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resolution elimination (death) embrace (love)

ORDER

(Western,

gangster,

detective)

INTEGRATION

(musical,screwball

comedy,family

melodrama)

thematics

m e d i a t i o n -

redemption macho

code isolated self-

reliance utopia-as-

promise

i n t e g r a t i o n -

d o m e s t i c a t i o n

maternal-familial

code community

c o o p e r a t i o n

utopia-as-reality

Tabella di differenze tra genres of order e genres of integration di Schatz Nellʼesaminare i due generi, e concentrandosi nella parte relativa alla soluzione, una delle preoccupazioni è la relazione tra le strategie narrative e le funzioni sociali che incarnano. Sebbene ogni genere rappresenti una strategia di risoluzione del problema distinta che si rivolge alle contraddizioni culturali di base, i generi non supportano ciecamente un determinano ritorno allʼordine. La risoluzione del film di genere può rinforzare lʼideologia di una società, ma la natura e lʼarticolazione dei conflitti drammatici che conducono al climax non può essere ignorata [Schatz 1981, 34]. Se i generi crescono e sopravvivono perché sovente arricchiscono e riesaminano i conflitti culturali, allora dobbiamo considerare la possibilità che la funzione dei generi sia quella di criticare e sfidare che quella di fortificare i valori che lo compongono (anche la funzione dellʼhappy end è stata letta, nei suoi migliori studi, come un dispositivo di dubbio). Nella disamina di Schatz, compare la convinzione che molti film della Hollywood classica siano noti più per la loro capacità di far sorgere delle domande che fornire delle risposte e questo tipo di impostazione sembra essere ancora più vera per i film di genere.

Lʼimpulso fondamentale del genere è quello di continuamente rinegoziare le basi dellʼideologia americana. E quello che è affascinante, così come dice Molly Haskell, è la capacità di "play it both ways, to both criticize and reinforce the values, beliefs, and ideals of our culture” [1974, 124].

Prendiamo in considerazione la descrizione della soluzione narrativa di alcuni melodrammi degli anni Trenta e Quaranta così come fa Haskell e come riporta Schatz [1981, 35]:

The forced enthusiasm and neat evasions of so many happy endings have only increased the suspicion that darkness and despair follow marriage, a suspicion the “woman's film” confirmed by carefully pretending otherwise [Haskell 1974, 124].

Negli ultimi western di Ford, così come ne Lʼinfernale Quinlan (Touch of Evil, 1958), il finale fa i conti con la morte dellʼeroe tradizionale, la cui

robusta fiducia e il comportamento violento sono in contrasto con quella comunità che lui stesso aveva promosso e protetto. [Schatz 1981, 144] Tali timori culturali - di base allʼEspressionismo americano - sono stati articolati in modo più chiaro in termini di stile narrativo e caratterizzazione che in termini di trama. Sebbene molti noir incorporino il requisito Hollywoodiano dellʼhappy end perché risolva il conflitto della trama, la rappresentazione tetra e fatalista del milieu urbano americano nega questa soluzione. Nel corso del 1940, la funzione problem-solving di Hollywood si stava allontanando dal suo impulso prevalentemente sociologico per una maggiore attenzione per l'arte cinematografica. I problemi sociali avrebbero continuato a motivare e fornire un contesto narrativo per il cinema noir nel corso del decennio, ma le soluzioni diventano sempre più artificiali, formalizzate, stilizzate al punto in cui la risoluzione narrativa era significativa esteticamente come lo era sociologicamente.

Le ragioni di queste mutate priorità sono numerosi. Cʼè coinvolta l'evoluzione della tecnologia e della tecnica narrativa, complicata da una serie di pressioni industriali, ideologiche e socio-economiche. Agli inizi del 1950, lʼavvento della televisione aveva cominciato a cooptare il pubblico di Hollywood, e questo nuovo sviluppo ha anche incoraggiato i registi a riconsiderare le funzioni sociali ed estetiche del medium. Gli effetti di questo sviluppo erano evidenti nei generi dellʼordine, le cui preoccupazioni erano di razionalizzare e celebrare l'ordine sociale. Inoltre, i generi che coinvolgono l'integrazione sociale che sono venuti alla ribalta nel corso del 1950, in particolare il melodramma familiare e la fantascienza, prendono il loro stile narrativo e le tematiche da una resa fortemente stilizzata del loro ambiente e personaggi [Schatz 1981, 122].

Per quanto riguarda un genere preciso come il western, lʼiconologia dello scontro finale porta a interrogarsi sulla “elegia della rissa”, che però qui vorremmo considerare invece come un impianto filmico a detonazione finale (come la intendeva Benzoni), più che così specificatamente denotata. Lo scontro finale è sempre un evento drammatico e carico di conseguenze: lʼhappy end può in questo caso diventare una definzione incompleta e inappagante. Per quanto riguarda il western, Louis Simonci [Bellour, 1973] sottolinea lʼumanità dellʼeroe di fronte al nemico o il caso dellʼambigua e familiare immagine finale dellʼeroe occidentale che guarda lʼorizzonte e che è stato soppiantato in molti film contemporanei con un protagonista invincibile che al posto di fissare un orizzonte di possibilità, sfreccia verso lo spettatore - bloccando il paesaggio - e riqualificando il tropo del protagonista che guarda lʼorizzonte come una affermazione non di eventuali possibilità narrative future, ma solo lʼinfinità potenzialità di questo unico eroe immaginario [Mac Dowell, 2012]. Nel caso in cui a morire siano tanto lʼeroe che il suo antagonista, considereremmo lʼepilogo totalmente drammatico. Eʼ il caso di Duello al sole (Duel in the Sun, 1946) di King Vidor, che possiede uno di quei finali divenuti celebri nella storia del cinema per la sua incredibile singolarità e forza drammatica. Secondo Luc Moullet -

il quale analizza in un suo saggio la caratteristica figura del raptus. In Vidor la scena madre coincide spesso con lʼepilogo e tutto ciò che viene prima ha la funzione di preparare lo spettatore a questo momento clou [Di Marino, 2011, 43]. Che il cinema western corrisponda alla forma conclusa dellʼepos è stato notato più volte, afferma Di Marino [44]. Una serie di figure legate allʼepopea, come quella del ritorno, sono ricorrenti e centrali in questo contesto. Allo stesso tempo lʼepica viene costruita anche a partire dalla cronaca, da fatti realmente accaduti; un altro topos che nel western è posto verso la fine è, ad esempio, la comparsa di un personaggio storico, magari dopo la battaglia, per suggellare lʼautenticità dellʼevento [Kezich, 1975]. Il duello conclusivo è una norma obbligata del western poiché non esiste altro rituale per affermare certi valori, per imporre quelle leggi che servono per regolare la convivenza allʼinterno di una comunità, a permettere quel passaggio decisivo dal deserto al giardino, caratteristico dellʼavvento della civiltà [Di marino 2011, 45].

Esistono due tipi di confronti: il duello vero e proprio e la sparatoria. Nel primo caso i due sfidanti si affrontano alla luce del sole, lʼuno di fronte allʼaltro, quasi sempre in uno scenario desertico. Presuppone in maniera assoluta la lealtà reciproca dei due antagonisti, cosa che lo differenzia dalla rissa da strada [Bellour, 188]. Il duello è strutturato di solito sullʼalternanza di campi e controcampi degli sfidanti, mescolati allʼinquadratura classica contenete i due personaggi. La tensione va compressa nella medesima inquadratura anche perché il senso dellʼevento è dato dalla simultaneità e dalla velocità dei gesti, enfatizzati dalla dilatazione temporale come in Sfida Infernale (My Darling Clementine, John Ford 1946) e Sfida allʼ O.K. Corrall (Gunfight at the O.K Corral, John Sturgess, 1957).

Vi sono poi sparatorie conclusive che avvengono davanti ad un vasto pubblico come The Far Country (Terra lontana, 1955) di Mann. Sergio Leone, oltre allʼelemento della dilatazione - che troviamo praticamente in ogni epilogo - porta delle notevoli varianti nella messa in scena del duello, come per esempio Per Qualche dollaro in più (1965) e soprattutto Il buono, il brutto e il cattivo (1966), dove inventa il cosidetto triello.

Nellʼepoca del western “maggiorenne”, lo scontro finale diventa un ritorno allʼordine. Il finale di Notte senza fine (Pursued, 1947) di Raoul Walsh, prototipo del western psicanalitico, dove si scioglie lʼatavica faida familare che divide le famiglie Rand e Callum. Un altro duello tra fratelli lo ritroviamo in Lo sperone insaguinato (Saddle in the wind, 1958) di Robert Parrish. Conflitto parentale è anche quello che lega in Il fiume rosso (Red River, 1948) di Howard Hawks. Questo finale si pone come esempio di come la tensione drammatica si possa sciogliere attraverso il momento risolutivo dello scontro. Il finale vero e proprio che segue il duello western è situato tra lʼhappy end (la salvezza dellʼeroe) e il finale aperto (il suo volontario allontanamento), spesso accompagnato da altre ricorrenti situazioni quali, ad esempio, la rinuncia a una donna e lʼedificazione di una città [Di Marino, 21-24]. Parlando di strutture narrative in relazione allʼepilogo, sarà

necessario isolare alcune situazioni archetipiche le quali, a seconda dei generi, variano di tono e soprattutto di posizione allʼinterno del plot. Di Marino elenca qualche “figura significativa” [24] come la fuga, il ritorno, lʼagnizione, e il ricongiungimento. Disposte in questo ordine, tali situazioni ricorrenti, potrebbero formare la struttura del melodramma classico, ma prese singolarmente appaiono nodali per la risoluzione positiva del film. Indichiamo ora alcuni tropi ricorrenti:

1. il salvataggio e la fuga

Il last minute rescue è unʼinnovazione di D.W.Griffith. Questo tipo di finale (o di sottofinale) è sempre costruito su una notevole dose di suspence, di dilatazione del tempo cinematografico, che si scioglie subito dopo in una coda. Inoltre, per quanto riguarda la fuga, il cosiddetto cinema carcerario, è interamente costruito sullʼepilogo.

2. il ritorno

Nel western lʼeroe ritorna sempre allʼinizio del film, per poi riandarsene alla fine, dopo aver consumato vendetta e riportato la legge.

3. lʼagnizione

Eʼ lʼincontro tra un padre e un figlio che non si sono mai conosciuti e che magari si credono reciprocamente morti.

4. la schermaglia

Nel cinema americano la commedia sofisticata e la screwball comedy, presentano una struttura lineare, terminando di solito con la risoluzione di un equivoco e con lʼunione sessuale-matrimoniale della coppia, eventi che sopraggiungono dopo un lungo corteggiamento e una serie di litigi e di peripezie.

“Eʼ quasi impossibile trovare - scrive Giacovelli - su circa cinquemila film girati negli Stati Uniti dal 1930 al 1940, un bacio che non significhi speranza, promessa. Nessuno, neanche lo stesso Lubitsch, si permette di mettere in discussione il valore apparente di quel bacio conclusivo” 1991, 141].

LʼHappy End

Siamo giunti ad un momento in cui il discorso sul finale non può fare a meno di unʼulteriore digressione. Ci occupiamo ora di una delle figure più note della rappresentazione cinematografica. Eʼ una digressione importante poiché si preoccupa di mettere in risalto i momenti in cui lʼespediente e il tropo non “funzionano”, una sorta di squarcio nella messa in narrazione del mondo narrativo. Esso può prendere la forma della conclusione che, secondo Sorlin, è lʼesito più banale, lʼavventura iniziata nelle prime sequenze è portata a compimento. Prendiamo ora il nesso tra fine e la formazione della coppia. In un campione aleatorio di cento film, David

Bordwell ha riscontrato la nascita o lʼaffermarsi di una coppia eterosessuale nel finale di più di sessanta pellicole. La sua selezione si estende dal 1915 al 1960 e, durante questo mezzo secolo, una conclusione positiva fu la norma a Hollywood. Il film hollywoodiano di Sjöström, Il vento (1927; distribuito nel 1928) vedeva Lillian Gish, che, dopo aver ucciso lʼuomo che era sul punto di violentarla, usciva nella pianura dove soffiava un vento implacabile e si perdeva nella sabbia. La diffusione dellʼopera venne ritardata per girare il finale che vediamo oggi: il marito ritorna, capisce tutto, aiuta la moglie a nascondere il cadavere, la protagonista perdonata si rende conto che può voler bene al suo sposo e la coppia, consolidata, inizia una vera vita in comune [Sorlin 2003, 90]. Questa nuova conclusione è stata giudicata sfavorevolmente da molti critici che ne hanno condannato il carattere arbitrario. Secondo Parey [71], lascia pensare il contrasto tra lʼentusiasmo degli spettatori e il riserbo degli specialisti. Nella sua definizione teorica del cinema classico la narratologia ha insistito sulla coerenza psicologica dei personaggi e sulla logica del racconto. Però la coesione interna dellʼopera era soltanto un orizzonte che il cinema classico non rispettava ciecamente, i produttori dovevano tenere conto di altre convezioni care al pubblico come l'invulnerabilità dellʼeroe o il lieto fine. Preponderante nel cinema americano, lʼamore condiviso era meno invadente nelle altre cinematografie. Uno studio sistematico dei mediometraggi (più di 30ʼ) della Pathé degli anni Dieci mostra che, benché frequente, rappresentava appena due quinti delle conclusioni. Senza discutere il punto di vista di Bordwell, sicuramente esatto per lʼepoca “classica”, Sorlin si occupa di esplorare le soluzioni estremamente diverse adottate negli anni Venti. Una lista delle conclusioni allora possibili sarebbe noiosa e rischiosa visto che, spesso, un unico termine non basterebbe per definirle. Per esempio, è lecito individuare quattro temi nel finale di Vento [Sorlin, 2003; 91]: accettazione della sua sorte da parte dellʼeroina, presa di coscienza del marito che non vede più sua moglie come una serva gratuita, complicità nel mascheramento del crimine, formazione di una vera coppia. Lʼultima sequenza di Il Vento attua una forma conclusiva particolare, il ribaltamento finale, diverso da unʼaltra risoluzione famosa, the last minute rescue, il soccorso che arriva allʼultimo momento. Griffith era un esperto di questa soluzione: Nascita di una nazione (Birth of a Nation, 1915) come Intolerance (1916) si chiudono con una lunga sequenza nella quale salvezza e morte corrono parallelamente, il pubblico trattiene il respiro ma sa che la salvezza trionferà. Allʼopposto, lo spettatore per settanta minuti ha visto, in Il Vento, la distruzione progressiva di una donna, è quasi convinto che non supererà lʼultima prova, lʼhappy end è per lui una sorpresa che nessun indizio aveva fatto prevedere.

Uno dei falsi problemi posti dal lieto fine è quello della sua artificiosità [Di Marino, 32]. Un famoso esempio di questo tipo è rappresentato da Lʼultima risata (Der Letzte Mann, 1924) di Murnau, la storia del vecchio portiere dʼalbergo declassato a inserviente, si concludeva con con un finale

aggiunto, preceduto, nellʼedizione italiana, dalla didascalia: “Ma lʼautore ha avuto pietà di lui e, ad ogni buon conto, ha immaginato un epilogo del tutto improbabile”; in realtà esistono due finali: è il primo quello vero, il secondo è solo una possibilità in più offertaci dallʼautore. Il cinema americano ci ha abituato a questo tipo di compromesso. I film di Frank Capra, rispecchiano in maniera più sistematica le dinamiche dellʼhappy end. Molte volte si ripete uno schema prestabilito dove la risoluzione finale è preceduta da un evento catastrofico. Ciò accade in Signora per un giorno (Lady for a Day, 1933), Accadde una notte (It Happened One Night, 1934), Mister Smith va a Washington (Mr. Smith Goes to Washington, 1939), Arriva John Doe (Meet John Doe, 1941) e La vita è meravigliosa, (Itʼs a Wonderful Life 1946). Inoltre, nella casistica (che qui ripercorriamo velocemente) rientra anche la categoria del falso happy end che contiene in sé il suo contrario. La distinzione tra un autentico lieto fine e un falso happy end non è facile. Finale inteso come indicatore di meccanismi e convenzioni di genere. In particolare, nellʼambito della collocazione dellʼhappy ending allʼinterno del sistema e delle convenzioni dei generi e dellʼuso dellʼhappy end in storie che sembrano votate alla più funerea conclusione, Micaela Veronesi ricerca in La donna del ritratto (The Woman in The Window, 1944) di Fritz Lang quei momenti rivelatori, quelle marche che permettono di svelare lʼinganno narrativo in cui è fatto cadere lo spettatore, tenuto allʼoscuro rispetto allo stato di sogno o incubo in cui è caduto il protagonista, e dando quindi conto delle modalità attraverso cui il regista effettua il passaggio fra un piano e lʼaltro. La questione dellʼhappy end ritorna anche in Natalia Noussinova [2004]. Lʼanalisi dellʼautrice prende avvio da una procedura tipica della letteratura russa classica, quella del post scriptum moralizzante, di una seconda fine che ha una funzione esplicativa nei confronti del testo stesso. Oltre a fornire ai cineasti sovietici emigrati in europa delle strategie per conformarsi alla pratica dellʼhappy ending, piuttosto estranea alle forme narrative russe, questa particolare tradizione è ripresa nel cinema sovietico di propaganda e, in maniera particolarmente interessante, nel rimontaggio di film occidentali per il mercato russo [23]. David Lodge [1995] ricorda che per i romanzieri vittoriani il finale rappresentava un problema poiché lettori ed editori esercitavano pressioni per avere il lieto fine; qualcosa di simile, spiega Lotman, accadde anche a Puskin al quale “numerose dame consigliarono il modo per far terminare lʼEugenij Onegin” [Lotman, 1994 90].

Incontriamo spesso, nei film drammatici degli anni Dieci e Venti, un contrasto forte tra la conclusione annunciata e una chiusura inaspettata. Molti film dellʼepoca corrispondevano a quello che è stato definito modello classico, ma il finale ottimistico non era dʼobbligo, neanche a Hollywood, e come dimostra una serie di film che incontreremo più avanti, lʼincertezza era in gran parte la fonte del godimento. Se la conclusione fosse stata prevedibile e sempre positiva anche nei drammi lʼattesa sarebbe stata meno ansiosa e il piacere meno completo [Sorlin 2003, 91].

La connessione tra Hollywood e finale, secondo Sorlin si presta ad unʼipotesi: se si prendono sei opere drammatiche americane degli anni Venti, tre che finiscono male, Giglio infranto (Broken Blossoms, D.W.Griffith, 1919), Rapacità (Greed, E. von Stroheim, 1924), I quattro diavoli35 (The Four Devils, F.W. Murnau, 1928) e tre che “finiscono bene”,

Cuori nel mondo (Hearts of the world, D.W. Griffith, 1918), La grande parata (The Big Parade, K. Vidor, 1924), Il vento. Si nota subito che nei primi tre non cʼè un eroe principale, tutta la vicenda sʼimpernia sulla rivalità tra due o più persone, mentre negli altri cʼè un personaggio centrale che supera le difficoltà e forma una coppia felice. Lʼassenza di un protagonista rende, dunque, più facile lʼaccettazione della morte e ci sarebbe dunque una corrispondenza tra la ricorrenza dellʼeroe centrale, impersonato da un attore famoso con il quale lo spettatore può identificarsi, e la predominanza delle conclusioni ottimistiche nei film degli anni Trenta e seguenti [Sorlin 2003, 91].

Il voltafaccia finale non è la soluzione più frequente, la maggioranza dei film mantengono fino alla loro chiusura la linea definita allʼinizio. Però, senza deludere le aspettative del pubblico, la conclusione devia spesso verso unʼaltra direzione.

Abbandonata dai genitori, lʼeroina di La morte che assolve (id., Lolli, 1918) è stata educata in una ricca famiglia; un truffatore che adocchia la sua fortuna la rapisce ma suo padre, in preda ai rimorsi, la salva a prezzo della propria vita. Si tratta di un libero adattamento dellʼopera lirica di Ruggero Leoncavallo, I Pagliacci, con una conclusione molto diversa e sconcertante per il pubblico, la sparatoria finale, che uccide truffatore e padre, dà luogo ad una sequenza drammatica, ma trascura il destino della ragazza che, fino a questo momento, era lʼoggetto del racconto.

In Paris qui dort (René Clair, 1923) uno scienziato immobilizza la città grazie ad un raggio. Alcune persone che erano fuori dalla portata del raggio, sulla Torre Eiffel o in aereo, si muovono in una capitale della quale sono i padroni. Quando il raggio cessa di agire un uomo e una donna, personaggi indifferenti che prima non erano legati uno allʼaltro, formano una coppia e il film si conclude sulla loro unione [Sorlin 2003, 92].

La narratologia ha messo in rilievo quella che chiama “la doppia linea dʼazione”, vale a dire la combinazione di due trame diverse. Per esempio, il protagonista lotta contro un nemico e corteggia una ragazza, i due intrecci si sviluppano simultaneamente in modo tale che, nellʼultimo episodio, lʼeroe vince il suo avversario e ottiene la mano della ragazza. I film appena citati non corrispondono a questo modello, le loro “linee dʼazione” non coincidono: nel primo film un intreccio secondario sostituisce lʼintreccio principale, nel secondo si passa da una fantasia a una relazione sentimentale nata dal nulla. Per diversi che siano i due film hanno qualcosa

174 35 Pare che oggi il film sia andato perduto.

in comune, fanno dellʼultima sequenza un momento a parte che ha un valore emozionale in sé e non rispetto alla continuità narrativa del racconto.

Del resto, il finale, brevissimo, ricorre a due stereotipi, la morte in un caso, la creazione di una coppia dallʼaltro, come se bisognasse chiudere su una impressione al medesimo tempo forte ma familiare al pubblico. Nel cinema degli anni Dieci e Venti la conclusione, invece di essere soltanto lʼesito logico della vicenda, poteva creare una sorpresa e ravvivare lʼinteresse del pubblico o ricorrere ad un espediente arbitrario conosciuto agli spettatori. Le soluzioni erano diverse, a volte strane, si può pensare che spesso la sceneggiatura venisse scritta con disinvoltura, ma la diversità compensava il poco rigore [Sorlin 2003, 92].

Edgar Morin nel suo Spirito del tempo, dedicava alcune pagine a “Simpatia

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