminio e ora da lui aspettava un figlio. La posizione di Segeste poteva essere compromessa anche dal ruolo giocato dal fratello Segimero in seguito alla battaglia di Teutoburgo. Si riteneva infatti che il figlio di Segimero avesse straziato il corpo di Varo. Ad ogni modo

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Tac. Ann. I, 58, 1-5. Non hic mihi primus erga populum Romanum fidei et constantiae dies. ex quo a divo Augusto civitate donatus sum, amicos inimicosque ex vestris utilitatibus delegi, neque odio patriae (quippe proditores etiam iis quos anteponunt invisi sunt), verum quia Romanis Germanisque idem conducere et pacem quam bellum probabam. ergo raptorem filiae meae, violatorem foederis vestri, Arminium apud Varum, qui tum exercitui praesidebat, reum feci. dilatus segnitia ducis, quia parum praesidii in legibus erat, ut me et Arminium et conscios vinciret flagitavi: testis illa nox, mihi utinam potius novissima! quae secuta sunt defleri magis quam defendi possunt: ceterum et inieci catenas Arminio et a factione eius iniectas perpessus sum. atque ubi primum tui copia, vetera novis et quieta turbidis antehabeo, neque ob praemium, sed ut me perfidia exsolvam, simul genti Germanorum idoneus conciliator, si paenitentiam quam perniciem maluerit. pro iuventa et errore filii veniam precor: filiam necessitate huc adductam fateor. tuum erit consultare utrum praevaleat quod ex Arminio concepit an quod ex me genita est.

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Germanico gli inviò un’ambasceria e concesse a lui e al figlio il perdono in cambio della loro

alleanza.466

Il successo di Segeste si deve probabilmente alle soluzioni espressive da lui impiegate, sia a livello gestuale sia per quanto riguarda le tematiche, scelte tra quelle a cui i Romani potevano essere più sensibili. L’atteggiamento di Segeste fu remissivo e di riverenza e anche a parole egli sembra aver ribadito la superiorità romana: egli sosteneva infatti che fosse preferibile per lui e i suoi uomini affidarsi alla potenza di Roma. Segeste richiamò inoltre la sconfitta subita da Varo e l’offerta di aiuto che gli aveva proposto, forse per cercare di indurre Germanico ad accettare l’alleanza e a non commettere lo stesso errore – sottovalutare Arminio – di Varo. È, infine, ipotizzabile che sia stato Segeste a convincere Germanico a perdonare l’offesa per poter riunire attorno a sé alleati barbari con cui far fronte alla coalizione antiromana di Arminio.

A Segeste si oppone la figura di Arminio. Oltre alle allocuzioni alle truppe già analizzate, Arminio fece sentire la propria voce anche tramite l’invio di soldati, con una strategia comunicativa che esplicita l’esistenza di negoziazioni. Poco prima della battaglia di Idistaviso, ad esempio, Arminio inviò un barbaro, che conosceva il latino, a provocare le truppe romane. A nome del proprio comandante, il barbaro «annunciò che si promettevano ai disertori donne, campi e, finché fosse durata la guerra, uno stipendio di cento sesterzi al

giorno».467

Per i Romani, scrive Tacito, questo fu un insulto. È ipotizzabile che le promesse di Arminio siano quindi state rivolte in tono canzonatorio e che tramite esse i Germani volessero attaccare i nemici nel loro orgoglio di Romani. Data infatti la considerazione che i Germani avevano dimostrato di avere nei confronti dei traditori, riferendosi agli episodi di Segeste e di Maroboduo, è possibile che essi volessero contrapporsi ai Romani, che a differenza loro sembravano accogliere volentieri quanti tradivano. Per questo, sembra poter essere sottinteso, gli stessi Romani sarebbero stati pronti a passare dalla parte dei nemici se fosse stato più vantaggioso combattere contro Roma. Ciò andava contro quell’orgoglio patrio a cui invece Germanico si era appellato fin dalle ribellioni del 14.

Sembra importante sottolineare che la provocazione di Arminio seguì l’incontro con il fratello Flavo, che il capo germanico aveva istigato chiedendogli quale fosse stata la ricompensa per il volto sfigurato. Flavo, che militando tra i Romani ne aveva acquisito i modi

466 Tac. Ann. I, 71. 1. 467 Tac. Ann. II, 13, 2.

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e i costumi, aveva elencato l’aumento della paga e i donativi militari che aveva ricevuto e Arminio aveva così cominciato a prendersi gioco di lui – e indirettamente di tutti quei Germani che combattevano per Roma – sostenendo che la servitù a cui spontaneamente si era piegato aveva davvero un basso prezzo.468 Agli occhi di Arminio Flavo non era altro che un traditore della patria che aveva barattato la libertà in cambio di ricompense insignificanti. Doveva essere però riconoscente al fratello per avergli offerto degli argomenti con cui provocare gli avversari.

In una posizione ambigua nelle relazioni con i Romani sembra trovarsi invece Maroboduo. In

Ann. II. 46 Maroboduo si presenta ai Germani come l’alternativa ad Arminio. Egli sosteneva

infatti «che in lui era rappresentato tutto l’onore dei Cherusci e che ai consigli suoi si doveva la fortuna delle imprese. Arminio, insensato e ignorante di cose di guerra, attribuiva a sé la gloria degli altri, egli che solo con la perfida astuzia aveva tratto in inganno tre legioni disperse e un generale che non sospettava tradimento; impresa che aveva portato grande rovina alla Germania e a lui la vergogna di sapere ancora in schiavitù sua moglie e suo figlio. Egli stesso, invece, preso di mira da dodici legioni, sotto il comando di Tiberio, aveva conservato pura la gloria dei Germani, per cessare poi la guerra in condizioni favorevoli: né si doleva che fosse in loro potere preferire una guerra continua contro i Romani o una pace

incruenta».469

Maroboduo pare rovesciare qualsiasi elemento Arminio usasse per incitare i propri uomini. Come Arminio fece con le imprese dei Romani, anche Maroboduo sminuiva le imprese dell’avversario, sostenendo che la vittoria che aveva riportato non era dovuta a una particolare abilità strategica ma alla cattiva astuzia che lo caratterizzava. Segue un nuovo confronto, questa volta per decretare chi dei due capi barbari fosse maggiormente degno di rappresentare gli interessi dei Germani. Per Maroboduo le sue azioni militari erano di gran lunga superiori a quelle di Arminio. Lo stesso schema, dunque, che si può tracciare nei discorsi che vedono opporsi comandanti romani e capi barbari pare ripresentarsi nei discorsi

relativi alle discordie interne alla popolazione germanica.

La sorte fu tuttavia avversa a Maroboduo che, abbandonato da tutti, dovette chiedere aiuto ai

468 Tac. Ann. II, 9, 2-3; Powell 2016, p. 104. 469

Tac. Ann. II, 46, 1-2. […] illo in corpore decus omne Cheruscorum, illius consiliis gesta quae prospere ceciderint testabatur: vaecordem Arminium et rerum nescium alienam gloriam in se trahere, quoniam tres vagas legiones et ducem fraudis ignarum perfidia deceperit, magna cum clade Germaniae et ignominia sua, cum coniunx, cum fiius eius servitium adhuc tolerent. At se duodecim legionibus petitum duce Tiberio inlibatam Germanorum gloriam servavisse, mox condicionibus aequis discessum; neque paenitere quod ipsorum in manu sit, integrum adversum Romanos bellum an pacem incruentam malint.

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Romani. In questo caso si trattò dell’invio di missive a Tiberio, in cui si ricordava come in passato egli fosse stato amico dei Romani. Il tono con cui Maroboduo si rivolse a Tiberio non doveva essere simile a quello umile e a tratti supplice di Segeste ma austero e fiero, poiché Tacito scrive che egli si rivolse a Tiberio come colui che non dimenticava di essere stato un re celebre e che, nonostante in molti lo acclamassero, egli aveva preferito l’alleanza con i Romani. Tiberio accolse la richiesta di aiuto di Maroboduo ma non dovette probabilmente gradire il tono da lui usato. Maroboduo infatti, dal momento in cui si stabilì a Ravenna, non uscì più dall’Italia. Tiberio dunque gli era andato incontro ma aveva adottato quel solito atteggiamento dissimulatore che le fonti gli attribuiscono. Se a Maroboduo aveva garantito accoglienza e lo aveva assicurato del fatto che, qualora lo avesse voluto, se ne sarebbe potuto andare, in senato al contrario il princeps esaltò la grandezza del re ma allo stesso tempo dichiarò che mai nessun altro era stato causa di così grande timore per i Romani. Da questo momento Maroboduo cessò di essere un potenziale pericolo per Roma.