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4. SECONDE NOZZE E RICOSTITUZIONE DELLA FAMIGLIA IN

4.2 Il remarriage in Italia

Nell‟epoca precedente il declino della mortalità non era infrequente l‟interruzione del matrimonio per la precoce morte di uno dei coniugi e, di conseguenza, le nozze di vedovi e vedove erano assai comuni. Tra il Settecento e l‟Ottocento in Italia, come nel resto dell‟Europa, la quota di matrimoni in cui almeno un coniuge era vedovo si attestava fra il 20 ed il 25% (Dupaquier et al., 1981), valore che superava il 30% negli anni successivi al manifestarsi di epidemie (Livi Bacci, 1978).

Il fenomeno delle seconde nozze incideva non solo sull‟esistenza del coniuge superstite e su quella degli eventuali figli (Willführ, Gagnon, 2011), ma

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Massimo Esposito – Analisi socio-demografica della Sardegna (secc. XIX-XXI). Approcci micro e macro. Università degli studi di Sassari – Dottorato di ricerca in Diritto ed Economia dei Sistemi Produttivi

sortiva effetti anche sulla vita socio-demografica dell‟intera comunità, in considerazione dei problemi connessi alla ripartizione tra gli aventi diritto dei beni del coniuge defunto, rispetto ai quali la decisione del vedovo o della vedova a convolare a nuove nozze era determinante.

Con il nuovo matrimonio, oltre a ricostituire una famiglia, si aprivano ulteriori intrecci e legami con i parenti del nuovo coniuge. Se la sposa era ancora giovane, era probabile l‟arrivo di nuovi figli che, non di rado, si trovavano a convivere con i figli nati in precedenza, creando così una complessa e differente gerarchia all‟interno della famiglia. Se, dunque, il primo matrimonio era un evento importante nella vita individuale e familiare, le seconde nozze erano, per certi versi, un evento assai più complesso, almeno per gli attori e gli interessi in gioco.

Nonostante la sua rilevanza non solo quantitativa, in ambito storico- demografico non è ancora stata dedicata sufficiente attenzione allo studio delle seconde nozze. Sovente tale fenomeno è visto come un elemento di disturbo (una sorta di “anomalia”) all‟interno della ricostruzione delle dinamiche nuziali e di formazione della famiglia, quasi sempre incentrata solo sulle prime nozze. Non è infatti un caso che ancora poco sia stato fatto per introdurre le nozze dei vedovi/e all‟interno di un più ampio e comparativo schema concettuale sulla formazione della famiglia (Saito, 2005; Kurosu, 2007).

In Italia il ritardo negli studi è, per certi versi, ulteriormente accentuato dalla difficoltà di reperire adeguate informazioni per il complesso del paese e le sue principali articolazioni territoriali in epoca preunitaria. Si annoverano infatti solo pochi lavori basati su dati individuali (Corsini 1980, 1981) o aggregati, i quali peraltro raramente contemplano archi temporali plurisecolari (Livi Bacci, 1981; Bellettini, 1981; Corsini, 1981; Breschi, 1990). Inoltre solo di recente, tre studi con approccio micro-analitico (Breschi et al. 2007, 2009; Manfredini, Breschi, 2006) si sono aggiunti al pioneristico lavoro di Kertzer sulla comunità emiliana di Casalecchio colta in piena fase di transizione demografica (Kertzer, Hogan 1989; Kertzer, Karweit, 1995).

Le analisi di tipo macro hanno evidenziato l‟influenza della mortalità sulla nuzialità dei vedovi e delle vedove. Con il declino della mortalità, la rilevanza del fenomeno decrebbe rapidamente: nel primo decennio successivo all‟Unità il 15,2% degli sposi italiani era rappresentato da vedovi e l‟8,4% da vedove; questi valori si ridussero rispettivamente al 9,4 e al 5,2% nel decennio 1901-10 e a poco più del 5 e del 2% nella seconda metà del secolo (Livi Bacci, 1981). All‟interno di questa tendenza di medio/lungo periodo, comune a tutta Europa, sono state riscontrate profonde differenze regionali. In Italia, anteriormente al declino della mortalità, il remarriage era maggiormente diffuso nelle regioni meridionali e nelle isole, dove le nozze tra un vedovo e una vedova ammontavano a circa il 5% del totale, rispetto al 2,5% osservato per le regioni del Centro-Nord.

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I differenziali regionali nella dinamica della nuzialità dei vedovi e delle vedove sono da ricondurre solo in parte a fattori strettamente demografici (quali, ad esempio, le età alle prime nozze di celibi e nubili, il divario di età tra i due sposi, il diverso livello di mortalità, etc.). Infatti lo stesso Livi Bacci, alla luce dei riscontri empirici delle sue analisi macro relative alla seconda metà dell‟Ottocento, concludeva affermando che in regioni quali l‟Umbria e le Marche la quota molto ridotta di donne che si risposavano era probabilmente da ricollegarsi al sistema familiare più strutturato tipico del contesto mezzadrile, laddove la famiglia estesa forniva alla vedova tutto il supporto necessario, rendendo meno impellente il ricorso ad un nuovo matrimonio (Livi Bacci, 1981, 357-359).

Le poche indagini micro hanno pienamente confermato taluni tratti comuni a quelli osservati in altri paesi europei42, così come l‟ipotesi interpretativa avanzata da Livi Bacci sulla minore propensione a risposarsi dei vedovi e delle vedove delle regioni centrali italiane.

Anche per il nostro paese, almeno antecedentemente al definitivo declino della mortalità, alcuni dei più rilevanti aspetti del remarriage, in particolare quelli concernenti le caratteristiche biodemografiche dei vedovi, hanno trovato riscontro empirico. In primo luogo, i vedovi manifestavano una maggiore probabilità di risposarsi rispetto alle vedove, generalmente a breve distanza dal decesso della moglie; in secondo luogo, le vedove con più di 40 anni si risposavano raramente, specie in presenza figli; infine, sia per i vedovi che per le vedove, la probabilità di risposarsi era inversamente proporzionale all‟età (Blom, 1991; Matthijs, 2003).

Per l‟Italia è dunque attestata una spiccata asimmetria di genere a favore degli uomini nell‟accesso al remarriage: con riferimento alla Toscana, Corsini (1981) arriva a definire il secondo matrimonio come “un affare da uomini”. La ragione della maggior propensione alle seconde nozze del genere maschile è, in larga parte, da ricondurre a fattori socio-economici connessi al ruolo centrale e dominante dell‟uomo, al diverso grado di accesso alla proprietà e alla successione dei beni a livello familiare43.

Il contesto era dunque fortemente penalizzante per la donna: la vedova non fruiva dei beni accumulati durante la vita matrimoniale e, se decideva di

42 Si dispone ormai di un discreto numero di lavori che hanno trattato il tema del remarriage tra

Ottocento e Novecento partendo da dati individuali. Per una sintesi si vedano Dribe et al., 2007; Kurosu, 2007; van Poppel 1995, 1998.

43 Data l‟elevata mortalità nelle società agricole preindustriali, il ricorso al remarriage era

frequente poiché un matrimonio e quindi la formazione di una nuova famiglia significava sicurezza economica e sociale. Studi condotti secondo l‟approccio multi-fold hanno ulteriormente evidenziato la notevole variazione di genere e di età con riguardo alle proprietà di beni, all‟eredità, all‟indipendenza della donna e alla tipologia di famiglia (per una rassegna sul tema si vedano Oris e Ochiai 2005).

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risposarsi, perdeva gli eventuali benefici di uso della casa e i possibili diritti sui figli minori (Pincherli, 1901).

L‟influenza degli aspetti economici e normativi è stata di recente confermata in un‟indagine comparativa tra alcune aree del Centro-Nord del paese. Nella comunità alpina di Treppo Carnico, appartenente in epoca pre-unitaria all‟Impero Austriaco, una migliore condizione socio-economica migliore ed una maggiore protezione legale per le vedove, riflesso della normativa austriaca, potevano costituire una sorta di impedimento preventivo ad un nuovo matrimonio (Breschi et al., 2008). Nelle aree mezzadrili, in linea con l‟ipotesi interpretativa avanzata da Livi Bacci e fatta propria da Tittarelli (1991) e da Kertzer e Karweit (1995), i vedovi con figli che vivevano in famiglie estese potevano essere meno propensi a cercare un nuovo partner rispetto a quelli che vivevano in altri contesti familiari. Le famiglie estese potevano infatti fornire aiuto e supporto ai loro componenti in caso di necessità, rendendo di conseguenza meno stringente l‟esigenza di contrarre un nuovo matrimonio44.

Tuttavia ciò era valido esclusivamente per i consanguinei: per le donne che vivevano presso la famiglia del marito (evenienza diffusa, data la connotazione patriarcale della gestione familiare dopo il matrimonio), già in posizione subordinata, il decesso del coniuge poteva costituire motivo di ulteriore indebolimento. Suoceri e cognati erano spinti a dissuadere la vedova dal risposarsi poiché in tal caso non avrebbero potuto più far conto sulla dote. Più complessa e articolata era, dunque, la posizione della vedova all‟interno della famiglia mezzadrile (Breschi et al., 2009).

Concentrando l‟attenzione sulla Sardegna si entra in contatto con una realtà distinta e assai peculiare all‟interno del variegato contesto italiano: la donna sarda ha infatti avuto, sin dall‟epoca medioevale, un ruolo rilevante all‟interno della vita familiare e sociale. Rispetto ad altre regioni, la donna era spesso parte attiva nelle decisioni familiari, gestiva i rapporti tra famiglia e tessuto sociale, costituiva il punto di riferimento dell‟intera famiglia e, anche, per il suo importante e riconosciuto ruolo, era sovente contemplata nelle successioni ereditarie (Da Re, 1990; Murru Corriga, 1990; Oppo, 1990, 1993).

Anche il matrimonio in Sardegna assumeva, già in epoca medievale, una connotazione diversa e del tutto originale, tanto che era celebrato a tutti gli effetti nella condizione di comunione dei beni (Di Tucci, 1928). In lingua sarda esso viene definito letteralmente a “sa sardisca”, alla sarda, per contrapporsi al cosiddetto matrimonio a “sa pisanisca”, tipico invece della realtà toscana e, in senso più esteso, dell‟area continentale del paese. I beni messi in comune dalla coppia erano costituiti non solo da ciò che derivava da prima del matrimonio, i

44 Matthijs (2003) ha proposto uno schema interpretativo simile a quello di Livi Bacci riguardo

alla maggiore propensione al remarriage delle popolazioni rurali rispetto a quelle urbane. Nell‟Ottocento, nelle aree rurali fiamminghe la struttura delle famiglie era più ampia e complessa di quella propria delle famiglie residenti nelle città.

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cosiddetti “fundamentales”, ma anche da quanto la coppia riusciva ad accumulare e, in generale, da qualsiasi miglioramento avvenuto durante la vita coniugale: in questo caso si parlava di “comporus”. Entrambe le tipologie di beni erano comunque considerate proprietà della coppia e suddivise in parti uguali tra i figli, femmine incluse, e il coniuge rimasto vedovo al momento della successione (Miscali, 2008).

Anche dopo l‟Unità, l‟introduzione del nuovo Codice Civile del 1865 non apportò sostanziali cambiamenti al quadro generale sardo e alle abitudini matrimoniali. In linea con una secolare tradizione, la maggior parte dei coniugi sardi fece infatti riferimento alla formula: “gli sposi dichiarano di voler profittare del disposto del Capo terzo, titolo VIII, libro III del Codice Civile in vigore e stabiliscono congiuntamente che dal giorno della celebrazione del matrimonio s‟intende tra essi contratta una vera comunione e società in parti uguali di tutti gli acquisti utili e risparmi che allo stesso scioglimento di esso verranno a riconoscersi fatti tanto separatamente che unitamente” (Tognotti, 1989, 163).

Alla luce delle peculiarità della Sardegna e delle differenze rispetto al resto del paese, il contesto isolano rappresenta uno scenario interessante per lo studio dei comportamenti nuziali, in particolare dei secondi matrimoni in epoca storica, un fenomeno, quest‟ultimo, quasi del tutto inesplorato nell‟isola così come nel complesso dell‟Italia meridionale. La nostra ricerca, basata su un approccio microanalitico a partire da dati individuali, è focalizzata sulla comunità di Alghero. Prima di illustrare e discutere i riscontri empirici delle nostre analisi, si presentano brevemente la comunità analizzata e le fonti utilizzate in questo studio.