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L’eroe cammina sulla spiaggia. È giorno, quasi il mezzogiorno. Di pas- so in passo, misura il suolo, poggiandosi alla verga da àugure: sotto le suole, resti del mare, legni, ghiaie, risuonano. Guarda, richiude gli occhi, ascolta. Pensa: ripensa ciò che vede e ciò che ode. Riguarda, riascolta: ricorda. E mentre la marea va montando, tutto, con lui, diventa ritmo.

Listen: a fourworded wavespeech: seesoo, hrss, rsseeiss, ooos. Vehement breath of waters amid seasnakes, rearing horses, rocks. In cups of rocks it slops: flop, slop, slap: bounded in barrels. And spent, its speech ceases. It flows purling, widely flowing, floating foampool, flower unfurling…1

È Stephen Dedalus l’eroe che cammina col bastone, sulla spiaggia di Sandymount, il 16 giugno 1904, verso mezzogiorno, in un’altra Itaca, l’Irlanda.

Risalito sulle rocce lungo il litorale, per sottrarsi all’avanzata della marea, Stephen ascolta le parole delle onde (a fourworded wavespeech): veemente sbuffo delle acque che salgono e rifluiscono tra gli scogli, sotto i suoi piedi, dalla polla di Cock, dicendo:

seesoo, hrss, rsseesis, ooos…

Nella lingua del mare, la parola è flusso sonoro – sibilo sonante, spi- rante – e respiro: parole espirate, inspirate – soffio e risucchio: soffio «se-

esoo», risucchio «ooos», circolari come il moto dell’onda che irrompe tra

le rupi e rifluisce.

1 Ulysses, ch. 3, p. 49 (cito con il numero di pagina dell’edizione Oxford University Press curata nel 1993 da Jeri Johnson).

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E, nel ritmo della marea, suono e respiro si fanno bàttito: quattro parole al tempo di quattro bàttiti – ognuna è un segnapassi (pace-maker), pulsa- zione (see-soo, tum-tum) d’una cadenza che il cuore scandisce (perché nel cuore circola il sangue di Stephen come l’acqua tra quelle rocce).

E suono, respiro e bàttito si fanno visione: intreccio di forme viventi, bestie in movimento: cavalli, hrss-horses, che s’impennano, serpenti ma- rini, seasnakes…

Poi, quando l’energia si esaurisce – quell’energia e quella carica vio- lente che hanno mosso il vortice, il flusso e l’impulso molecolare delle cose – tutto va spegnendosi fluttuando, aprendosi e sfiorendo nello spazio, gorgogliando, ripetendosi: schiumando, echeggiando – purling, flowing,

floating, unfurling… Tutto si scarica dell’energia caricatasi – e Stephen

scarica la sua urina lì nella pozza tra le rocce: anche il suo corpo ha un proprio discorso di quattro salse parole da soffiare…

Energia, carica: la parola è energia, carica. A riascoltarla, a respirarla, questa scena ha qualcosa di primario o di primevo. Su quella spiaggia, Stephen, il pur intellettualissimo Stephen, non è (più) soltanto l’Intellet- tuale o, se è intellettuale, lo è come il bambino – come l’animale empatico e intelligente – che, davanti all’esperienza del mare, gioca con il proprio orecchio e il proprio occhio, con i sensi e le sensazioni e con il corpo tutto, scambiando con il cosmo intorno a lui qualcosa di sé – il moccio del naso su uno scoglio, il flusso d’urina tra le onde di marea…

E ciò che poi (sulla pagina) si deposita di questo turbinoso movimento percettivo e ideativo, di questa corrente che scorre tra l’uomo e il mondo, è l’impronta d’un ritmo vivente, quasi fossimo di fronte a un graffito preistorico. Non è retorico, non è formale, non è letterato il gioco di Stephen con il suono, con il soffio della parola e con le visioni che essa proietta. C’è piut- tosto un’illetteratezza che ha a che fare con la forza della vitalità. Potrem- mo dire, altrimenti, che la parola di Stephen – come in generale quella di Joyce in Ulysses – entra nella Forma solo parzialmente e vi entra lascian- do, in tutta evidenza, lì, davanti a noi, ciò che nella Forma non è rientrato: la materia animata che la circonda, la vita in cui è inscritta, e che sembra- no, questa materia e questa vita, viste nella prospettiva della Forma, de- trito, resto, scarto. Di qui il word-play «letter-litter», «lettera/scoria» che sarà centrale nell’universo di Finnegans Wake:2 lettera/moccio del naso,

2 FW, 93.24; 615.1 (i riferimenti si intendano per numero di pagina e linea, secondo le convenzioni in uso e seguendo la numerazione originale del testo inglese, cfr.

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lettera/urina. Ma non è scoria ciò che scoria appare alla postcreazione letteraria. È il suono e il ritmo stesso della creazione poetica, rispetto a cui la postcreazione letteraria potrebbe sembrare, a sua volta, scoria. Non è certo questione di che cosa, tra le due, sia originario e originale, di che cosa venga prima o dopo: è questione, piuttosto, di percepire l’intervallo che vi intercorre e lasciare che l’intervallo si insuffli e respiri nella parola. La parola sospesa tra il prima e il dopo della Forma e, certo, della scrittu- ra. È in questo senso che Stephen può dire: Rhythm begins, you see. I hear.

1. Filologia

Il capitolo dell’Ulisse che descrive il girovagare di Stephen sulla spiag- gia, porta il nome (nei celebri schemi Linati e Larbaud) di Proteo ed è dedicato a un’arte: la filologia. Sembrerebbe assai parodico – vortice di suoni ritmici associati ai moti del corpo e a un’ideazione errante, tumul- tuosa… – , ma lo è? C’è davvero un’intenzione parodica? Sono convin- to, con Stuart Gilbert, che non lo sia «[…] The ‘art’ of this episode is

philology, and the analogy between the incessant modifications of human speech and the transformations of Proteus, the movement of the tides, is obvious. Language is always in a flux of becoming, ebb or flow, and any attempt to arrest its trend is the folly of a Canute».3 La lingua è un flusso

in perpetuo divenire: impossibile arrestarne il continuo movimento, come impossibile sarebbe arrestare la marea. È forse qui che si apre, davvero, l’ipotesi di un’inedita vicinanza tra il creatore – il «poeta» – e il filologo – il savant della parola?

1.1 Il cantore, il volo dell’anima, la scrittura

C’è un’immagine che Stephen porta sempre con sé (tanto che essa ri- corre come un filo conduttore e un leitmotiv tra il Portrait of the Artist e Ulysses). È quella dell’àugure. Più che un’immagine, a dire il vero, è un insieme di forme che convengono in una potente astrazione: una vera e propria configurazione. Stephen reca in mano, ognora, un bastone da cammino, una verga di frassino ricurva sulla cima, che, da un lato, ricor-

Finnegans Wake, New York, Viking Press, 1939 e Faber &Faber, London, 1939). Quanto alle riflessioni di Jacques Lacan sul wordplay joyciano, cfr. Altri scritti (a c. di A. Di Ciaccia), trad. it., Torino, Einaudi, 2013, pp. 9-19.

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da l’antico bastone da pastore (e il sacro pastorale), dall’altro rievoca il bastone degli àuguri che ne usavano per disegnare linee nel cielo e così dividerlo nelle zone fauste e infauste in cui i sacri auspici degli uccelli – fossero le tracce segnate dai loro voli oppure i suoni dei loro versi e gridi –, sarebbero apparsi. Ma, intrecciandosi e sovrapponendosi a questa figura, altresì affiora, dal gioco della memoria, il rapsodo, l’uomo con la

rhabdos, quel poeta la cui verga è simbolo del dono e della potenza che lo

investe nonché lo strumento per scandire il ritmico battere e cantilenare delle parole nello spazio-tempo della formula.4 Il viandante solitario, l’in-

dovino, il cantore si incontrano. Il viandante solitario: Stephen cammina, cammina sempre. Le scarpe – scarpe (boots), ma anche sandali (sandals),5

presi a prestito, non suoi (a rimarcare meglio lo «spostamento» di chi mai si ferma), sono un suo pensiero costante: le guarda, le scruta e immagina i piedi che mal vi si adattano. Uno dei suoi passatempi preferiti è contare i passi, passi al ritmo di versi:

He could wait no longer. From the door of Byron’s public-house to the gate of Clontarf Chapel, from the gate of Clontarf Chapel to the doors of Byron’s public-house and then back again to the chapel and then back again to the public-house he had paced slowly at first, planting his steps scrupulously in the spaces of the patchwork of the footpath, then timing their fall to the fall of verses […] For a full hour he had paced up and down, waiting: but he could wait no longer.6

E il viandante, con il poeta, si fa veggente: ascolta il canto degli uccelli. Fermo sui gradini della biblioteca, che gli sembra un tempio antico, si allunga verso il cielo, sostenendosi sul bastone, e lascia che i suoi orecchi si riempiano di note lunghe, stridenti e vorticanti (the notes were long and

shrill and whirring) che cadono dall’aria come fili di luce setosa srotolati

da spole turbinose (threads of silken light unwound from whirring spools). Sono le rondini a cantare: migratrici, sempre protese all’erranza (to wan-

der) che ognora vanno e vengono (birds ever going and coming), come co-

lui che le sta guardando e ne raccoglie voci e segni. Parole e nomi antichi gli si affacciano alla memoria, parole e nomi di versi un tempo uditi: Oona

4 Bruno Gentili, Poesia e pubblico nella Grecia antica, Roma-Bari, Laterza, 1984, pp. 1-30 (dove si chiarisce anche il gioco pseudoetimologico tra rhabdos e rhapsoidos).

5 Ulysses, ch. 3, p. 48: «Me sits there with his augur’s rod of ash, in borrowed sandals».

6 A Portrait of the Artist as a Young Man (d’ora in poi, Portrait), ch. IV, p. 190 (cito con il numero di pagina della prima edizione Huebsch, New York, 1916).

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and Aleel,7 parole-eco di vocali lunghe e dolci che s’incontrano senza ur-

tarsi e ricadono ripetendosi come onde sonore, così trasportando, a galla del loro flusso, l’aupicio cercato: symbol of departure or of loneliness?8

Come un primitivo sciamano. Perché Stephen sente l’anima muoversi dentro di lui. Soul è una parola totemica per Stephen: nel senso che non è solo una parola. È una parola-compagno del creatore. Quando, infatti, attraverso il proprio nome (Dedalus), alla vita della lingua poetica si sente finalmente rinascere, Stephen avverte l’anima-uccello alzare le ali all’in- terno del suo corpo9 e, al contempo, proiettarsi fuori di lui, in cielo: può

essere un falco o un’aquila, the hawklike man,10 o anche una pavoncella11

(quando, al bisogno, deve giocare d’astuzia e d’inganno contro i nemici).12

La parola, da sempre «alata», risponde all’organo alato che pulsa, frulla, batte, vortica, si libra e plana dentro il poeta: l’anima è un animale-animal, un altro essere animato, un’altra energia, commista a quella del corpo, che nel corpo sta, per uscirne volando a perlustrare il cosmo e rientrarvi con la sua messe di voci, esperienze, parole, immagini udite e viste durante la peregrinazione celeste: così l’anima-uccello canta, come il poeta.

Da questa scena la scrittura è lontana: la biblioteca, nel Portrait come in Ulysses, è un luogo tombale, un mausoleo, dove i pensieri, chiusi in sarcofagi – i libri – giacciono mummificati e le parole diventano spezie o resine per l’imbalsamazione: coffined thoughts around me, in mummyca-

ses, embalmed in spice of words.13 La biblioteca è il regno di Thoth, il dio

degli scrittori, che scrive con un calamo sulla tavoletta (Thoth, the god of

writers, writing with a reed upon a tablet) e pare un giudice occhialuto e

parruccone, intento a porre virgole a un documento che tiene a distanza di braccio (a bottle-nose judge in a wig, putting comas into a document which

he held at arm’s lenght).14 La farmacia della scrittura – direbbe Derrida

15 è cosmesi di un corpo cadaverico. La verga del cantore-àugure che era

7 Sono due personaggi (la madrina e il poeta) del dramma di William Butler Yeats, The Countess Cathleen, evocato nel Portrait, ch. V, p. 265.

8 Per tutto il passo, si veda Portrait, ch. V, p. 265.

9 Ricorderemo senz’altro che l’immagine è antichissima, ed è stata resa indimenti- cabile da Platone, nel Fedro.

10 Portrait, ch. IV, p. 196.

11 Lapwing, così in Ulysses, ch. IX, p. 202.

12 Contro gli arroganti e i saccenti incontrati nella biblioteca. 13 Ulysses, ch. IX, p. 186.

14 Portrait, ch. V, p. 264.

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l’occhio e l’orecchio esterno della mente, se non il sesto senso collettore dell’energia vivente, diventa ora rigida canna, strumento inanimato per incidere inanimati segni.

Certo, Stephen scrive, o cerca, tenta continuamente di scrivere poesia, come Joyce scrive romanzi o, meglio, scrive nel tempo continuato della pro- sa… Ma è uno scrivere a grande distanza dalla scrittura e dalla sua arte della Forma. È piuttosto uno scrivere, infatti, ch’è un lasciare impronte ritmiche della mente e del corpo, simboliche figurazioni o mappe o itinerari in movi- mento che non descrivono un mondo sensibile, non raccontano storie e non ordinano e strutturano il pensiero nella sintassi della lingua sociale.16 Giusta-

mente Samuel Beckett aveva potuto dire della scrittura joyciana (e lo diceva di Finneganns Wake, ma a pieno titolo possiamo ripeterlo anche di Ulysses):

Qui la forma è contenuto, il contenuto è forma. Voi lamentate che questa ma- teria non sia scritta in inglese. Ebbene: non è scritta per niente. Non è fatta per essere letta – o almeno non solo per essere letta. È fatta per essere guardata e ascoltata. La sua [di Joyce] scrittura non verte intorno a qualcosa; è essa stessa

quel qualcosa. […] Quando il senso è dormire, bene, le parole vanno a dormire.

(Si veda la fine di Anna Livia). Quando il senso è danzare, le parole danzano. […] Questa scrittura che voi trovate così oscura è ciò che di quintessenziale viene estratto dalla lingua, dalla pittura e dalla gestualità, in tutta l’ineluttabile chiarezza dell’antico linguaggio inarticolato. Qui c’è la selvaggia economia del geroglifico. Qui le parole non sono la sofisticata contorsione dell’inchiostro a stampa del XX secolo. Qui le parole sono vive. Si aprono la strada attraverso e oltre la pagina e risplendono e fiammeggiano e s’attenuano e spariscono.17

16 Ricordiamoci queste parole di Stephen: «La frase, il giorno e la scena facevano armonia, in un accordo. Parole. Era per i colori? Li lasciò splendere e spegnersi, tinta dopo tinta: oro di un’alba, il rosso e verde di un meleto, azzurro delle onde, il grigio frangiato del manto nuvoloso. No, non era per i colori: era per l’equilibrio e la cadenza del periodo in sé. Ma allora amava di più il ritmico levare e battere delle parole che il loro associarsi in storie e colori? O forse era per questo: sicco- me era debole di vista e introverso, gli dava meno piacere il riflettersi del mondo sensibile e splendente nel prisma di una lingua tutta colori e storie, che la contem- plazione di un mondo interiore d’emozioni individuali rispecchiata perfettamente in una lucida, flessibile, ritmica prosa?», Portrait, ch. IV, p. 193.

17 Dante… Bruno. Vico.. Joyce, in Our Exagmination round his Factification for Incamination of Work in Progress, Paris, Shakespeare & Co., 1929. Ecco il testo originale: «Here form is content, content is form. You complain that this stuff is not written in English. It is not written at all. It is not to be read – or rather it is not only to be read. It is to be looked at and listened to. His writing is not about something; it is that something itself. […]When the sense is sleep, the words go to sleep. (See the end of ‘Anna Livia’) When the sense is dancing, the words dance […] This writing that you find so obscure is a quintessential extraction of

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Il poeta viandante vate àugure indovino sciamano non è solo una metafo- ra, per Joyce. Certo è l’intellettualizzazione d’una tradizione plurimillena- ria, ma è un’intellettualizzazione che non (ri)produce stereotipie (letterarie). Perché è un’intellettualizzazione che semplicemente consiste nell’apertura di un’epocale domanda sull’energia generativa della parola poetica. Una domanda autentica, sganciata dal tempo storico, e riannodata al movimento ritmico della creazione. Prova ne è quella sua scrittura che non è più scritta.

1.2 Epos: il mito, la forma, la formula, la parola

Ma che cosa va cercando allora il poeta – viandante indovino sciamano – Stephen Dedalus (James Joyce) al principio del XX secolo? L’incontro con una pratica della parola che, rimontando oltre la scrittura o superan- dola, sia ritmo presente – nel qui ed ora dell’ascolto – e perennemente in flusso – nell’ «allora» di un tempo passato e futuro.

Dopo l’intuizione (o la provocazione) hegeliana che il romanzo borghese si ricalca sull’epos antico, la critica letteraria marxista novecentesca, intorno agli anni Trenta, ha vivificato – all’incrocio tra lettura storica, sociale, ideolo- gica e stilistica – l’attenzione teorica della contemporaneità intorno alla forma epica.18 Nel mondo della creazione poetica, nel mondo degli scrittori, quest’at-

tenzione, però, era già nata con un autore e un’opera, James Joyce e il suo

Ulysses.19 Joyce era alla ricerca dell’epos. Ma in che senso? Forse dell’epos

come mito – e così subito si affrettò a dire qualcuno che molto contava, non solo come poeta, ma anche come critico – oppure si tratta di tutt’altra questione?

language and painting and gesture, with all the inevitable clarity of the old inar- ticulation. Here is the savage economy of hieroglyphics. Here words are not the polite contortions of 20th century printer’s ink. They are alive. They elbow their way on to the page, and glow and blaze and fade and disappear».

18 Fraintendendola, ma riabitandola: su una questione così vasta mi limito qui a cita- re Michail Bachtin e György Lukács, Problemi di teoria del romanzo [1935-38], trad. it., Torino, Einaudi, 1976; Nadia Fusini, La passione dell’origine. Studi sul tragico shakespeariano e il romanzesco moderno, Bari, Dedalo, 1981; Franco Moretti, Opere mondo. Saggio sulla forma epica dal Faust a Cent’anni di solitu- dine, Torino, Einaudi, 1994.

19 Nell’avanzare queste dichiarazioni sullo Ulysses di Joyce: «Perpetually oscillating patterns of sense and memory-data, their powerfully charged – but aimless and di- rectionless» – fields of force, give rise to an epic structure which is static, reflecting a belief in the basically static character of events», Lukács sottolinea la struttura epica dell’opera, ma, purtroppo, non la penetra. Cfr. The Meaning of Contempora- ry Realism [ed. or. 1957], trad. ingl., London, Merlin Press, 1963, p. 18.

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Il primo a segnalare (scorsi due mesi dalla pubblicazione di Ulysses) che quello di Joyce era un viaggio di ritorno al presente dall’Odissea, fu il sottilissimo Valéry Larbaud.20 Non parlava, Larbaud, né di «(forma) epi-

ca» né di «mito», diceva semplicemente: Odissea e Ulisse. Indicando però con quel nome, Odissea, un enigma: che cos’era, infatti, per il lettore del Novecento, l’Odissea? Per il moderno lettore non letterato (le lecteur non

lettré, con cui si intenda «il lettore comune»), l’antico poema non rappre-

sentava che una grande «macchina di solennità» (machine solemnelle), inventata per servire da «modello morale» e da soggetto di «esercitazioni scolastiche». Sicché, per quel lettore non letterato, l’illeggibile Ulysses di Joyce non costituiva altro se non una parodia contemporanea del monu- mentale paradigma classico. Per il lettore letterato (colto e intellettuale) moderno, di moderna letteratura nutrito, l’Odissea sarà invece un’opera semplicemente noiosa, inattuale, senza interesse: un rimando, tutto som- mato, piuttosto inservibile. Per i lettori-creatori, i lettori-poeti, infine, quella dell’Odissea non sarà certo una «questione» da ritenersi fondamen- tale per comprendere Joyce, bensì da considerarsi già da principio risolta (réglée) – proprio in questi termini si esprimerà, a pochissima distanza di tempo, Ezra Pound.21 D’altra parte, prosegue Larbaud, non è forse vero

che la civiltà antica è stata, di poeta in poeta, trasmessa fino ai poeti di oggi? Non ne sono loro i diretti eredi? In ogni caso, i veri creatori sono troppo impegnati per mettersi a fare quel lungo viaggio fino ad Omero… Ecco che, però, Joyce è un’eccezione: «la grande felicità e la straordina-

rietà del caso Joyce sta nel fatto che egli abbia voluto fare proprio quel viaggio nel momento in cui la potenza della creatività si svegliava in lui».22

20 Larbaud fece una prima conferenza, il 7 dicembre del ’21 (poco più di due mesi prima dell’uscita di Ulysses), alla Maison des Amis des Livres, a Parigi, quindi pubblicò il suo intervento, intitolandolo semplicemente James Joyce, sulla Nou- velle Revue Française, nell’aprile del ’22, n° 103, pp. 385-409.

21 Così si esprime Pound: «Joyce emploie un échafaudage pris à Homère, et les restes d’une culture moyenâgeuse allégorique; peu importe, c’est une affaire de cuisine, qui ne restraint pas l’action, qui ne l’encommode pas, qui ne nuit pas à son réalisme, ni à la contemporanéité de son action. C’est un moyen de regler

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