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La ricezione del libro di Acemoglu e Robinson nel mondo e in Italia Pareri e critiche.

Dal momento della sua prima pubblicazione negli Stati Uniti il libro di Acemoglu e Robinson è stato oggetto di analisi, sia positive che negative, da parte di economisti, sociologi, giornalisti e studiosi in genere. Dato l'enorme successo riscosso tra i lettori, questo era tutto sommato inevitabile.

Tra coloro che si sono espressi sul libro ci sono alcuni dei sostenitori di quelle che Acemoglu e Robinson definiscono “teorie che non funzionano”. Tra questi, ad esempio, c’è il biologo ed etologo statunitense Jared Diamond, sostenitore dell'ipotesi geografica come motivo di sviluppo o povertà di una nazione, che ha espresso, come era prevedibile, un parere non del tutto favorevole20.

In risposta alla critica di Acemoglu e Robinson, che ritengono la sua teoria solo parzialmente valida e mancante di alcuni elementi di valutazione necessari per giustificare la crescita o lo stallo di un paese, Diamond mette in evidenza alcune lacune di Perché le nazioni

falliscono. Diamond giudica eccessiva l’importanza dedicata all'analisi

delle istituzioni, e accusa Acemoglu e Robinson di aver tralasciato altri importanti fattori. Infatti nel libro essi non spiegano né come paesi ricchi, produttori di risorse, evitino le crisi, né perché gli altri paesi vi soccombano.

Un'altra è che la teoria degli autori non è talvolta supportata dai fatti. Tra gli esempi che sono compatibili con la teoria di Acemoglu e Robinson Diamond cita il caso delle due coree, e un altro esempio è quello della Germania prima della riunificazione. Ma Diamond porta anche l’esempio di alcune nazioni, come ad esempio l’Argentina, che possono vantare un discreto successo economico nonostante le loro istituzioni non siano mai state tra le più “inclusive” al mondo. Ma soprattutto, Diamond ritiene che esista molta evidenza empirica a sostegno della tesi geografica. Spingendo molto indietro l’analisi storica, Diamond osserva come originariamente tutti gli uomini siano stati cacciatori e raccoglitori e che, successivamente, essi diventarono agricoltori solo in nove piccole aree sparse in tutto il mondo. Un secolo di ricerche da parte di botanici e archeologi – spiega Diamond – ha dimostrato, da una parte, che ciò che rendeva eccezionali queste aree era la loro ricchezza di piante selvatiche e di specie animali domestiche, e, dall’altra, che queste differenze riguardanti la storia remota hanno poi avuto un peso notevole nel generare le differenze che sono osservabili nella nostra epoca.

Nonostante queste critiche Diamond è convinto del valore del libro e apprezza l'impegno di Acemoglu e Robinson nel fornire una spiegazione della prosperità o povertà di un paese anche ad un pubblico non esperto di economia. D’altra parte, Diomond rimane del parere che la tesi geografica sia qualcosa di più complesso di quanto suggerito in Perché le nazioni falliscono. Questa tesi generale

racchiude in sé il riferimento ad una moltitudine di fattori, escludendo quindi qualsiasi spiegazione mono-casuale come quella di Acemoglu e Robinson, che da questo punto di vista appare decisamente troppo ambiziosa. Ciò nonostante, Diamond trova che il libro di Acemoglu e Robinson sia comunque importante per il grande risalto che riesce a dare ad una delle cause della ricchezza e della povertà delle nazioni, e certamente ad una causa molto rilevante, soprattutto nella nostra epoca.

Ancora riguardo all’ipotesi geografica si esprime Jeffrey Sachs, economista statunitense, prima in una recensione al libro di Acemoglu e poi in una risposta alla replica dei due autori21. Come Diamond,

anche Sachs sostiene che le differenze tra i paesi non si possono spiegare soltanto in base all’esistenza o meno di istituzioni politiche inclusive le quali possono favorire o meno l’innovazione e quindi la crescita economica. Inoltre, anche Sachs solleva alcune importanti osservazioni sull’uso che Acemoglu e Robinson fanno dell’evidenza empirica disponibile.

Nella risposta alla replica degli autori, Sachs espone la sua tesi in cinque punti. Il primo riguarda il binomio “innovazione-diffusione”, sottolineando che non vi è solo la questione della maggiore o minore capacità di innovare, perché al fianco di questo fattore occorre anche esaminare quelle che sono le possibilità di diffusione dell’innovazione tecnologica. Già per questo motivo, la capacità di generare

innovazione non può essere l’unica fonte di crescita di un paese e non può essere l’unico fattore in grado di spiegare il successo o il fallimento di una nazione.

Collegato al primo, il secondo punto mette in evidenza che le istituzioni che promuovono l’innovazione non sono necessariamente le stesse che favoriscono, invece, la sua diffusione. Il fatto che spesso tali istituzioni non sono le stesse si riflette nello sviluppo di un paese. Sachs rileva in particolare il fatto che i regimi dittatoriali, per quanto possano essere incapaci nel promuovere l’innovazione (e non è detto che lo siano), sono invece molto spesso piuttosto efficienti nel diffondere l’innovazione importandola da altri contesti.

Il terzo punto tratta dell’interazione tra innovazione ed ambiente, e di come certi fenomeni di crescita economica si siano sviluppati in determinate aree geografiche piuttosto che in altre. Un esempio è quello della Rivoluzione Industriale che ebbe origine in una zona dove erano presenti giacimenti di carbone. Anche la produttività agricola, secondo Sachs, dipende dalla connessione tra la conoscenza agronomica e le condizioni biofisiche di un determinato territorio. La diffusione della tecnologia, quindi, segue inevitabilmente le condizioni dettate dal clima e dalla geografia, lungo un percorso che richiama, senza citarlo, quello già ricostruito da Diamond.

Il quarto punto riguarda il successo economico sotto i regimi autoritari, che per Acemoglu e Robinson sembrano poter essere soltanto sinonimo di insuccesso e fallimento. Al contrario, Sachs evidenzia come sia

possibile assistere a fenomeni di promozione della crescita economica anche sotto regimi autoritari. 22

L’ultimo punto riguarda il cambiamento delle istituzioni politiche nel tempo. Le istituzioni, infatti, sono in continua evoluzione ed è facile che la crescita economica spazi da assetti democratici a regimi autoritari, ciò significa che un’istituzione economica e politica consolidata può in futuro essere soggetta a cambiamenti.

Tra le spiegazioni alternative a quella di Acemoglu e Robinson rientra certamente il contributo della storica economica Deirdre Nansen McCloskey, che ha commentato Why Nations Fail in un lungo articolo apparso sul “Journal of Evolutionary Economics” nel 2015.

In riferimento alla teoria di Acemoglu e Robinson, McCloskey sostiene che siano le idee e le ideologie che hanno cambiato il percorso storico ed economico dei paesi, con particolare riferimento all’Europa Nord- occidentale23. Ecco perché le istituzioni e gli interessi non possono

avere un ruolo predominate, ma devono comunque riferirsi alla storia e alle ideologie.

Un’altra opinione critica è quella di Warren Bass, scienziato politico presso la RAND Corporation degli Stati Uniti.24 Anche per Bass il libro

è ben lontano dalla perfezione. In particolare, la tassonomia tra 22 In proposito, nella sua recensione, Sachs porta come esempi la Prussia all’inizio del XIX secolo, il Giappone alla fine dello stesso secolo, la Corea del Sud negli anni ’60 del secolo scorso e la Cina negli anni ’80. (Sachs 2012a, p. 143).

23 McCloskey D.N., 2015.

istituzioni inclusive ed estrattive finisce per essere ripetitiva. Dopo i primi capitoli ricchi di brio – scrive Bass – gli autori si perdono nell’indeterminatezza delle loro conclusioni ed il loro entusiasmo ingenera, talvolta, ammirazione, talvolta una mancanza di cautela nell’affrontare determinati argomenti. Eppure, il giudizio resta tutto sommato positivo, e la recensione di Bass è nel complesso un invito a leggere questo libro così imperfetto:

“Acemoglu and Robinson have run the risks of ambition, and cheerfully so. For a book about the dismal science and some dismal plights, “Why Nations Fail” is a surprisingly captivating read”.

Anche per Paul Collier, professore di economia presso la Blavatnik School of Government dell’Università di Oxford, che ha recensito il libro per il quotidiano britannico The Guardian, “Why Nations fail is a must-read”. Collier si sofferma sull’impegno dei due autori nel dare una spiegazione semplice, univoca e perfettamente comprensibile alla problematica a cui tentano di rispondere da decenni gli studiosi di economia: capire perché duemila anni fa non esisteva alcuna differenza significativa a livello economico tra i paesi, mentre da duecento anni a questa parte, alla prosperità che regna in determinati paesi si contrappone la povertà che ne affligge altri.25

25 “Two hundred years ago, there was no such gap, at least not on the scale we are used today; nor, most probably, will there be one in 200 years’ time. But the present reality is of astounding difference: the same people can live in abject poverty in one country, yet be prosperous once they

Collier evidenzia che in passato la soluzione al problema della povertà fosse di tipo tecnocratico. Negli anni sessanta si riteneva che il motivo dell’arretratezza di alcuni stati fosse la mancanza di capitale mentre negli anni ottanta l’attenzione si spostò sulla scarsità di politiche economiche adeguate. Acemoglu e Robinson, invece, grazie anche all’aiuto di molti esempi storici, propongono una soluzione diversa, basata sulle relazioni tra investimenti, istituzioni e innovazione.

Secondo Collier, la fiducia nelle istituzioni è ciò che può favorire l’investimento come “atto di fede” nel futuro da parte degli investitori e degli innovatori che ambiscono al successo.

W. Bentley MacLeod26, membro del dipartimento di Economia della

Columbia University, mette in evidenza l’efficacia del libro di Acemoglu e Robinson attraverso il confronto con un altro libro, scritto da Timothy Besley e Torsten Persson della Princeton University e pubblicato l’anno precedente (2011), dal titolo “Pillars of Prosperity:

The Political Economics of Development Clusters”. Entrambi i libri

identificano il successo di una nazione con la qualità delle sue istituzioni. “Pillars of Prosperity” si differenzia però dal libro di Acemoglu e Robinson poiché si basa su un modello comune di economia esaminando i dati di alcuni paesi dal 1950 ad oggi, per capire il loro sviluppo. Besley e Persson affermano che le ipotesi di successo di un paese si possano sintetizzare nella capacità dello stato di aumentare il reddito, di imporre il ruolo della legge e di evitare

move to another.” Collier P., 2012.

conflitti politici. Come anticipato nel titolo del libro, questi sono i pilastri su cui si fonda la prosperità.

MacLeod sostiene che il libro di Besley e Persson sia molto più tecnico rispetto a quello di Acemoglu e Robinson, che si rivolgono certamente ad un pubblico più vasto concentrando la loro teoria solo sull’importanza della storia e sul ruolo delle istituzioni per giustificare la crescita economica. Proprio per questo, secondo Mac Leod, Acemoglu e Robinson hanno riscosso decisamente più successo, poiché forniscono una soluzione molto più semplice ai problemi che si presentano all’interno di un paese.

Una prospettiva opposta, ma sempre sul tema della semplicità del libro, è quella di Louis Putterman della Brown University. 27 Putterman

si sofferma sul concetto più importante espressa dai due autori, ovvero l’assenza o la presenza di istituzioni politiche ed economiche inclusive all’interno di un paese come unico elemento necessario per valutare il successo economico e la crescita delle nazioni. A questo concetto però, secondo Putterman, viene attribuita fin troppa importanza. Putterman prosegue mettendo in evidenza la difficoltà che trova nel capire l’insistenza sul ruolo delle istituzioni dal momento che esse vengono identificate come il solo e unico fattore causale della prosperità di un paese. Secondo Putterman, Acemoglu e Robinson forniscono ampie motivazioni per spiegare il motivo per cui le teorie contrarie alla loro

non possono essere applicate e non possono funzionare, ma non spiegano altrettanto bene quale sia il motivo della loro continua insistenza riguardo alle istituzioni.

Le recensioni che abbiamo visto sin qui insistono tutte, nel bene e nel male, sulla semplicità e la radicalità della tesi di Acemoglu e Robinson. La recensione di Gideon Rachman sul Financial Times, scritta a distanza di un anno dalla pubblicazione del libro, introduce invece un’altra prospettiva, che coincide, molto curiosamente, con quella che ritroveremo in Italia sul Manifesto28.

L’attenzione di Rachman si sposta sulla relazione tra libertà e ricchezza di un paese, ricordando una frase di Ian Morris, storico ed accademico presso l’Università di Stanford, a proposito del libro di Acemoglu e Robinson: “It is freedom that makes the world rich”.

La tesi espressa in Why nations fail, è una spiegazione mono-causale dell’evoluzione delle società nei vari paesi ma, secondo Rachman, ogni avvenimento, anche in differenti parti del mondo è, in ogni caso, un semplice punto all’interno della complessità della storia. La correlazione tra la libertà politica e successo economico su cui Acemoglu e Robinson insistono è sola una parte di questa complessità. La libertà politica andrebbe intesa, secondo Rachman, anche come

28 Rachman G., 2013. La recensione sul Manifesto è quella di Trotta (2013) che vedremo più avanti. È in effetti abbastanza curioso che il Financial Times, un vero e proprio simbolo del capitalismo occidentale, abbia espresso sostanzialmente la stessa posizione del quotidiano comunista italiano.

capacità di rendersi conto delle problematiche dello stato andando oltre la venerazione quasi religiosa di una costituzione, come avviene negli Stati Uniti, oppure evitando di concentrarsi soltanto su un unico problema come succede in Europa, dove la causa di ogni crisi viene ricondotta all’Euro.

Rachman conclude che, sicuramente, vi sono molte altre cause per cui una nazione può fallire ma, sicuramente, una è il mal funzionamento del sistema politico. D’altra però, ed è questa la tesi che ritroveremo sul Manifesto, se il libro ha avuto tanto successo non è solo perché Acemoglu e Robinson riescono a introdurre una spiegazione semplice in tanta complessità. È il messaggio rassicurante del libro, secondo Rachman, ad aver affascinato tanti lettori, ben felici di sapere che i sistemi politici democratici in cui vivono sono gli unici che posso garantire la prosperità:

“I think that Why Nations Fail makes a strong case that, over the long term, there is a clear correlation between political freedom and economic success. But, in the US, a generalised attachment to liberty has somehow turned into an unquestioning veneration of the constitution that has become almost quasi-religious”

3.1- Opinioni riguardo a “Perché le nazioni falliscono” in Italia.

Il libro di Acemoglu e Robinson è stato pubblicato in Italia nel 2013, un anno dopo rispetto alla sua pubblicazione negli Stati Uniti, ed ha comunque avuto un rilevante impatto sia tra gli studiosi di economia così come tra un pubblico più generale.

In molti si sono espressi sul lavoro dei due studiosi americani, in modo sia positivo che negativo. La maggior parte dei pareri riguardano il tema generale del libro, ovvero la differenza tra istituzioni inclusive ed estrattive, ma non mancano anche opinioni riguardo ad aspetti più specifici, che possono essere applicati a varie problematiche che l’Italia sta vivendo.

Già nel 2012 due giornalisti del quotidiano “La Repubblica”, Francesco Domenico Moccia e Simonetta Fiori, avevano anticipato il contenuto del libro che era da poco uscito negli stati Uniti.

Moccia, in un suo articolo,29 oltre a descrivere il grande successo del

saggio negli Stati Uniti, fa un inevitabile paragone con la situazione italiana, notando subito che nel libro non viene affrontato il problema degli squilibri interni alle nazioni, come la Questione meridionale italiana. L’Italia è governata infatti da un unico sistema istituzionale, ma ciò non impedisce che si creino significative e stabili disuguaglianze.

Diverso il giudizio di Simonetta Fiori, che insiste una volta di più sul contrasto tra la complessità della questione posta nel libro e la semplicità della risposta,30 per poi individuare un nesso secondo lei

abbastanza visibile tra Why Nations Fail e l’Italia.

Anche Fiori, come già Rachman, trova efficace la frase di Ian Morris citata sopra, per cui “è la libertà che fa il mondo più ricco”, come sintesi estrema del libro. Visto in questo modo, il libro di Acemoglu e Robinson è prima di tutto uno studio del legame tra situazione politica ed istituzioni economiche più o meno inclusive o estrattive. E da questo punto di vista – anche se, come Fiori osserva, l’Italia è praticamente ignorata nel libro, ad eccezione della sua storia meno recente,31 Fiori fa questa osservazione:

30 “Robinson e Acemoglu sono partiti da una domanda

complicatissima - perché esistono nazioni ricche e nazioni povere, paesi supercivilizzati e paesi degradati, popoli ben nutriti e in salute e popoli affamati e fiaccati da ogni malattia. E la risposta - lunga 530 pagine e circa dodicimila anni, dalla rivoluzione neolitica alla

primavera araba, nello spazio dell' intero mappamondo, dall' Africa all' Europa orientale e dall' America latina all' Asia del Sud - sembra andare a parare sempre dalla stessa parte: «istituzioni, istituzioni, istituzioni», come piace dire agli autori con una triplice iterazione” (Fiori S., 2012).

31 L’Italia è citata davvero pochissime volte nel libro di Acemoglu e Robinson, ma alcuni esempi storici relativi al nostro paese sono stati oggetto di discussione. È il caso di Venezia, che come sostiene Alessandro Panerai (2014), sul blog “L’intellettuale dissidente”, è un esempio efficace che i due autori fanno per dimostrare come la potenza possa nel lungo periodo smarrirsi e decadere. Molto significativo, come nota Panerai, il titolo del capitolo su Venezia: “How Venice became a museum”. Panerai concorda con la distinzione netta dei due autori tra istituzioni inclusive ed estrattive, e per quanto riguarda l’Italia è perentorio nell’affermare la prevalenza delle istituzioni estrattive. Anche secondo Panerai, dalla storia non si può altro che imparare e riflettere su quanto oggi accada.

“la lettura di questo libro ci riguarda da vicino. La diseguaglianza crescente, l'immobilità, gli scarsi investimenti nella scuola e nella ricerca: anche da noi l'impoverimento è coinciso con il progressivo sperdimento della guida politica. Il libro di Robinson e Acemoglu si potrebbe leggere anche in questo modo, «ecco la ricetta per evitare il fallimento». Non rimane che augurarci che diventi bibbia anche per le nostre classi dirigenti”.

Sulla stessa linea, sul Corriere della Sera, il commento di Danilo Taino, scelto dall’editore italiano del libro come citazione migliore per ‘lanciare’ il libro nel nostro paese: “Acemoglu e Robinson dimostrano, in un brillante viaggio storico, che sono le istituzioni a determinare il successo di un Paese. O il suo insuccesso quando mancano. Lettura obbligatoria per il Comitato dei 40 parlamentari che dovranno scrivere le nuove norme costituzionali”.

Il riferimento, in questo commento di Taino sul Corriere, è alla ‘Commissione di Saggi’ nominata nel 2013 per dare avvio alla riforma costituzionale poi bocciata dal referendum del dicembre 2016. Sulla stessa lunghezza d’onda, prima del referendum, troviamo Marco Simoni, consigliere per gli affari economici internazionali presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri, che ha citato il contributo dei due studiosi americani in un suo articolo del 4 febbraio 2015 pubblicato su “Il Post”.

L’articolo riguardava nello specifico la riforma costituzionale, proposta dal governo Renzi con il disegno di legge dell’8 aprile 2014. E per

sostenere la riforma costituzionale, Simoni evidenziava alcuni aspetti del saggio di Acemoglu e Robinson, che definisce come “il lavoro più celebre della lunga tradizione istituzionalista”32. Simoni mette in

evidenza che i successi di lungo periodo derivano dalle istituzioni di tipo inclusivo e che la politica in Italia ha sviluppato una tendenza ad escludere piuttosto che ad includere i cittadini nel successo economico e personale.

Traducendo il libro nei termini del dibattito politico in corso nel nostro paese, Simoni concordava con Acemoglu e Robinson sul fatto che le nazioni si impoveriscono e non hanno più spinta all’innovazione quando non premiano chi è più bravo ma chi è fedele ad una casta. Per questo, proseguiva l’articolo di Simoni, è necessario aumentare la trasparenza e la responsabilità per evitare anche che si formino delle élites. Governi più stabili e più forti sono un deterrente per le rendite di posizione che invece si nutrono di instabilità ed incertezza. Ecco

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