CLOSED TEXT
OPEN
DISCOURSE
UNRESOLVED
STORY
OPEN STORY
OPEN TEXT
1. Closed Text: sia storia che discorso di chiudono
2. Open Story: il discorso narrativo si chiude, mentre la storia rimane aperta 142
3. Open Discourse: è il discorso che rimane aperto, mentre la storia è risolta
4. Open Text: Il regime della sospensione, del finale aperto.
Tutti gli studi sul tema, naturalmente, hanno preso in considerazione la possibilità e la pratica della non chiusura, a volte inserendola allʼinterno di una tipologia della chiusura (pur studiandone lʼalterità), altre volte soffermandosi proprio su quellʼaspetto di alterità, per indagare la capacità di rivelare conflitti latenti e smascherare illusorie convenzioni (nessuno nellʼabbandono del finalismo).
Lʼinizio e la fine si possono poi collocare su livello tematico e livello formale. A partire da qui possiamo riprendere la distinzione tra storia e discorso, oppure la terminologia usata da Katherine Young [1982, 277-315] dove taleworld (il mondo della storia) e storyrealm è il mondo narrativo che incornicia la storia. Il saggio di Young, Edgework: Frame and Boundary è dedicato proprio alle differenti concezioni e funzioni dei limiti, della cornice, nozione che viene ulteriormente articolata in boundary (il confine fisico) e frame (il confine concettuale - che parla di ciò che incornicia).
Lʼincorniciamento che lo storyrealm opera sul taleworld (che di per sé sarebbe continuo, senza confini) dà origine, allʼinterno del mondo narrato, a inizi e fini. Quando siamo nellʼambito dello storyrealm, invece, parliamo di aperture e chiusure.
Beginnings and ends are the points where events start and finish; openings and closing are the points where stories start and finish. Beginnins and end create boundaries in the taleworld. Openings and closings constitute the boundaries of storyrealm [Young 1982, 284]
Senza accogliere questa rigida distinzione tra inizio/fine e apertura/ chiusura, lʼanalisi di Young è utile per comprendere come il fenomeno della fine sia un fenomeno pluri-stratificato e ambivalente, e coinvolga diversi livelli profondamente diversi.
In ambito italiano, Di Marino [2011, 69] struttura il suo studio sullʼesistenza di due tipi dʼapertura: apertura narrativa (finale aperto) e lʼapertura di senso (finale simbolico), in cui finale di questo tipo - simbolico, allegorico o epifanico - rappresenta quasi sempre una non-conclusione narrativa (qui la terminologia usata non si riferisce al lavoro di Carroll).
Per esempio, un caso di risoluzione non univoca è E.A.Poe, il quale, secondo Lotman “apre di fronte al lettore un cammino che non ha fine, una finestra in un mondo imprevedibile e che si estende al di là della logica e dellʼesperienza” [Lotman 1993, 153].
Al cinema questo tipo di epilogo ci lascia presagire un futuro sviluppo della situazione: crea un meccanismo di sospensione e in alcuni casi il finale aperto è tronco, al solo scopo di cogliere impreparato colui che guarda. Per quanto riguarda il discorso strettamente cinematografico, si ricorda che il
lavoro su fine/finale deve guardare al concetto da molteplici angoli (genere, convenzioni di genere, happy end).
Lo statuto presentazionale
La questione interessante è che questo tipo di apertura, rintracciata da Neupert nei film modernisti e postmoderni, viene invece rintracciata da Burch [1990] e riportata anche da De Marino nei primi film muti, quelli a elevato statuto “presentazionale”.
Ci sentiamo di ritenere lʼintuizione di Burch di gran lunga più interessante; anche durante gli anni del cinema muto veniva adottato il finale aperto. Burch nel suo saggio sulle origini del linguaggio cinematografico, si sofferma sullʼaspetto di non chiusura del film primitivo, dato per esempio dalla marginalizzazione dellʼistanza narrativa, dalla presenza di un commentatore o di didascalie, da una serie di informazioni esterne allʼimmagine. Nel caso di The Kentucky Feud (1905) di Billy Bitzer, le didascalie anticipano gli eventi, deprimendo il contenuto della scena successiva, sottraendole ogni possibile suspence [Di Marino 2011, 71] Nellʼambito del finale aperto, Burch inserisce anche altre due tipologie che sembrerebbero apparentemente concluse: la conclusione punitva (Lʼarroseur arrosè) che deriva dal circo, e lʼapoteosi adoperata spesso nei film di George Méliès e desunta dagli spettacoli di varietà.
Queste distinzioni ci sembrano delle distinzioni utili, soprattutto per alcuni arcaismi “di ritorno” che noteremo essere delle costanti nellʼorganizzazione della fruizione anche degli ecosistemi narrativi. Pierre Sorlin [2003, 90], cerca di proporre un approccio al problema delle strategie di conquista degli spettatori implicate nel finale dei film usciti negli anni Dieci e Venti. Ma secondo lo studioso stabilire una tassonomia non è uno scopo in sé, si tratta soltanto di creare uno strumento che ci sarà utile per chiederci fino a che punto le variazioni nella chiusura dei film corrispondono a una evoluzione storica delle sceneggiature e per valutare lʼimportanza dellʼultima sequenza nellʼespressione cinematografica.
Una passo avanti verso la chiusura narrativa è costituito - secondo Burch - dallʼavvento, intorno al 1903, del piano emblematico, derivante dal piano ravvicinato del cinema primitivo, la cui caratteristica è quella di essere una sorta di ritratto che poteva apparire allʼinizio o alla fine del film (che potrebbe rientrare nella conclusione circolare).
Nella sua dimensione presentazionale ed extra-narrativa il piano emblematico si rifiuta ancora alla chiusura. Allʼinizio del film, si trasforma piuttosto in una presentazione dal vivo dei personaggi (come accade ad esempio in I Prevaricatori (The Cheat, DeMille, 1915), pratica questa che accompagnerà, come evidente sopravvivenza primitiva, lʼintero cinema muto. Secondo Neupert e di Marino, ad ogni modo, la codificazione del finale chiuso così come lo conosciamo, è il risultato della graduale creazione di un personaggio centrale allʼinterno della struttura narrativa.
Senza essere frequente, il finale incerto non turbava lo spettatore allʼepoca del muto. Era prima di tutto, quasi dʼobbligo nei film comici fatti di continue ripetizioni. La sveglia (Anonimo, Milano Films, 1910), ricorda Sorlin, racconta i guai di un impiegato che, arrivando sempre in ritardo, è minacciato di licenziamento. Ogni giorno inventa una nuova sveglia che, lungi dal salvarlo, peggiora la situazione. Non sapremo mai se si salvi o se venga messo alla porta, “il film non può concludersi perché il vero tema non è né lʼimpiegato, né la minaccia che incombe su di lui, bensì la reiterazione continua” [Sorlin 2003, 94].
Questo filone si esaurisce però negli anni Venti, nei quali la fine è piuttosto caratteristica del dramma sociale. Si è spesso fatto un paragone tra due film contemporanei che si svolgono durante la crisi economica degli anni Venti in Europa Centrale, Isnʼt Life Wonderful? (1924) di Griffith e Lʼammaliatrice di Pabst (Die freudlose Gasse, 1925), ma si è parlato pochissimo della differenza tra le loro chiusure. Griffith segue i suoi personaggi attraverso lo sconvolgimento della società tedesca, sono loro che lo interessano, la miseria generale è soltanto lo sfondo della storia. Il lungo episodio che chiude lʼopera di Pabst ruota su una fila che aspetta davanti ad una macelleria. La folla affamata si rivolta, un personaggio viene assassinato, non si sa né se lʼomicida venga arrestato, né se la polizia disperda i dimostranti. Il film non è un documentario, ci sono intrecci complessi e una grande varietà di personaggi, ricchi o poveri, ma sono più caratteristici che personaggi, e le sequenze che precedono il finale non permettono di capire quale sarà la loro sorte. [Sorlin 2003, 94]
Se alla fine del film di Pabst il pubblico rimane nel dubbio, la sua incertezza non è quella degli spettatori di Umberto D. (id., Vittorio de Sica, 1952) che si sentono frustrati nellʼaspettativa di una conclusione perfettamente chiara. Lʼammaliatrice sfiora troppi destini diversi per dare allo spettatore il tempo o la voglia di interrogarsi sul loro futuro. Il film potrebbe continuare nella stessa direzione per molto tempo, il fattore destabilizzante per lo spettatore non è il carattere aperto, indefinito della chiusura, bensì la visione del caos nel quale la società sprofonda sempre di più. O per dirla con Carroll, le domande che sorgono da questo tipo di narrazione non sono domande che poi richiedono una chiusura narrativa. Ovvero, sono domande dʼatmosfera [Griffero, 2009] e la stesura della narrazione non poggia su precise causalità, dunque è ovvio che non si avverta quel senso di insoddisfazione. Come abbiamo visto, lʼerotetica non è alla base di tutte le storie e spesso negli studi sul film ci si preoccupa solo di fra rientrare le storie nella stringa causale o di non farla entrare per nessun motivo (in un movimento poco produttivo). Lʼopera di Pabst è un esempio particolarmente evidente di fine senza conclusione, ma sʼinserisce in un insieme limitato di film contemporanei che accompagnano un gruppo di personaggi per qualche tempo senza tentare di chiuderli in una storia perfettamente delimitata. Il dato fondamentale di un tale dispositivo è la sostituzione, ogni elemento
potrebbe essere cambiato o posto in un altro momento della catena filmica. [Sorlin 2003, 94]
Mancanza di un framework coerente in ambito cinematografico
Già da questa brevissima ricostruzione, appare una discrasia tra lʼinteresse che diversi studi riservano al topic e lʼimpossibilità di una precisa e definita sistematizzazione. Questo è un punto su cui vogliamo trattenerci, poiché centrale per la creazione di una griglia teorica. Il nostro topic non riguarda lʼanalisi dei finali nel cinema classico, ma proprio dallʼondivaga e nebbiosa coltre di studi precedente possiamo comprendere come sia forse necessario un approccio diverso (che noi tenteremo di dare con lʼanalisi della riconfigurazione inaugurata dallʼipertesto e dallʼanalisi del senso di permanenza delle opere che si scontra con la loro fine perpetua, oltre che ai fattori delineati precedentemente). Infatti, a fronte di un vivace interesse dimostrato spesso dallʼanalisi, “lʼattenzione che la teoria cinematografica ha riservato ad incipit ed exicipit [sic] appare relativamente marginale, o quanto meno frammentaria”. [Innocenti, Re 2004, 17]
Ricostruendo lo stato del concetto, ci siamo imbattuti diverse volte in studi, monografie, tanta saggistica che solo in parte ricostruiremo e conferenze dallo spiccato senso monadico. Studi, perlopiù, scollegati dai maggiori studi che si sono effettuati sul concetto in altri campi (la fine nella tragedia, nel dramma storico, nei romanzi). Ciò porta ad un particolare effetto “tela di Penelope”, in cui lʼavanzamento dello stato delle riflessioni in merito alla questione indugia alla ricostruzione di scenari (purtroppo anche parziali) e i passi riservati allʼavanzamento e alle proposte sono sempre pochi e/o in contrasto con gli studi precedenti che a volte non vengono del tutto considerati (lo studio sulla chiusura e chiusura narrativa che mette ordine è spesso poco considerato). Parlare di fine/finale in ambito cinematografico, ci ha dunque messo dinanzi ad una sorta di schizofrenia della ricerca. Un numero, nemmeno troppo considerevole di casi, che presentandosi come risolutori (o come portatori di nuove discussioni) non tengono in considerazione lo scenario precedente. Si può dunque affermare che lo studio della fine/finale in ambito letterario sia uno dei campi che ha meglio sezionato la questione con diversi approcci e con una variegata e dinamica elasticità (e da questo si riesce ad estrapolare una consistente griglia analitica, o almeno importante linee guida per la costruzione). Il nostro lavoro di ricognizione di uno scenario in una particolare disciplina, risulta una ricostruzione che già sappiamo essere tristemente parziale e incompleta. Cʼè da attestare che questa è ancora una fase definitoria e si rilevano numerose incongruenze sui termini. Sembra un momento simile, se pur con la portata non comparabile, a quello che è toccato alla nozione di intertestualità, ovvero la frammentazione semantica, il ricostruire di volta il volta lʼimpianto, una tendenza alla polisemia [Guagnelini, Re, 2007]. Per quanto riguarda lo studio su queste porzioni di testo e/o la variante contenutistica (apocalisse e weltshmerz, più nella scia di Kermode) sembra
che la funzione definitoria prenda tutto lo spazio, e che ci si attardi in una speculazione poco operativa. Ci sono studi che si interrogano sui diversi modi di chiusura nel film, nella musica e nella letteratura. Spesso vengono chiamate “chiusure narrative”, senza una considerazione sul fatto che Carroll abbia dato a questo tipo di definizione una precisa storia e analisi. I finali, rimangono così quelle “cose” nebbiose il cui unico intento è, tautologicamente, lʼ “ossessione fondamentale” del finale fatto bene o lʼindividuazione “pigra” dellʼapertura modernista o postmoderna. Lʼidea di apertura di Eco è passata - nella maggior parte degli studi che la applicavano - nel suo senso più empirico, solo come “categoria esplicativa elaborata per esemplificare una tendenza delle varie poetiche” [Eco 1965, 13]. Invece, un buon avanzamento, è lʼintroiettare i discorsi in ambito letterario e arrivare ad una nozione estesa di fine, molto più aderente e consona ai nostri particolari oggetti. Questa nozione estesa di fine, in cui i punti di sospensione vengono di volta in volta riempiti con diverse questioni, non limitata ad alcuni particolari argomenti, può riguardare: 1. fine del cinema (cambiamenti nei modi di produzione e di distribuzione) 2. fine della teoria (cambiamenti metodologici nei film studies come
disciplina)
3. fine della storia (lʼestetica e le strategie della chiusura narrativa, i finali aperti, lʼinconclusività. Emersione della serialità e del suo doppio, la permanenza, come forma dominante)
4. fine della cinefilia (una proliferazioni di canali per guardare e discutere film che si ripercuotono sullʼassetto delle opere e che fa emergere una nuova acroamatica non più connotata secondo gli schemi della cinefilia) 5. fine del film (morte della celluloide, lʼaffermarsi di diverse tecnologie) 6. fine del mondo (genere disaster movie)
Cercheremo di parlare lungo tutto il capitolo con in mente questo elenco di fondamentali fattori. Inoltre, potremmo aggiungere unʼaltra questione: ogni proiezione filmica provoca una doppia frattura nella continuità del tempo. La narratologia, che ci ha aiutato molto a capire come funziona il racconto cinematografico, si è raramente preoccupata delle reazioni del pubblico, studia le strutture e lo sviluppo della catena causale (come diceva già Mieke Bal anche la descrizione è stata accantonata e poco considerata), ma parla pochissimo del finale e del suo impatto sugli spettatori. Nella terza parte del capitolo inizieremo a introdurre alcune peculiarità che nel 3 e nel 4 ci aiuteranno a comprendere il valore della memoria e della persistenza. Tentativi di sistematizzazione del concetto
Vogliamo ora comunque rendere conto di diversi saggi apparsi sul topic che ci aiuteranno a complicare la scena a a comprendere quali sono (se ci sono) gli avanzamenti o quali sono i nodi sui quali ancora ci si sofferma.
Siamo dinanzi ad una moltiplicazione del punto di vista che fa comprende le differenti sfaccettature dellʼargomento (dalla rappresentazione della Fine, lato escatologico che noi abbiamo lambito quando abbiamo parlato di Kermode, alla rappresentazione del finale, come momento interno alla composizione stessa dellʼopera).
La parte interessante che si rileva è la difficoltà di condensare queste problematiche in considerazioni troppo stringenti, sembra, nella ricostruzione dello stato dellʼarte che si sia passati dallʼangoscia dellʼinfluenza [Bloom 1983; 1996] allʼangoscia delle chiusure; in alcuni casi è comprensibile ma non può essere applicata indiscriminatamente poiché ci sono delle storie che come diceva Carroll, non hanno una chiusura narrativa. Da questo punto di vista, ci si chiede come prospettiva futura, come lʼeclettismo del concetto sia impossibile da sottovalutare; ma la cosa importante è che servono diversi approcci. Secondo quella logica circolare che abbiamo visto già negli studi letterari nel primo capitolo [Brooks 1984; Richardson 2004; Torgovnick 1991] lʼinizio e la fine del film possono rivestire un ruolo essenziale nel definire modelli narrativi e convenzioni di genere, nello stabilire strategie enunciative, nel regolare punti di vista e regimi del sapere, nellʼindividuare modelli culturali e di ricezione. Incipit ed explicit presentano sempre delle analogie e delle corrispondenze allʼinterno di un medesimo film, tali da far pensare ad una sorta di involucro che circonda il film stesso: una cornice, che può assumere nei confronti della storia funzioni differenti.
In più, si attesta lʼubiquità della parola, che compare per tracciare un destino (poco roseo) per molteplici cose (la fine del cinema, la morte della celluloide) soprattutto in un momento in cui si riscrivono le regole dʼingaggio con i contenuti e con i testi. In questo caso riferirsi con costanza alla “fine del ...” evoca una disamina più attenta. Lʼinteressante eterogeneità delle giornate italiane dedicate al tema, una serie di convegni internazionali e saggi non immediatamente riconducibili ad una ricerca più estesa, può essere riassunta con le seguenti caratteristiche:
1. tentativi di creazioni di impalcature per disambiguare il concetto di fine (lavoro già effettuato in letteratura e spesso poco analizzato), con sguardo ai cambiamenti metodologici di una disciplina.
2. il rintracciare corrispondenze circolari (incipit ed explicit)
3. casi di studio raggruppati intorno a dei paradigmi creati ad hoc (come Jost e la “promessa” [2003])
4. aspettative (legate allʼimpianto teleologico) e gestione del distacco anche grazie alla funzione del paratesto.
5. “finale come magnifica ossessione”, una ricerca spasmodica di quella che abbiamo precedentemente chiamato detonazione finale.
6. storia del finale in rapporto alla storia del cinema nel suo insieme 7. fine come apocalisse
8. mancanza di finale, con però veloce e sbrigativo appiglio al postmodernismo, visto come chiave di lettura, spesso fattore di fraintendimenti su organizzazioni non postmoderne ma lasciate passare per tali in una sorta di degradazione del postmodernismo.
Per questo ultimo punto, la mancanza di fine sempre solo assimilata a tentativi postmoderni, sarà poi legata alla teoria dei Possible world [Doležel, 1998; Ryan 1991] che assimilano la narrazione alla costruzione di un mondo con aperture e valenze diverse. Contemporaneamente, cʼè anche da superare lo scetticismo riguardo questa precisa porzione di testo legato allʼuso di strumenti finalistici su “opere” che non sono più tali. Nondimeno, nelle strutture seriali televisive contemporanee, a livello del singolo episodio abbiamo comunque riscontrato un fortissimo ritorno alla narrazione (che poi vedremo non più collocarsi nel lato della storia ma nel lato della costruzione del mondo) che trattiene molto della chiusura su base erotetica. La compenetrazione tra chiusura e chiusura narrativa, come detto nellʼultima parte del capitolo precedente, si pone come una delle più importanti innovazioni morfologiche delle forma seriale televisiva contemporanea, la cosiddetta Post-Network Era, dal 2000 in poi, [Lotz, 2007]. Ma la produzione analitica sullʼargomento non ha prodotto avanzamenti del concetto. Ma diamo alcuni esempi.
Nel report della conferenza “The End”, James MacDowell [2012] si interroga ancora, sullo statuto ondivago del concetto di fine. Si potrebbe già essere alla fase di sistematizzazione del concetto, ma si indugia ancora in una fase definitoria (lavoro che è già stato fatto, ma che spesso viene ignorato). Afferma MacDowell, che la presenza della chiusura nella teoria del cinema, ha le sue origini nellʼadozione della teoria strutturalista negli anni ʼ70 [Fabbri e Marrone, 2001]. Via via si sono formate diverse metafore e la risoluzione formale è stata spesso riformulata come un tentativo di risolvere in un colpo solo i problemi sia narrativi che ideologici. Levi- Strauss, nel 1950, ha gettato le basi per la reputazione della sua teoria, affermando “mythical thought always progresses from the awareness of oppositions toward their resolution” [440].
Lʼenfasi posta qui sulla risoluzione delle contraddizioni fornisce dei motivi di sospetto nei confronti della chiusura che da allora è stata costruita su altri effetti. Inoltre, gli approcci, sia nella letteratura che al cinema, hanno tracciato un parallelo tra la chiusura narrativa e ogni impulso conservativo (e conservatore) nella cultura occidentale.
In diversi contesti [Mac Dowell, 2012], è stato fatto un parallelo con il patriarcato, con la cosiddetta “traiettoria Edipica”, con la restaurazione dei valori tradizionali della famiglia, la legge repressiva, lʼordine, alcuni modelli dominanti nella storia, il sistema capitalistico occidentale e il funzionamento dellʼideologia tout court usati anche da David Quint in Epic and Empire che appartengono ad una lettura che si vuol porre come egemone.
E naturalmente, per tenere questa serie di ipotesi in linea tra loro, tali argomentazioni sono state spesso accompagnate da rivendicazioni in contrasto con lʼideologia dei testi “aperti”. Ma aperto, spesso, è unʼetichetta vuota, una scorciatoia semantica per una degenerazione dellʼanti-finalismo e del modernismo più sperimentale.
Sia che si tratti di testi “writerly”, delle pratiche di intertestualità, cinema dʼavant-garde, o altro, lʼatteggiamento prevalente verso la chiusura ha spesso sigillato questo tipo di approccio: dato che X complica la chiusura, X ha un potenziale progressivo, poiché si dilata e si sposta.
Data questa reputazione teorica e questa eredità, ci si interroga anche sul perché terminazioni e chiusure hanno ricevuto una così poca profondità dʼanalisi, la messa in discussione del discorso della traiettoria patriarcale e lʼaffermazione del potere è in realtà in un discorso che lʼepica storica aveva