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"'Perché le nazioni falliscono': la teoria neo-istituzionalista di Acemoglu e Robinson a confronto con il caso italiano"

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Academic year: 2021

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DIPARTIMENTO DI GIURISPRUDENZA

CORSO DI LAUREA IN GIURISPRUDENZA

TESI DI LAUREA

“ ‘ Perché le nazioni falliscono’: la teoria neo-istituzionalista

di Acemoglu e Robinson a confronto

con il caso Italiano"

CANDIDATO

RELATORE

Diana Colombai

Chiar.mo Prof. Carlo Cristiano

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Indice

 Introduzione – pag. 4

 Capitolo I - Il concetto di crescita in economia. - pag. 7 ◦ 1.2 – Adam Smith e La ricchezza delle nazioni. - pag. 14 ◦ 1.3 – Schumpeter e la Teoria dello sviluppo

economico.-pag. 17

◦ 1.4 – Il modello di Solow e Swan. - pag. 21

◦ 1.5 – Il ruolo delle istituzioni nel processo di crescita di una nazione.- pag. 25

◦ 1.6 - Una nuova concezione delle istituzioni: il contributo di Acemoglu e Robinson. - pag. 29

 Capitolo II - Paesi ricchi e paesi poveri: differenze di reddito e di tenore di vita. - pag. 32

◦ 2.1 - L’importanza delle Costituzioni. - pag 33.

◦ 2.2 - I riflessi dell’attività delle istituzioni dalle origini ad oggi. - pag. 34

◦ 2.3 - Come spiegare le grandi differenze riguardo a povertà, ricchezza e cicli di crescita. - pag. 35

◦ 2.4 - Istituzioni economiche estrattive ed inclusive: perché i paesi hanno una diversa capacità di sviluppo economico.-pag 40

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◦ 2.5 - Istituzioni inclusive ed estrattive. - pag. 41

◦ 2.6 - Economie sviluppate ed economie sottosviluppate. La teoria dell’ “economia dualistica”. - pag. 45

◦ 2.7 - La risposta dei paesi alle istituzioni create dalla storia.- pag 46

◦ 2.8 - Il peso della storia. - pag. 48

◦ 2.9 – Altri contributi di Acemoglu e Robinson. - pag 51

 Capitolo III – La ricezione del libro di Acemoglu e Robinso nel mondo e in Italia. Pareri e critiche. - pag. 54

◦ 3.1 – Opinioni riguardo a “Perché le nazioni falliscono” in Italia. - pag. 64

◦ 3.2 – Istituzioni e classe dirigente: la teoria neo-istituzionalista di Acemoglu e Robinson a confronto con i lavori di Emanuele Felice. - pag. 78

◦ 3.3 – Le problematiche relative allo sviluppo del Mezzogiorno. - pag. 86

◦ 3.4 – Le istituzioni estrattive in Italia, la Questione meridionale e la criminalità organizzata. - pag. 90

 Conclusioni – pag. 95

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Introduzione

Questo lavoro si occupa della teoria neo-istituzionalista di due studiosi americani, l’economista Daron Acemoglu e lo scienziato della politica James Robinson, presentata in Why nations fail?, uscito negli Stati Uniti nel 2012 e poi in Italia nel 2013 con il titolo Perché le nazioni

falliscono. Il pensiero di Acemoglu e Robinson, affrontato più in

dettaglio nel secondo capitolo, ha come pilastro le istituzioni, considerate quali causa primaria della prosperità o della povertà di una nazione. Il punto centrale della teoria di Acemoglu e Robinson è che le istituzioni si dividono sostanzialmente in due tipi: quelle “estrattive” e quelle “inclusive”. Le prime tendono a reprimere qualsiasi tipo di libertà e diritto individuale (a partire dai diritti di proprietà), per concentrare il potere nelle mani di una ristretta cerchia di persone che persegue solamente i propri interessi e non certo quelli della collettività. L’affermazione di istituzioni economiche estrattive si riflette nello sviluppo economico di un paese, schiacciandone e limitandone progressivamente la crescita. Al contrario invece le istituzioni inclusive garantiscono alle nazioni uno sviluppo economico solido e duraturo, poiché puntano sulla valorizzazione di diritti individuali, sulla distribuzione di incentivi ai singoli, garantendo una distribuzione più equa e diffusa del potere e contrastando la crescita di ristrette élites che cercherebbero invece di distruggere le istituzioni inclusive trasformandole in istituzioni di tipo estrattivo.

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La teoria dei due studiosi può essere definita “nuova” soltanto in parte. La novità principale consiste nel tentativo di ricondurre una grande quantità di casi singoli ad un’unica causa. D’altra parte, la teoria di Acemoglu e Robinson indubbiamente risente della storia pregressa, senza generare un evidente punto di rottura con le precedenti teorie economiche.

Alcuni presupposti culturali della teoria di Acemoglu e Robinson vengono richiamati nel primo capitolo, dove il concetto di crescita economica viene trattato attraverso alcuni contributi classici, e in particolare “La ricchezza delle nazioni” di Adam Smith e la “Teoria

dello sviluppo economico” di Joseph Schumpeter. Si farà inoltre

riferimento anche ai più recenti contributi di Robert Solow per quanto riguarda la teoria economica della crescita, e al pensiero di Douglass North per quanto riguarda la definizione del concetto di istituzione così come viene impiegato anche da Acemoglu e Robinson.

Nel secondo capitolo vengono riassunti i punti più importanti della teoria dei due studiosi e gli esempi più rilevanti contenuti nel loro libro. Il saggio si caratterizza proprio per la molteplicità di esempi storici e di attualità portati a sostegno della tesi in questione, che forniscono quindi al lettore ampi spunti di riflessione.

Nell’ultimo capitolo invece viene affrontata la ricezione del libro in Italia e nel mondo, vengono analizzati pareri favorevoli e contrari riguardo al pensiero di Acemoglu e Robinson. Si cercherà inoltre di analizzare la situazione italiana in relazione a questa teoria

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neo-istituzionalista, ponendo attenzione al percorso storico Italiano, partendo dall’unità d’Italia e passando per la questione Meridionale, per poi arrivare alla situazione attuale di divario tra Nord e Sud, che coinvolge la popolazione, il ruolo dello Stato e delle istituzioni e che deve considerare anche aspetti ormai radicati all’interno del territorio italiano come la criminalità organizzata, vista come un esempio evidente di istituzione estrattiva nel contesto italiano.

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Capitolo I - Il concetto di crescita in economia.

Il nostro tempo si caratterizza per i grandi divari economici tra popolazioni e paesi, e per la tendenza di questi divari di crescita a diventare sempre più evidenti.

La macroeconomia costituisce lo strumento di studio del fenomeno, partendo dalle misure quantitative del fenomeno fino ad individuare ad individuare i fattori di crescita di un paese, e quindi anche le cause delle disparità tra sistemi economici nazionali.

Il calcolo del Prodotto Interno Lordo (PIL) fornisce un primo aspetto per avere un’idea di questa difformità. A questo dato fondamentale si aggiunge quello relativo alla produttività, intesa come entità di beni e servizi che un lavoratore può produrre con un’ora del suo lavoro. Le notevoli differenze di reddito che sussistono all’interno di ogni nazione costituiscono un notevole limite per l’uso dei valori medi; in particolare il reddito pro-capite è facilmente desumibile dal PIL. Oltre a questo parametro fondamentale, possono essere presi in considerazione anche altri fattori per valutare gli standard di vita di una nazione, come l’Indice di sviluppo umano (Human Development Index) delle Nazioni Unite. Questo indice rappresenta la combinazione tra reddito pro-capite, aspettativa di vita e tassi di scolarizzazione per fornire una misura più completa del tenore di vita.

Anche in una nazione relativamente ricca ci possono essere persone che vivono in una condizione di povertà estrema, ovvero sotto la soglia

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di un dollaro al giorno, misura convenzionale della povertà assoluta introdotta dai ricercatori della Banca Mondiale.

D’altra parte però, questi indicatori medi non sono sufficienti, mentre mostrano un fenomeno rilevante di disuguaglianza tra intere nazioni, sono solo il primo passo verso un’analisi delle cause di questo stesso fenomeno.

Le differenze di produttività e quindi di reddito pro-capite tra un paese ed un altro dipendono in generale da alcune ragioni fondamentali. Prima tra queste la dotazione di capitale umano, che consiste nel bagaglio di competenze utili alla produzione del valore che è a disposizione di ciascun lavoratore, e la dotazione di capitale fisico, ovvero di tutti quei beni, come le macchine (attrezzature) e gli edifici (strutture) che vengono impiegati ai fini produttivi. Il terzo elemento consiste nella tecnologia. Dal momento che un’economia che ha una tecnologia più avanzata impiegherà il lavoro e il capitale (sia umano che fisico) in modo più efficiente, raggiungendo livelli più alti di produttività, la tecnologia è un fattore estremamente importante. Infine, una ulteriore causa di disuguaglianza può esere la maggiore o minore dotazione di risorse naturali, cioè di tutti quei beni, quali materie prime e risorse energetiche, che costituiscono altrettanti input della produzione e che sono forniti dalla natura in misura diversa da paese a paese.

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La produzione di una nazione può quindi essere aumentata se aumentano questi quattro fattori, che insieme danno origine alla funzione aggregata di produzione, identificata appunto nella relazione tra PIL totale di una nazione e i suoi fattori di produzione.

Come accennato sopra, l’elemento di collegamento tra i fattori di produzione ed il PIL all’interno della funzione aggregata di produzione è la tecnologia. Il progresso tecnologico si traduce quindi nella possibilità di ottenere più output da una stessa quantità di tutti gli input. Gli aspetti fondamentali della tecnologia sono la conoscenza e la ricerca, che permettono di produrre nuovi beni e svolgere mansioni nuove, servendosi del sapere scientifico in tutte le fasi di sviluppo, produzione e commercializzazione.

Posto che la disponibilità di capitale (umano e fisico), la disponibilità di risorse naturali, e soprattutto la conoscenza tecnologica ed il suo continuo sviluppo sono i motori della crescita economica, ovvero dell’aumento del PIL pro-capite di un’economia, resta da capire perché tale fenomeno di crescita si è manifestato di più in alcuni paesi e di meno (o per niente) in altri.

Si possono prendere ad esempio la situazione italiana e quella degli Stati Uniti tra il diciannovesimo secolo e l’inizio del nuovo millennio. L’aumento del PIL pro-capite negli Stati Uniti è stato molto marcato nel corso degli ultimi 200 anni, pur con alcune irregolarità nel percorso di crescita. Una delle fluttuazioni più evidenti è relativa alla Grande

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Depressione che si verificò nel 1929, facendo registrare una forte contrazione del PIL pro-capite. Una volta superato questo momento, la crescita degli Stati Uniti si è mantenuta forte e continua.

In Italia invece, tra il 1870 e la Seconda guerra mondiale il processo di crescita è stato molto più lento di quello degli Stati Uniti. Solo durante il Dopoguerra si assiste ad un prodigioso sviluppo che modifica in maniera rilevante il PIL pro-capite.

Quando la crescita economica, misurata come la variazione del PIL nel tempo, avviene ad un tasso di crescita costante per lunghi periodi, si può parlare di crescita sostenuta. La crescita sostenuta è un processo cumulativo, di tipo esponenziale, in cui ogni nuovo incremento proporzionalmente uguale al precedente si basa sugli aumenti precedenti per generare incrementi in termini assoluti sempre più grandi. Questo tipo di crescita è la principale responsabile delle grandi disuguaglianze i termini di reddito pro-capite emerse fino ad oggi. Così, mentre la crescita esponenziale è iniziata negli Stati Uniti già due secoli fa, l’Italia ha dovuto aspettare il secondo dopo-guerra per poter osservare un tipo di crescita sostenuta. Più in generale, le nazioni più ricche sono cresciute con continuità negli ultimi 200 anni, cosa che non è riuscita nelle nazioni più povere.

Questi aspetti sono condivisi da molti economisti, ma sono stati qui riassunti in particolare dalla edizione italiana del manuale di economia di Daron Acemoglu,1 dal momento che il pensiero di questo

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economista, insieme a quello di James A. Robinson, è il punto centrale di questa trattazione.

Nel loro manuale di economia, Acemoglu e i suoi coautori, fanno notare in particolare che né l’accumulazione di capitale (sia umano che fisico) né l’aumento della forza lavoro potranno mai essere sufficienti per alimentare un processo di crescita sostenuta, cioè un tasso di crescita positivo e relativamente stabile per un lungo periodo di tempo, perché tutte queste quantità trovano limiti insuperabili alla crescita. Per cui, se non è possibile garantire un tasso di crescita del PIL pro-capite stabilmente positivo solo grazie ad un aumento della forza lavoro e del capitale, è la tecnologia, ed in particolare il miglioramento delle conoscenze tecnologiche utilizzate dalla produzione, a fornire una spiegazione più plausibile.

Acemoglu, Laibson e List definiscono il cambiamento tecnologico come il processo di invenzione, introduzione ed entrata in uso di nuove tecnologie e prodotti che aumentano il livello del PIL, che può essere ottenuto con una stessa dotazione di capitale fisico ed ha quindi un ruolo indispensabile per determinare la crescita sostenuta.

Quasi mai, nel corso della storia, il progresso tecnologico è stato costantemente presente all’interno di un’economia di un paese. Si può anzi dire che questa è semmai una caratteristica propria solo della storia degli ultimi secoli. E infatti le epoche storiche precedenti il

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1800, si caratterizzano per una sostanziale assenza di crescita sostenuta.

Dall’antichità al rinascimento non mancano esempi di grande sviluppo, miglioramento delle condizioni di vita e di attività economica, che in alcuni casi si sono protratti per secoli, come in Grecia, a Roma o a Venezia. Per quanto lungo sia stato il periodo di splendore, questo però si è concluso prima di produrre differenziali di Pil pro-capite paragonabili a quelli dei nostri giorni. Questo perché nelle epoche passate la crescita sostenuta era un fenomeno molto raro.

Un elemento che può spiegare l’assenza di crescita sostenuta prima dei tempi moderni è proprio la tecnologia. Prima del 1800 infatti il ritmo del cambiamento tecnologico era molto più lento e persino fermo in confronto a ciò che è successo dopo.

Da considerare inoltre è anche il mancato aumento del PIL pro-capite nonostante si verificasse, talvolta, un aumento generale del PIL. Un evidente riflesso di questo fenomeno è il prevalere di un reddito inferiore al livello di sussistenza, e di un andamento demografico riconducibile alla teoria malthusiana della popolazione. Anche se tale livello di sussistenza tende a modificarsi in base alle condizioni ambientali in cui un essere umano può trovarsi, il concetto generale è comune: a prescindere da quale sia il livello esatto, c’è comunque un livello minimo al di sotto del quale la sopravvivenza non è possibile. Quando il reddito cade al di sotto di questa soglia gran parte della

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popolazione morirà di fame. E per secoli, l’umanità ha oscillato attorno a questa soglia.

Il vero inizio della fase di crescita sostenuta è da attribuirsi alla rivoluzione industriale, evento storico che aprì la strada ad un cambiamento tecnologico rapido e continuo. La rivoluzione industriale, a dispetto del nome, fu un processo graduale e non una rottura verificatasi in un breve periodo di tempo. Ebbe origine in Gran Bretagna con l’introduzione di molte nuove macchine e numerosi nuovi metodi di produzione, a partire dalle manifatture tessili per poi estendersi a più settori.

La rivoluzione industriale è un evento importante perché fu il primo caso di utilizzo sistematico di tecnologia e dei metodi scientifici nel processo produttivo e perché fu il punto di partenza dell’industrializzazione degli altri Paesi nel mondo.

Le nuove tecnologie e le nuove conoscenze erano state prodotte prima della rivoluzione industriale, ma la loro sistematica applicazione ai processi produttivi avvenne solo durante, e poi a seguito di questo evento.

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1.2 – Adam Smith e La ricchezza delle nazioni.

In piena rivoluzione industriale, si colloca “La ricchezza delle nazioni” di Adam Smith. Pubblicata a Londra il 9 marzo 1776, l’opera di Smith getta le basi del pensiero economico classico, accompagnando la civiltà occidentale nella nuova era dello sviluppo economico ed evidenziando le cause della crescita economica e del benessere di un paese.

In Smith troviamo per la prima volta una definizione di “ricchezza delle nazioni” in termini di reddito pro-capite, ovvero una identificazione del grado di avanzamento economico di una nazione con il tenore di vita dei suoi cittadini, che per Smith dipende dalla quota di cittadini impiegati in un lavoro produttivo e dalla produttività del lavoro.

Il contributo di Adam Smith sul concetto di produttività si fonda sull’intuizione della divisione del lavoro, come elemento essenziale per determinare il tenore di vita di un paese e la sua tendenza allo sviluppo.

Smith ha il merito di aver analizzato in concreto la divisione del lavoro e di aver osservato da vicino alcuni fenomeni che di certo non erano nuovi all’interno di un sistema economico, ma nessuno gli aveva mai riservato la giusta importanza. Schumpeter dice infatti che la divisione del lavoro non è altro che un “luogo comune della teoria economica”2.

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Per Smith quindi la divisione del lavoro non può che avere un effetto positivo sulla produttività. Tale produttività è correlata allo stadio raggiunto dalla divisione del lavoro, il quale, a sua volta, dipende dall’ampiezza dei mercati.

Il celebre esempio di cui Smith si avvale per spiegare la divisione del lavoro è quello relativo alla fabbrica degli spilli. Un lavoratore che è impiegato nella realizzazione di uno spillo e che quindi deve realizzare da solo ogni parte del bene in questione, è in grado di produrre circa dieci spilli al giorno. Se invece il lavoratore viene inserito nel contesto di una piccola fabbrica di dieci operai e gli viene assegnata la produzione di una specifica parte dello spillo, la sua produttività aumenterà inevitabilmente. Ecco perché la piccola fabbrica sarà in grado di produrre circa 50.000 spilli al giorno.

In sintesi, Smith identifica tre circostanze che legano la produttività alla divisione del lavoro: il miglioramento della capacità del lavoratore – e quindi, in termini moderni, un aumento del capitale umano – quando questo svolge un compito specifico anziché una molteplicità di compiti; il risparmio del tempo che si perde nel passare da un tipo di lavoro all’altro; il progresso tecnico indotto dalla possibilità di concentrare l’attenzione su un compito lavorativo specifico.

Altro elemento è il legame tra la crescita dei mercati e lo sviluppo della divisione del lavoro. Infatti quando un’impresa si espande per realizzare al suo interno una migliore divisione del lavoro, essa dovrà collocare sul mercato un prodotto che è cresciuto sia per l’aumento del

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numero dei lavoratori impiegati sia per l’aumento della loro produttività.

Ciò si collega ad un altro aspetto fondamentale del pensiero smithiano, ovvero il suo liberismo. Ostacolare i commerci, magari permettendoli soltanto ad una ristretta élite protetta dalla legge, significa per Smith ostacolare lo sviluppo della divisione del lavoro e quindi l’aumento della produttività e la crescita del benessere del paese.

Smith infatti muove una forte critica al monopolio, nemico principale del capitalismo concorrenziale. Il monopolio non può che essere dannoso dal momento che altera il rapporto prezzi-quantità, così ciò che e domandato dai consumatori viene ottenuto ad un prezzo decisamente più alto.

Secondo Smith è necessario invece, che in ogni attività produttiva vi sia un certo numero di capitalisti che investono fondi in concorrenza tra loro in modo da non manipolare i prezzi. Solo eliminando le barriere istituzionali dovute a politiche errate, la società civile si avvierà spontaneamente verso un’imprenditorialità diffusa.

Per Smith lo stato deve restare fuori dall’economia e limitarsi a quelle attività di estrema importanza per la società che non possono essere svolte adeguatamente dal settore privato (difesa nazionale, amministrazione, giustizia), perché per lo sviluppo economico sono necessarie tutte quelle condizioni che favoriscono profitti e salari. La visione di Smith, così favorevole alla concorrenza, ricorre tra le pagine del libro di Acemoglu e Robinson, dove il monopolio è un

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evidente esempio di istituzione estrattiva. Il monopolio è sinonimo di restrizione di iniziativa individuale, ed è anche sinonimo di un tipo di istituzione che tende ad arricchire e a rafforzare solo un determinato gruppo di persone. In concreto, si identifica in una singola forza che si contrappone al pluralismo e ad una distribuzione equa e diffusa del potere.

1.3 – Schumpeter e la “Teoria dello sviluppo economico”.

Altro economista successivo a Smith ma che si è occupato ugualmente di studiare le cause di crescita e sviluppo economico di un paese è Joseph Alois Schumpeter, in particolare nella “Teoria dello sviluppo economico”. Nell’opera scritta tra il 1907 e il 1909, pubblicata nel

1912, Schumpeter precisa innanzitutto quali economisti lo hanno ispirato. Primo fra questi Walras, per aver definito un sistema teorico in grado di tener conto dell’interdipendenza tra le quantità economiche, successivamente Marx, per aver esposto una visione dell’evoluzione economica come un processo particolare generato dal sistema economico stesso.

La “Teoria dello sviluppo economico” si caratterizza per due elementi: il flusso circolare e la teoria dello sviluppo. Il flusso circolare corrisponde allo stato stazionario, in cui l’economia si riproduce di

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periodo in periodo senza cambiamenti di struttura. Schumpeter ammette anzi come possibile anche una crescita puramente quantitativa nella quale vengono esclusi per definizione cambiamenti nelle tecniche di produzione e nei gusti dei consumatori.

Lo sviluppo è invece caratterizzato da cambiamenti. Il ruolo di agente attivo del cambiamento è attribuito al produttore, mentre i consumatori seguono passivamente e “se necessario, sono da lui educati”3.

Ricordato che “ogni produzione consiste nel combinare materiali e forze che si trovano alla nostra portata”, Schumpeter avverte che “lo sviluppo nel senso nostro viene (…) definito dall’introduzione di nuove combinazioni”, e cioè dalla “produzione di un nuovo bene”, dalla “introduzione di un nuovo metodo di produzione”, dalla “apertura di un nuovo mercato”, dalla “conquista di una nuova fonte di approvvigionamento di materie prime e di semilavorati”, e dalla “attuazione di una riorganizzazione di una qualsiasi industria come la creazione di un monopolio (…) o la sua distruzione”.

L’introduzione di nuove combinazioni produttive è opera degli imprenditori che sono tali in quanto attuano delle scelte innovative. Gli imprenditori-innovatori di Schumpeter sono gli autori di un cambiamento fondamentale all’interno dell’economia e danno impulso allo sviluppo capitalistico.

Ciò che muove la figura dell’imprenditore potrebbe sembrare la fredda 3Schumpeter J.A., 1912.

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razionalità tipica dell’homo oeconomicus, ma in realtà ci sono motivazioni soggettive che distinguono questa figura tra le altre all’interno del sistema economico. La forza propulsiva dell’imprenditore è la volontà di creare qualcosa di nuovo, la voglia di vincere.

È inevitabile però che l’imprenditore sia affiancato dalle banche che supportano le sue scelte, diventa fondamentale e necessaria la figura del banchiere.

I banchieri devono quindi misurarsi con le sfide e le incertezze proposte dagli imprenditori e devono, con la loro lungimiranza, affiancare le iniziative degli imprenditori. Nel momento in cui i banchieri decidono di finanziare l’innovazione, concedono un prestito, creando così il mezzo di pagamento con il quale gli imprenditori possono presentarsi sul mercato.

Il ciclo economico è quindi in relazione al processo di sviluppo, le cui fasi di espansione si attuano quando grandi gruppi di nuove imprese prendono a modello ciò che ha messo in atto un singolo imprenditore-innovatore, attirate dai profitti da quest’ultimo ottenuti.

Al centro del pensiero di Schumpeter vi è quindi il concetto di “distruzione creatrice”, quel fenomeno per il quale la domanda e il prezzo dei vecchi prodotti vengono spinti verso il basso, per poi dare

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origine al fallimento delle vecchie imprese che producono ancora beni secondo criteri produttivi ormai superati. La concorrenza imposta dalle nuove combinazioni produttive non può che prevalere sul mercato, presentandosi però con una frequenza discontinua. Questo perché l’innovazione, secondo Schumpeter, rompe ogni legame con la tradizione e perciò non può che presentarsi in maniera irregolare nel tempo, altrimenti verrebbe meno lo stesso suo significato, alterare l’ordine delle cose stabilite per fare cose nuove.

La caratteristica fondamentale della teoria del ciclo di Schumpeter è sicuramente la natura endogena, interna quindi al rapporto tra ciclo e sviluppo. Tale teoria si avvicina al pensiero di Marx, che sposta di più l’attenzione sullo scontro tra capitalisti e lavoratori. In ogni caso entrambi sottolineano il cambiamento che deve avvenire alla fine di un ciclo economico, a causa del mutamento tecnologico.

Un’altra analogia tra Marx e Schumpeter è che per entrambi c’è qualcuno che dallo sviluppo ha solo da perdere. Per Schumpeter sono le imprese legate ai vecchi metodi, per Marx “l’esercito industriale di riserva”, cioè la massa dei disoccupati. Quindi è sempre presente qualcuno che ha interesse ad ostacolare il progresso.

Anche Acemoglu e Robinson si servono del concetto di “distruzione creatrice”, per spiegare per quale motivo una nazione può rifiutare istituzioni politiche ed economiche di tipo estrattivo. Le istituzioni

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estrattive temono infatti il progresso tecnologico, contrastano le nuove imprese nascenti sul mercato e non permettono di reperire nuove materie prime.

I due autori fanno riferimento in particolare alla rivoluzione industriale, come avvenimento che dette il via al progresso tecnologico e che migliorò nettamente il benessere della popolazione. La “distruzione creatrice” quindi, necessita, o almeno è favorita da istituzioni politiche ed economiche di tipo inclusivo, cioè tali da favorire l’ingresso di nuove iniziative private, fornendo i necessari incentivi e non contrastando il fisiologico processo di sostituzione dei vecchi metodi di produzione con i nuovi. D’altra parte, è possibile che istituzioni di tipo estrattivo trovino una ragion d’essere negli interessi di coloro che sono colpiti dalla distruzione creatrice.

1.4 – Il modello di Solow e Swan.

Robert Solow e Trevor W. Swan svilupparono indipendentemente, nel 1956, un modello di crescita economica per dimostrare che l’economia capitalistica può crescere in equilibrio di piena occupazione pur in assenza di intervento pubblico. Uno dei maggiori esponenti di questa tradizione era un economista di Oxford, Roy Harrod, che propose il suo modello nel 1939, in piena epoca keynesiana e successivamente alla grande depressione del 1929-32. Egli si preoccupava perciò non

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solo di spiegare perché le economie crescessero a tassi più o meno elevati, ma anche come mai si potessero produrre nei sistemi capitalistici gravi fenomeni di instabilità. La conclusione di Harrod4 è

che la crescita economica capitalistica sia per sua natura instabile e che solo l’intervento pubblico, una politica economica ben amministrata, possa attenuare tale instabilità e garantire nel tempo una crescita equilibrata con piena occupazione e perciò inclusiva, i cui frutti siano cioè goduti da tutta la classe lavoratrice. A tale conclusione Harrod arriva attraverso un modello keynesiano, che distingue le decisioni di risparmiare – decisioni prese dai capitalisti detentori di ricchezza – dalle decisioni di investire. Capitalisti sono tutti coloro che dispongono di una qualche ricchezza (risparmio accumulato nel tempo) e devono decidere come impiegarla (depositi bancari, obbligazioni ed azioni emesse da imprese, titoli di stato, beni immobili, ecc.); imprenditori sono solo coloro che organizzano i fattori della produzione, decidono cosa produrre, quanto produrre e, appunto, quanti e quali nuovi beni capitali acquistare in un certo periodo per realizzare la produzione nei periodi successivi. Naturalmente le figure del capitalista e dell’imprenditore possono anche coincidere in un’unica persona fisica, ma ciò non toglie che la distinzione funzionale fra di esse sia tale da determinare una potenziale differenza fra risparmi decisi dagli uni e investimenti pianificati dagli altri. Si tratta di una distinzione totalmente ignorata sia dagli economisti classici che, come vedremo in 4 Harrod R., 1939.

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questo stesso capitolo, da quelli neoclassici per i quali i risparmi coincidono necessariamente, ex-ante e non soltanto ex-post, con gli investimenti. Detto in altri termini: per classici e neoclassici l’unica buona ragione per risparmiare (per consumare di meno) nel presente consiste nell’acquisto di beni capitali con i quali poter produrre e quindi consumare di più in futuro.

Il modello di Solow e Swan5 non solo abbraccia questo punto di vista

neoclassico ma, nel campo specifico degli studi sulla crescita, ne costituisce certamente il riferimento intellettuale per eccellenza. Di fatto i due autori non distinguono la figura dell’imprenditore da quella del capitalista e assumono che i risparmi vengano automaticamente investiti, destinati all’acquisto di beni capitale. Si tratta di una ipotesi molto forte che, in sé già contiene un risultato altrettanto forte: l’economia cresce sempre in equilibrio macroeconomico (senza bisogno di alcun intervento pubblico, senza dover combattere alcuna instabilità congenita) e quel che resta da dimostrare è che tale equilibrio sia anche di piena occupazione.

Dal punto di vista economico una tecnica produttiva può essere descritta specificando di quanto capitale è dotato ciascun lavoratore all’inizio di ogni periodo, quanto output viene prodotto da ciascun lavoratore alla fine di ogni periodo e quanto capitale si deteriora nel corso del periodo produttivo.

La risposta del modello di Solow, è che le distanze tendono a rimanere 5 Solow R., 1955, Swan T.W., 1956.

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costanti nel lungo periodo. Questo perché il tasso di crescita del prodotto per occupato e quindi - dato il rapporto occupati/popolazione – del prodotto (e del reddito) per abitante dipende nel lungo periodo dal tasso del progresso tecnologico. Quest’ultimo, nel modello di Solow, è considerato esogeno, ossia esterno all’impresa, ed è accessibile a tutte le imprese di tutti i Paesi. Ne consegue che la crescita del prodotto per abitante dei diversi Paesi tende a convergere verso un unico tasso, determinato appunto dal progresso tecnologico. Questa convergenza è definita condizionale o relativa perché riguarda il tasso di crescita, ma non i livelli dei redditi pro-capite. I livelli, infatti, continueranno a differire tra i diversi Paesi poiché dipendono dalla propensione al risparmio, dal tasso di crescita della popolazione e dal grado di efficienza del processo produttivo. In conclusione, la teoria di Solow prevede che nel lungo periodo le distanze tra i livelli dei redditi pro-capite tendano a rimanere costanti, data appunto la convergenza dei tassi di crescita. Questa conclusione non è però in linea con la realtà che mostra come tra i vari Paesi tendano a differire non soltanto i livelli, ma anche i tassi di crescita del prodotto pro-capite. Per spiegare la realtà la teoria economica ha quindi abbandonato l’ipotesi del progresso tecnologico esogeno e l’ha sostituita con quella del progresso endogeno.

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1.5 – Il ruolo delle istituzioni nel processo di crescita di una nazione.

Sempre più spesso la letteratura economica pone al centro del suo studio il ruolo delle istituzioni e del loro riflesso sulla crescita di un paese e sull’efficienza complessiva di un sistema economico.

La definizione di istituzioni più conosciuta, e quella fatta propria anche da Acemoglu e Robinson, è sicuramente quella Douglass North, secondo il quale “le istituzioni sono le regole del gioco di una società”6. In quanto regole del gioco, le istituzioni determinano

l’insieme di incentivi alla base del comportamento e delle scelte degli individui e delle imprese. Possono essere definite come gli enti formalmente costituiti e l’insieme di regole (anche non scritte) capaci di modificare strutturalmente i comportamenti dei singoli individui, delle organizzazioni e, nel medio e lungo periodo, di intere collettività7.

Come afferma ancora North, le istituzioni evolvono dalle convenzioni e dai codici morali, ed esprimono l’influenza e il radicamento di determinati valori in un certo territorio. È necessario poi evidenziare che il cambiamento istituzionale tende ad assumere un carattere prevalentemente evolutivo, perché è legato a lenti processi di aggiustamento di valori, cioè della tradizione culturale (path

dependence). Inoltre, eventuali accelerazioni, legate a fenomeni di

6 North D.C., 1990.

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mobilitazione collettiva in processi di tipo rivoluzionario, possono poi essere anche ridimensionati da questo tessuto culturale diffuso, come osserva ancora North; perché continuano a prevalere, credenze, schemi di comportamento, valori non coerenti con il funzionamento delle nuove istituzioni8.

Il funzionamento di una nazione necessita inevitabilmente dell’azione di istituzioni, quali i diritti di proprietà e il rispetto dei contratti. Un sistema ben definito di diritti di proprietà, un apparato di regolamentazione dei mercati che garantisce la concorrenza, politiche pubbliche che supportano la coesione sociale, istituzioni politiche che riducono il rischio di conflitti sociali e consentono la loro gestione sono tutte istituzioni funzionali alla crescita economica di un paese.

Per quanto riguarda l’origine delle istituzioni, si possono rinvenire tre diversi tipi di teorie. Prima fra tutte la teoria economica, la quale fa riferimento all’efficienza delle istituzioni stesse e al vantaggio che se ne può ricavare dal momento in cui sono state introdotte all’interno di un sistema economico. La teoria politica sostiene l’idea che le istituzioni non siano altro che un mezzo a sostegno di alcuni soggetti e che quindi siano istituite solo per consolidare il loro potere e accumulare risorse. La teoria culturale infine, pone alla base il bagaglio di idee e tradizioni che una società possiede e che quindi influenza e indirizza la società stessa verso la scelta di un tipo di 8 Trigilia C., 2014.

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istituzione piuttosto che un altro.

È necessario ricordare anche che le istituzioni vengono generate da un determinato sistema legale, così da diventare indispensabili per il giusto funzionamento delle economie di mercato. “Le istituzioni diventano quindi fondamentali per garantire il rispetto del diritto di proprietà e dei contratti”9. In questo modo ci può essere la certezza che

gli accordi presi sul mercato verranno rispettati da tutti coloro che vi operano.

Un altro contributo al riguardante le istituzioni e la loro classificazione, viene fornito da Dani Rodrick10, secondo il quale le istituzioni che

agiscono sul campo economico e che permettono il funzionamento del mercato si possono dividere in cinque gruppi. Il primo gruppo riguarda le istituzioni che garantiscono i diritti di proprietà, il secondo gruppo si identifica nelle istituzioni che regolamentano i mercati, il terzo consiste nelle istituzioni che consentono la stabilizzazione macroeconomica, il quarto gruppo contiene istituzioni che provvedono e infine quelle istituzioni puramente politiche che permettono la risoluzione delle controversie all’interno di un paese, come i sistemi di leggi e le corti di giustizia.

Come abbiamo visto all’inizio, i manuali di economia suggeriscono 9 Galasso V., 2009.

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che, nelle economie di mercato, la crescita economica è dovuta all’accumulazione dei fattori di produzione – capitale fisico e umano – all’aumento della forza lavoro e, in misura preponderante, dall’aumento della produttività legato all’utilizzo di tecnologia e processi produttivi più avanzati11.

Questi processi descrivono l’evoluzione delle economie di mercato che possono poggiare il loro funzionamento sull’esistenza di istituzioni, soprattutto non-economiche, che svolgono un ruolo di supporto importante, ma che nell’analisi economica sono spesso date per scontate. D’altra parte, la mancanza di tali istituzioni, o il loro cattivo funzionamento, costituisce un ostacolo agli investimenti, allo sviluppo delle capacità imprenditoriali e all’innovazione: in sintesi, alla crescita economica.

Douglass North sottolinea infatti l’importanza delle istituzioni legali e della burocrazia pubblica come alcune delle cause determinanti della crescita economica. Secondo North, una scarsa affidabilità dei diritti di proprietà sul capitale fisico (impianti, macchinari, fabbriche), sui profitti e sui brevetti riduce gli incentivi e le opportunità ad investire, ad innovare e ad acquisire tecnologia avanzata dagli altri paesi. Analogamente, una burocrazia ingessata e disonesta tende a ritardare la concessione di permessi e brevetti in tal modo frenando il processo di sviluppo e di utilizzo di nuove tecnologie. L’esistenza di una burocrazia estesa e poco mobile è spesso associata con la corruzione. 11 Si veda ad esempio Mankiw N.G., Taylor M.P., 2015.

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Alla luce del pensiero di North e Rodrick, anche altri economisti concordano sul fatto che l’esistenza di diritti di proprietà e di istituzioni legali che li garantiscono siano elementi indispensabili per assicurare la crescita economica di un paese e in particolare una crescita economica sostenuta. Ecco perché lo stato deve impegnarsi nella difesa di questi diritti, per evitare che vi siano abusi da parte di altri soggetti “privati”.

1.6 - Una nuova concezione delle istituzioni: il contributo di Acemoglu e Robinson.

In Perché le nazioni fallisco, Acemoglu e Robinson presentano una teoria che spiega il motivo del successo o del fallimento delle nazioni. Al centro della loro ricerca, come abbiamo detto, le istituzioni politiche ed economiche “estrattive” o “inclusive” e il loro ruolo determinante all’interno di un paese.

La tesi che gli autori intendono portare all’attenzione del lettore, e che verrà affrontata più ampiamente nel prossimo capitolo, è che la capacità di sviluppo economico dei paesi dipende dalle loro istituzioni, dalle regole che operano all’interno del sistema economico e dagli incentivi di cui possono beneficiare i singoli soggetti.

Per quanto riguarda le istituzioni “estrattive”, gli autori intendono tutte quelle istituzioni che mirano allo sfruttamento della popolazione e alla

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creazione di monopoli, in modo da non favorire l’iniziativa economica privata.

Al contrario, per istituzioni “inclusive” si intendono le istituzioni che incoraggiano i singoli, promuovono il progresso, permettono lo sviluppo delle abilità tra la popolazione favorendo così lo sviluppo economico.

Inoltre il quid pluris delle istituzioni inclusive è il rispetto del diritto di proprietà privata; tale diritto può essere garantito soltanto se il paese è organizzato secondo un sistema giuridico imparziale che offre uguali opportunità a tutti i cittadini.

Altro elemento rilevante che porta alla scelta di una istituzione inclusiva o estrattiva è il contesto politico, inteso come l’insieme di regole che definisce chi detiene il potere e in che modo questo può essere distribuito agli altri soggetti.

Quindi le istituzioni economiche estrattive o inclusive non sono altro che il completamento e il riflesso di un sistema politico a sua volta inclusivo o estrattivo, dal momento che, tra istituzioni politiche ed economiche vi è un rapporto di sinergia.

Ecco perché Acemoglu e Robinson sostengono che le istituzioni politiche estrattive concentrano il potere nelle mani di pochi, che si serviranno di conseguenza delle stesse istituzioni economiche estrattive anche per la propria sopravvivenza politica. Di contro, le istituzioni politiche di tipo inclusivo, avendo come propria ragione sociale la distribuzione del potere, tendono a contrastare l’affermarsi di

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istituzioni economiche estrattive.

La teoria di Acemoglu e Robinson risente delle teorie economiche classiche fin ora analizzate, come quella di Smith, Schumpeter e la distruzione creatrice, North e le istituzioni. Di per sé non è una teoria nuova nella sostanza, bensì nella forma e nel metodo. I due autori “innovano” la scienza economica tradizionale, introducendo un linguaggio accessibile, un’ampia ricerca empirica e facendo ampio uso di esempi di storia e attualità.

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Capitolo II - Paesi ricchi e paesi poveri: differenze di reddito e di tenore di vita.

Qual è la causa del successo o del fallimento di una Nazione? Una risposta a questa domanda ci viene fornita dai due studiosi precedentemente citati Daron Acemoglu e James A. Robinson, i cui studi danno un valido contributo alla ricerca in ambito economico. Il tema delle differenze che caratterizzano le varie nazioni è sottolineato sin dalle prime pagine del libro con un confronto tra due città confinanti, o meglio, tra due parti della stessa città: Nogales, Arizona, negli Stati Uniti e Nogales, Sonora, in Messico. I fattori di disuguaglianza vengono evidenziati in base ad indicatori come il reddito familiare, le condizioni di salute, l’istruzione, il tenore di vita e i livelli di sicurezza.

I due autori, partendo dal presupposto che la crescita economica è proporzionale agli incentivi offerti agli imprenditori disposti ad investire nelle aziende da parte delle istituzioni politiche ed economiche, sostengono che il motivo della disparità economica delle due Nogales, al di qua e al di là del confine, debba ricercarsi nel fatto che le istituzioni politiche che governano le due parti del territorio considerate non sono le stesse.

A questo punto viene da chiederci il motivo per cui le istituzioni degli Stati Uniti sono più adatte a promuovere il successo economico rispetto a quelle del Messico e, addirittura, dell’intera America Latina.

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La motivazione di questa diversità deve essere ricercata analizzando alcuni momenti salienti della storia della fondazione delle colonie del Nordamerica e dell’America Latina per individuare il modo in cui le diverse società si sono formate durante il primo periodo coloniale allorché si determinò un processo di divergenza istituzionale le cui conseguenze perdurano ancora oggi.

2.1 - L’importanza delle Costituzioni.

Un ruolo importante nella formazione delle istituzioni di un paese è da attribuire alla storia, ma non solo. Contano infatti anche i risultati che essa ha permesso di raggiungere all’interno della società di un paese. Ovviamente non tutti i paesi sono stati protagonisti degli stessi accadimenti storici. Questo spiega perché gli Stati Uniti, a differenza del Messico, stipularono la convenzione di Philadelphia già nel 1787, che conteneva principi democratici. Certo, non rispecchiava lo standard di democrazia di oggi, ma sicuramente permise agli Stati Uniti di gettare le basi per costruire istituzioni ben più favorevoli allo sviluppo del paese.

Il Messico invece fu scenario di grande instabilità politica, non possedeva istituzioni politiche capaci di frenare chi abusava del potere ottenuto, infatti tale potere sfociava spesso in una dittatura che

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schiacciava i diritti di proprietà dei singoli e non garantiva i servizi pubblici essenziali.

2.2 - I riflessi dell’attività delle istituzioni dalle origini ad oggi.

Questi percorsi storici, secondo gli autori di Perché le nazioni

falliscono, spiegano la ragione per cui Nogales, Arizona, è molto più

prospera di Nogales, Sonora. È la storia delle due città, spiegano Acemoglu e Robinson, ad aver generato le diverse istituzioni operanti su ciascun lato del confine, istituzioni che determinano una struttura di incentivi diversa per i residenti delle due città. Ciascuna società funziona grazie all’insieme di regole create e applicate dallo stato e dai cittadini. Le istituzioni economiche generano incentivi in campo economico, finalizzati all’istruzione, agli investimenti e al progresso tecnologico. È poi il processo politico a definire all’interno di quali istituzioni economiche si svolge la vita dei cittadini e sono le istituzioni politiche a stabilire come funziona questo processo.

Altro importante fattore è il talento individuale, che è importante ad ogni livello sociale ma ha comunque bisogno di una struttura istituzionale che gli permetta di svilupparsi.

Nel corso della loro trattazione, quindi, Acemoglu e Robinson dimostrano come le istituzioni economiche siano determinanti per spiegare la povertà o la prosperità di un paese e come, al contempo, la

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qualità delle istituzioni economiche dipenda dalla politica e dalle istituzioni politiche.

Il confronto tra Messico e Stato Uniti è uno dei tanti esempi usati da Acemoglu e Robinson per illustrare quella che loro definiscono “teoria della disuguaglianza globale”. Questa teoria che costituisce il cardine del loro lavoro di ricerca, stabilisce che le istituzioni politiche e quelle economiche interagiscono generando povertà e prosperità. La storia delle Americhe ha illustrato quali forze diano forma a questo processo nel tempo, e quindi il forte elemento di ‘path-dependency’ che caratterizza la teoria di Acemoglu e Robinson. Le diverse strutture istituzionali di oggi risentono profondamente del passato, a causa dell’inerzia che porta ogni società a preservare le proprie caratteristiche.

Proprio perché il ruolo delle istituzioni diventa determinante per il successo o il fallimento di un paese, è necessario analizzare anche il modo in cui le istituzioni nascono e si trasformano nel tempo, e di come talvolta restino uguali a sé stesse.

2.3 - Come spiegare le grandi differenze riguardo a povertà, ricchezza e cicli di crescita.

Prima di passare ad illustrare la loro teoria, nel capitolo 2 di Perché le

nazioni falliscono, Acemoglu e Robinson discutono alcune “Teorie che

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state avanzate da vari studiosi nel tentativo di spiegare le disuguaglianze a livello globale12.

La prima tra queste è l’ipotesi geografica che spiega il divario tra paesi ricchi e paesi poveri a partire dalla loro diversità in termini geografici. Secondo questa teoria, i paesi più ricchi tendono a trovarsi a latitudini caratterizzate da un clima temperato.

Questo aspetto faceva parte anche del pensiero di Montesquieu che già nel XVIII secolo ipotizzò un collegamento tra geografia, povertà e ricchezza, per cui le popolazioni stanziate in aree tropicali tendevano ad essere più povere. Oggi invece questa teoria è ancora sostenuta ad esempio da Jeffrey Sachs13, il quale sposta però l’attenzione sul fatto

che le aree tropicali sono più soggette a malattie e sulla produttività agricola di questi territori, di solito inferiore rispetto a quella delle aree temperate.

Un’altra autorevole versione dell’ipotesi geografica è stata formulata da Jared Diamond14, ecologo e biologo, il quale sostiene che le

disuguaglianze tra i continenti dipendono dalla diversa distribuzione delle specie animali e vegetali, influendo così sulla produttività agricola.

12Acemoglu D., Robinson J.A., 2013, cap.2.

13 Sachs J.B., 2005.

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Acemoglu e Robinson non concordano né con Sachs né con Diamond per quanto riguarda la teoria della disuguaglianza globale. La spiegazione del divario non può secondo loro essere rintracciata nel clima o nella presenza di malattie, come sostiene in particolare Sachs, o da qualsiasi altro elemento dell’ipotesi geografica. Basti pensare al caso delle due Nogales. Ciò che realmente le separa non è il clima, la geografia o il contesto epidemiologico bensì il confine tra Messico e Stati Uniti. Secondo gli autori è la stessa storia che dimostra una mancanza di relazione diretta e duratura tra clima, geografia e successo economico15.

La critica che i due studiosi muovono verso il pensiero di Diamond, riguarda la mancata analisi delle problematiche interne a ciascuno dei continenti. A Diamond viene contestato il fatto di analizzare il progresso tecnologico solo da un punto di vista molto generalizzato e in riferimento soltanto alla distribuzione delle specie animali e vegetali e inoltre non spiega il divario tecnologico di oggi, a volte il patrimonio zootecnico non è stato un elemento che ha permesso una crescita economica a lungo termine.

15 Gli avvenimenti storici mettono in evidenza che non c’è una relazione biunivoca e definitiva tra geografia, clima e successo economico. Quando Colombo scoprì il Nuovo continente, a cui corrispondono attualmente Messico, America centrale, Bolivia e Perù, si trovò di fronte a popolazioni organizzate politicamente e a territori ricchi di risorse. In questo caso, non si può affermare che le zone tropicali sono sempre più povere di quelle

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Un’altra ipotesi è quella culturale che mette in relazione ricchezza e cultura. Questa teoria è stata formulata dal grande sociologo tedesco Max Weber, per il quale la Riforma e l’etica protestante giocarono un ruolo fondamentale nel favorire l’ascesa delle moderne società industriali dell’Europa occidentale. Oggi l’ipotesi culturale non si fonda più soltanto sulla religione ma considera, più in generale, altri tipi di credenze, valori e modelli etici.

Tale teoria non è totalmente condivisa da Acemoglu e Robinson, i quali ritengono che le norme culturali siano utili, ma non sufficienti, per comprendere lo stato attuale delle disuguaglianze a livello globale. La cultura senza attenzione al percorso istituzionale non può essere l’unico fattore coinvolto nel successo o fallimento di un paese.

Infine una teoria molto diffusa sul perché alcuni paesi siano ricchi e altri poveri è l’ipotesi dell’ignoranza, che applica la celebre definizione di Lionel Robbins per cui l’economia è «La scienza che studia la condotta umana come una relazione tra fini e mezzi scarsi applicabili a usi alternativi.16 Secondo tale teoria, le disuguaglianze globali esistono

perché alcune popolazioni, e soprattutto i loro governanti, ignorando il complesso delle leggi economiche, e quindi i principi in base ai quali le risorse posso essere impiegate in modo economicamente razionale, non sanno come rendere ricco un paese povero.

16 Robbins L., 1953. “Partendo da questa definizione, il passo verso la conclusione che la scienza economica dovrebbe concentrarsi sull’uso efficiente di risorse scarse per soddisfare gli obiettivi della società, è breve” (Acemoglu D., Robinson J.A., 2013, p. 74).

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L’ipotesi dell’ignoranza sostiene che i paesi poveri siano tali perché sperimentano numerosi fallimenti del mercato, e perché gli economisti e i politici che li guidano non hanno idea di come eliminarli. I paesi ricchi, invece, sono tali perché hanno saputo elaborare politiche migliori e porre rimedio a questi fallimenti.

Anche tale ipotesi può spiegare al più in maniera solo parziale il motivo della disuguaglianza globale. Secondo Acemoglu e Robinson, per quanto continui ad essere diffusa tra la maggioranza degli economisti e tra le classi dirigenti occidentali, l’ipotesi dell’ignoranza non riesce da sola a dare una spiegazione esauriente dei motivi del divario tra le nazioni ricche e povere. Essa non spiegherebbe né le origini della ricchezza nel mondo né la geografia della disuguaglianza. La tesi degli autori si sintetizza nel fatto che il raggiungimento della prosperità dipende dalla soluzione di alcuni fondamentali problemi politici. Secondo Acemoglu e Robinson per spiegare queste differenze sono sempre necessari degli studi economici, ma questi devono applicarsi a come le diverse politiche e organizzazioni sociali condizionino gli incentivi e il comportamento economico, cosa che, tra l’altro, spiega il motivo di una collaborazione tra un economista e uno scienziato della politica.

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2.4 - Istituzioni economiche estrattive ed inclusive: perché i paesi hanno una diversa capacità di sviluppo economico.

Un esempio “visivo” e concreto di ciò che Acemoglu e Robinson hanno in mente viene fornito dall’attuale situazione della Corea, un unico territorio ma diviso in due parti nettamente differenti.

La cartina illustra in modo emblematico il divario economico tra le due Coree, mostrando i dati sull’intensità delle luci artificiali ricavati dalle immagini satellitari notturne. La Corea del Nord è quasi del tutto buia a causa della mancanza di elettricità, a differenza della Corea del Sud che è colma di luci.

Tali evidenti differenze si sono venute a creare dopo la fine della Seconda guerra mondiale, perché i governi del Nord e del Sud scelsero strade molto diverse per l’organizzazione delle loro economie, soprattutto in relazione alla concezione della proprietà privata. Infatti

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solo nel Sud della Corea, si sviluppò un modello istituzionale volto al riconoscimento della proprietà privata. Secondo Acemoglu e Robinson non è un caso che i percorsi economici delle due Coree siano stati completamente diversi. L’economia pianificata del Nord si rivelò presto un fallimento.

Al Nord infatti non era previsto alcun diritto che garantisse la proprietà privata, non ci fu nessuna evoluzione che avesse coinvolto le istituzioni politiche ed economiche per favorire poi un’economia di mercato. Al contrario, in Corea del Sud le istituzioni si consolidarono verso un orientamento di tipo inclusivo, sostenendo gli investimenti, promuovendo l’istruzione ed i commerci.

La divergenza tra Corea del Nord e Corea del Sud non ha potuto che ampliarsi nel tempo, fino a raggiungere il suo picco massimo alla fine degli anni novanta. Secondo gli autori, questa situazione all’interno di una stessa nazione è la prova che certe teorie come quella geografica, culturale o dell’ignoranza non possono arrivare a giustificare discrepanze così marcate all’interno di uno stesso paese. Diventa quindi inevitabile considerare il ruolo e l’evoluzione delle istituzioni.

2.5 - Istituzioni inclusive ed estrattive.

Arrivati a questo punto della trattazione, occorre approfondire la differenza che intercorre tra istituzioni economiche inclusive ed estrattive.

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Le istituzioni economiche inclusive come quelle della Corea del Sud o negli Stati Uniti, permettono alle persone di valorizzare le loro attività economiche, e di seguire un percorso in linea con i loro obiettivi. Per essere definite inclusive, le istituzioni economiche devono garantire innanzitutto il diritto alla proprietà privata, garantendo il funzionamento di un sistema giuridico imparziale ed un accesso equo al sistema dei contratti. Le istituzioni economiche inclusive favoriscono la crescita della produttività e la prosperità materiale prima di tutto attraverso la garanzia dei diritti di proprietà e dei contratti, che sono gli elementi essenziali di qualsiasi sistema di incentivi che sia capace di promuovere l’iniziativa economica privata.

La garanzia dei diritti quindi può essere definita come una spinta propulsiva dei privati a lavorare, a investire e ad innovare, perché in tal modo si sentono protetti e liberi di agire sul mercato, dal momento che non vi saranno abusi nei loro confronti e non verranno meno i loro meriti e guadagni. Quindi coloro che si trovano all’interno di un paese con istituzioni politiche ed economiche godranno di diritti “diffusi”, distribuiti uniformemente dallo stato, garante della legge e dell’ordine pubblico.

Tali istituzioni però non nascono dal nulla. Alla base della nascita di un tipo di istituzione rispetto ad un altro vi è la politica, e più in particolare il processo che porta le società a scegliere le proprie modalità di governo.

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Tale percorso politico sfocia in istituzioni politiche di tipo inclusivo che a loro volta genereranno istituzioni economiche di tipo inclusivo, utili per garantire mercati di tipo inclusivo.

Queste istituzioni inclusive però devono misurarsi con istituzioni estrattive, che hanno caratteristiche decisamente opposte e tendono a sostituirsi appunto alle istituzioni inclusive. Sono le istituzioni estrattive secondo Acemoglu e Robinson, ad essere la vera causa del fallimento delle nazioni:

“Le nazioni falliscono quando hanno istituzioni economiche estrattive sostenute da istituzioni politiche dello stesso genere, che ne intralciano la crescita economica o la impediscono del tutto”17

La caratteristica principale delle istituzioni politiche estrattive è la concentrazione del potere nelle mani di un ristretto gruppo di persone, che tende sempre di più a limitare il potere dei singoli, con l’obiettivo di privarli di qualsiasi diritto, soprattutto quello relativo alla proprietà privata. L’eliminazione, o quanto meno la forte limitazione della proprietà privata, non fa altro che rafforzare l’egemonia delle élites che sono a capo della vita politica del paese.

Di conseguenza, istituzioni politiche estrattive non possono che dar vita a istituzioni economiche estrattive, che avranno come obiettivo

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primario il controllo dei settori produttivi e delle risorse a questi destinate.

Lo sviluppo economico quindi sarà fortemente limitato, dal momento che non saranno concessi incentivi ai singoli per il progresso tecnologico. È proprio il progresso tecnologico che “terrorizza” le istituzioni economiche estrattive, che invece sono ancorate a vecchie tecnologie e non tollerano il processo di distruzione creatrice, elaborato da Schumpeter e condiviso anche dagli autori come elemento necessario ed essenziale per lo sviluppo economico.

Inoltre, ed è questa una tesi molto forte sostenuta da Acemoglu e Robinson, anche se tali istituzioni economiche portassero ad uno sviluppo economico, questo non potrà che essere temporaneo, perché troverà inevitabilmente un limite. Soltanto il processo di distruzione creatrice, è infatti capace di generare uno sviluppo solido e duraturo, e quindi il tipo di crescita sostenuta di cui si è parlato nel capitolo precedente. Un’altra tesi sostenuta da Acemoglue Robinson, oltre all’idea per cui il limite allo sviluppo non può che essere ricercata all’interno delle istituzioni stesse, è che le lotte interne tra coloro che detengono il potere porteranno molto probabilmente alla rottura dei fragili equilibri caratteristici di questi assetti istituzionali.

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2.6 - Economie sviluppate ed economie sottosviluppate. La teoria dell’ “economia dualistica”.

Alla luce degli eventi storici, è da considerare il paradigma dell’«economia dualistica», proposto per la prima volta nel 1955 da Sir Arthur Lewis e che influenza ancora oggi molti degli scienziati sociali in riferimento ai problemi economici di paesi più arretrati. Secondo Lewis, molte economie meno sviluppate o sottosviluppate hanno una struttura dualistica, in quanto sono caratterizzate dalla coesistenza di un settore moderno e accanto a uno tradizionale. Il settore moderno corrisponde alla parte più sviluppata dell’economia, mentre il settore tradizionale è associato alla vita rurale, all’agricoltura e ad istituzioni e tecnologie «arretrate». Tra le istituzioni agricole arretrate c’è la proprietà collettiva della terra che implica l’assenza dei diritti di proprietà privata. Nel settore tradizionale il lavoro è organizzato in modo così inefficiente, secondo Lewis, da rendere impossibile un suo ricollocamento nel settore moderno senza ridurre la capacità di produrre beni in quello rurale. Per molti di economisti dello sviluppo che hanno condotto i loro studi partendo dalle intuizioni di Lewis, il «problema dello sviluppo» si è concretizzato con il trasferimento di persone e risorse dal settore tradizionale, l’agricoltura e le campagne, al settore moderno.

Tutt’ora l’economia dualistica individuata da Lewis è presente in Sudafrica ed è un altro esempio di sottosviluppo creato, non di

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sottosviluppo emerso spontaneamente e destinato a durare per secoli. Secondo Acemoglu e Robinson,

“In questa visione c’è del vero, ma essa non coglie appieno la logica di come l’economia dualistica abbia preso forma, né il suo rapporto con l’economia moderna”18.

2.7 - La risposta dei paesi alle istituzioni create dalla storia.

Le istituzioni politiche ed economiche inclusive sono spesso l’esito di un conflitto tra una élite, che contrasta la crescita economica e il cambiamento politico, e coloro che desiderano contenere il potere economico e politico di tale élite in modo da porre in essere una società più inclusiva. Le istituzioni politiche ed economiche inclusive, d’altra parte, tendono a dare origine ad un circolo virtuoso, un “meccanismo positivo” grazie al quale esse possono affermarsi ed espandersi. Questo meccanismo tipico del circolo virtuoso, inoltre, tende a contrastare chiunque voglia ad impadronirsi del potere, per distruggere l’assetto pluralista della nazione. Un’eccessiva concentrazione di potere nelle mani di un individuo o di un gruppo ristretto mina alle fondamenta le istituzioni politiche pluraliste, e la vera misura del pluralismo e della sua forza è proprio la sua capacità di resistere ai tentativi di distruzione.

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Al circolo virtuoso tipico delle società aperte (inclusive) si contrappone quello vizioso dei sistemi estrattivi, le cui ragioni sono semplici. Le istituzioni politiche estrattive conducono ad istituzioni economiche estrattive, che arricchiscono poche persone a spese della maggioranza. Quindi, le istituzioni economiche estrattive creano anche il contesto necessario affinché le istituzioni politiche estrattive possano persistere. Nei regimi politici estrattivi il potere è particolarmente redditizio per chi lo esercita, in quanto non subisce controlli e frutta ricchezze economiche. Le istituzioni politiche puramente estrattive, infatti, non prevedono alcun meccanismo di controllo sugli abusi di potere.

Secondo Acemoglu e Robinson, che il potere genericamente inteso corrompa chi lo detiene può essere oggetto di dibattito, ma che il potere assoluto corrompa è un dato certo. In un contesto di istituzioni politiche estrattive, ci sono scarsissimi controlli sull’esercizio del potere, indipendentemente da quanto distorto e antisociale esso possa diventare. Le istituzioni politiche estrattive tendono dunque a creare un circolo vizioso, perché tutelano chi vuole impadronirsi sempre più dei poteri dello Stato e farne un pessimo uso.

È da considerare anche l’aspetto peggiore del circolo vizioso: quando le istituzioni estrattive generano disuguaglianze in una società, conferendo grandi ricchezze ad un gruppo ristretto, si creerà una forte concorrenza per assumere il controllo dello stato e delle istituzioni allo

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scopo di impadronirsi dei privilegi che solo tale controllo può garantire. Così le istituzioni estrattive non si limitano ad aprire le porte al regime successivo che sarà ancora più estrattivo, ma generano continue lotte interne e guerre civili le quali, a loro volta, provocano nuove, maggiori sofferenze e distruggono, perfino, la già scarsa centralizzazione statale raggiunta.

2.8 - Il peso della storia.

La causa dell’attuale fallimento di alcune nazioni trova spiegazione nel fatto che le loro istituzioni economiche estrattive non predispongono gli incentivi di cui la popolazione ha bisogno per risparmiare, investire e innovare. Le istituzioni politiche estrattive supportano tali istituzioni economiche rafforzando il potere di chi si avvantaggia dell’estrazione. In questo modo, secondo Acemoglu e Robinson, anche se i dettagli variano secondo le circostanze, le istituzioni politiche ed economiche estrattive sono sempre alla base del fallimento delle nazioni. Le nazioni falliscono economicamente a causa delle istituzioni estrattive perché esse fanno rimanere tali i paesi poveri, impedendo loro di intraprendere la strada della crescita economica. E la soluzione al fallimento economico e politico delle nazioni è trasformare le loro istituzioni estrattive nella direzione di una maggiore inclusione.

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Tale soluzione però non può prescindere dalla storia. I fattori storici infatti sono un elemento in più che aiuta a capire il perché del fallimento di una nazione e il perché di un successo.

Sicuramente trovare una spiegazione riguardo al fallimento di una nazione è un procedimento complicato e ancora più difficile è comprendere le origini delle diverse traiettorie economiche e politiche di centinaia di entità politiche nel mondo.

Gli autori propongono quindi una teoria semplice, per spiegare i principali profili dello sviluppo economico e politico in varie aree del mondo. Il loro pensiero non si basa comunque sulla convinzione che una simile ipotesi sia in grado di interpretare ogni cosa, ma sull’idea che una teoria efficace non soltanto riproduce fedelmente i dettagli ma fornisce anche una spiegazione utile ed empiricamente fondata riguardo ad un insieme di processi, evidenziando, al tempo stesso, quali siano i principali meccanismi in azione.

La teoria di Acemoglu e Robinson cerca di fornire una spiegazione empiricamente fondata attraverso la distinzione fra istituzioni economiche e politiche estrattive e inclusive. Essi considerano indispensabile individuare i motivi per cui istituzioni inclusive sono emerse in alcune parti del mondo e non in altre. Mentre il primo livello attiene ad un’interpretazione istituzionale della storia, il secondo concerne il modo in cui la storia ha orientato le traiettorie istituzionali

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delle nazioni. È quindi utile un’interpretazione istituzionale della storia e lo studio del modo in cui la storia ha orientato i percorsi istituzionali. Questo concetto è confermato dal fatto che oggi alcune nazioni hanno istituzioni inclusive perché, sebbene nella storia le istituzioni estrattive abbiano rappresentato la norma, certe società sono riuscite ad uscire dalla trappola in cui erano venute a trovarsi e ad intraprendere una transizione verso istituzioni inclusive. La spiegazione di tali transizioni, quindi, è storica ma non storicamente predeterminata. In altre parole, la storia costituisce un vincolo di cui tenere conto, ma non un ostacolo insuperabile al cambiamento. I grandi cambiamenti istituzionali che sono il requisito per i grandi cambiamenti economici, sono l’esito dell’interazione fra istituzioni esistenti e congiunture critiche. Le congiunture critiche sono eventi importanti che modificano l’equilibrio politico ed economico esistente in una o più società.

Gli autori americani volendo individuare il motivo per cui il percorso delle trasformazioni istituzionali differisce di società in società, pongono la loro attenzione sul processo di divergenza istituzionale. I conflitti su reddito e potere e, indirettamente, sulle istituzioni, sono tipici di ogni società. Anche se le condizioni in cui essi si verificano non sono uguali per tutti i contendenti, spesso questi conflitti hanno un esito contingente, esito che porta alla divergenza istituzionale.

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