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Il condono e l’amnistia non furono gli unici strumenti a invalidare l’opera delle Cas. Il decreto sanzionatorio 27 luglio 1944 n. 142 prevedeva la possibilità per l’imputato di impugnare la sentenza emanata dalla Corte d’Assise Straordinaria che lo aveva giudicato e di presentare ricorso in Cassazione entro tre giorni, o dieci se la condanna era alla pena capitale, dalla deposizione della sentenza.

Cinquecentosessantuno imputati, pari a circa il 45% del totale degli individui giudicati a Milano, sfruttarono tale possibilità.

Ci furono ricorsi presentati da imputati che avevano ottenuto in prima istanza l’amnistia, motivati dal fatto che la Cas, oltre ad aver concesso l’amnistia per il reato di collaborazionismo, li aveva tuttavia giudicati colpevoli di altri reati, come l’estorsione o la rapina a mano armata, infliggendogli la confisca dei beni, che i ricorrenti chiedevano, appunto, di annullare o ridurre. Altri imputati, invece, presentarono ricorso alla Suprema Corte nonostante l’assoluzione pronunciata in loro favore dalla Cas, spinti dall’esigenza di modificare l’ottenuta assoluzione con formula dubitativa (per insufficienza di prove) in un’assoluzione con formula piena (per non aver commesso il fatto).

Come è facilmente intuibile, però, la maggior parte dei ricorsi fu presentata da coloro che avevano ricevuto una sentenza di condanna.

Come si è detto nel paragrafo precedente, molti dei ricorsi presentati sfociarono nell’applicazione dell’amnistia.

Dei rimanenti, la Corte di Cassazione ne rigettò circa il 20% (di cui però la quasi totalità – 92% – ottenne una riduzione della pena grazie al condono). Circa il 30% dei ricorsi presentati dagli

87% 11%

2%

Ricorsi presentati in Cassazione

Ricorsi presentatai dagli imputati condannati Ricorsi presentati dagli imputati assolti Ricorsi presentati dagli imputati amnistiati

25%

32% 43%

Esito dei ricorsi presentati dagli imputati condannati

Ricorsi rigettati

Ricorsi accolti (sentenze annullate per motivi diversi dall'applicazione dell'amnistia) Ricorsi sfociati nell'applicazione dell'amnistia

146 imputati condannati fu, invece, accolto dalla Suprema Corte, che annullò la sentenza impugnata per motivi di diritto che approfondiremo a breve.

Per circa un terzo di tali ricorsi accolti (31%), l’annullamento avvenne senza rinvio e a ciò conseguì l’immediata scarcerazione dell’imputato.

Nei restanti due terzi (69%), la sentenza fu, invece, rinviata per un nuovo esame ad un sede di Corte d’Assise Straordinaria operante in altra città, privilegiando Pavia, Como e Firenze.

L’esito del riesame non fu poi comunicato alla sede milanese e al momento resta perciò ignoto. In alcuni casi fu la Cas di Milano ad essere designata dalla Cassazione come sede di riesame delle sentenze emesse da altre Cas. I dati relativi a tali processi riassunti in tabella mostrano che l’esito del processo di rinvio fu sempre meno severo rispetto al primo. Ciò fa ragionevolmente supporre che anche le corti chiamate a riesaminare le sentenze emesse dalla Cas di Milano annullate dalla Cassazione tendessero ad esprimersi per una condanna più indulgente.

Imputato Capo di imputazione Sede e data del primo processo Esito del primo process o Data annullament o da parte della Cassazione Sede e data del processo di rinvio Esito del giudizio di rinvio REBOLIN O ENRICO Rastrellamenti , arresti, sevizie e ordini di fucilazione contro partigiani e PAVIA, 30.08.1945 MORTE 26.09.1945 MILANO, 22.03.194 6 20 ANNI BERETTA PIER GIOVANN I Arresti, sevizie e perquisizioni contro partigiani NOVARA, 26.09.1945 28 ANNI 06.09.1946 MILANO, 21.12.194 6 4 ANNI CRESPI CARLO Delazioni VARESE, 03.08.1945 15 ANNI 16.07.1946 MILANO, 08.01.194 7 1 ANNO E 8 MESI BREMATI MARIA Delazioni COMO, 14.02.1946 8 ANNI E 4 MESI 25.10.1946 MILANO, 06.02.194 7 6 ANNI E 8 MESI ROCCO GIUSEPPE Rastrellamenti contro partigiani e rappresaglia contro civili SONDRIO , 30.07.1945 20 ANNI 17.07.1946 MILANO, 13.02.194 7 AMNISTIAT O 31% 69%

Esito dei ricorsi accolti presentati dagli imputati condannati

Annullamenti senza rinvio

Annullamenti con rinvio

147 Esaminiamo ora più nello specifico il comportamento della Suprema Corte521 di fronte alle richieste di annullamento ricevute.

Molti dei condannati dalla Cas di Milano che impugnarono la sentenza davanti alla Cassazione addussero come motivo del ricorso l’errata interpretazione da parte del tribunale milanese dell’elemento materiale del reato, ovvero la sussistenza di fatti ben determinati che realmente fossero stati efficaci ed utili per gli scopi dei tedeschi, e del dolo specifico, ovvero la comprovata volontà di agire per recare vantaggio al nemico. Come si vedrà più avanti, la Cassazione faticò a trovare un criterio unanime da adottare nei processi di rinvio relativi a tali motivazioni.

Gli altri motivi più assiduamente addotti per il ricorso in Cassazione furono l’infondatezza delle prove su cui si era basato il giudizio, la non colpevolezza per aver agito per obbedienza ad ordini superiori, l’errata scelta degli articoli in base ai quali stabilire la punizione, la mancata concessione delle circostanze attenuanti e dunque l’errata misura della pena inflitta. Dall’analisi dei dibattimenti svoltisi davanti alla Cassazione relativi a tali ricorsi si è notata la propensione della Suprema Corte a respingere costantemente alcuni motivi e ad accogliere invece quasi sempre gli stessi.

5.2/1 Motivi generalmente respinti

Perché il reato di collaborazionismo risultasse provato, occorreva dimostrare la sussistenza dell’elemento soggettivo, ovvero la libera volontà di commettere le azioni. Ciò fornì lo spunto a molti condannati per impugnare la sentenza davanti alla Cassazione, alla quale chiesero l’annullamento della sentenza in considerazione del fatto che essi erano stati costretti ad agire per aver ricevuto ordini superiori.

Tale principio venne, però, nella maggior parte dei casi rigettato.

Un primo argomento a sostegno del rigetto era l’illegittimità dell’autorità superiore da cui proveniva l’ordine.

Tale modus operandi era coerente al fondamento giuridico di tutto il sistema sanzionatorio che, in effetti, presupponeva l’assunto che il regime fascista, e ancor più la Rsi, erano state forme

521

Si fa qui riferimento esclusivamente alla sede romana del collegio poiché nelle fonti esaminate non vi è alcuna sentenza né fascicolo relativo a procedimenti di ricorso avvenuti davanti alla sede milanese della Cassazione. Tale documentazione è probabilmente contenuta nel fondo “Corte Suprema di Cassazione/Sezione speciale di Milano per i reati politici (giu-set 1945)” dell’Archivio Centrale dello Stato che, per ragioni di tempo, non si è potuto consultare. CIRCOSTANZE ATTENUANTI/MISURA DELLA PENA INFONDATEZZA DELLE PROVE

ORDINI SUPERIORI SCELTA DEGLI ARTICOLI

ACCOLTI RESPINTI

148 statali impostesi “de facto” e perciò illegittime. Da qui discendeva la conclusione che chi si era adeguato alle sue disposizioni non aveva agito in modo legittimo e perciò era passibile di punizione.

Dall’esame di alcuni processi di rinvio si evince che la Cassazione validò l’argomento già sostenuto dalla Cas secondo cui un individuo che avesse ricevuto ordini da un’autorità non legittima era tenuto a disobbedirvi perché in quel caso anche gli ordini erano da considerarsi illegittimi.

Fu il caso del brigadiere della Gnr Angelo Ercolani, ricorso in Cassazione dopo che la Cas lo aveva condannato a vent’anni di reclusione per aver partecipato ad un’azione di repressione contro operai scioperanti, durante la quale egli stesso ne aveva uccisi due522.

Invano egli si appellò all’assunto della sua impossibilità a disobbedire ad ordini superiori: la Cassazione affermò che

Essendo notorio a tutti l’illegittimità del governo della Repubblica di Salò insorta contro il governo legittimo del paese, è ovvio che la nostra legislazione consentiva all’Ercolani di sindacare la illegittimità dei provvedimenti e degli ordini delle autorità promanati da quel pseudo governo alle cui dipendenze egli non aveva esitato di porsi sconsideratamente e illecitamente.

L’assunto fu ribadito nella sentenza relativa al processo di rinvio richiesto da Francesco Fuscà, ex-capo dell'ufficio stampa della Prefettura di Milano ed ex-direttore dell'ufficio collegamento fra le varie sedi del Ministero della cultura popolare condannato a dodici anni dalla Cas523. Qui la Corte Suprema ribadì che

L’ordine del superiore non vale a discriminare i fatti commessi dal Fuscà, secondo quanto ha costantemente insegnato in materia questa Corte Suprema, trattandosi di ordine proveniente da autorità illegittima.

Il problema della colpevolezza o meno di chi aveva agito per conto delle autorità fasciste era, in realtà, più complesso di quanto il ragionamento sottostante la stesura dei decreti punitivi lasciava intendere. Molti giuristi dissentirono dalla presupposta illiceità del regime e della Rsi e confutarono l’idea che il governo di Mussolini avesse coinciso con una “permanente condizione di illegalità”524

.

E tuttavia, come si è visto, la tendenza degli organismi penali disposti per giudicare il reato di collaborazionismo fu quella di non scagionare gli imputati che avevano agito in risposta ad ordini superiori.

Per avvalorarne la colpevolezza, le Corti si appoggiarono al fatto che nella maggior parte dei casi gli ordini da eseguire intimavano di commettere azioni criminose, come arresti, violenze o esecuzioni. Ci furono sì casi in cui la Cas dichiarò non colpevoli individui che avevano obbedito alle istruzioni del governo della Rsi – dunque un’autorità ritenuta illegittima – se l’ordine riguardava una semplice attività amministrativa525. A questo riguardo la giurisprudenza della Cas e della Cassazione sostenne la non insindacabilità dell’ordine impartito.

Ne è un esempio la risposta al ricorso dell’agente del corpo di polizia Caruso Nino Padovani, condannato dalla Cas a diciotto anni per aver partecipato al plotone di esecuzione del partigiano Bruno Bianchi. Egli sostenne davanti alla Cassazione di “non aver potuto sindacare la legittimità dell’ordine datogli dal superiore”526

ma la Corte romana rispose citando la disposizione contenuta nel Codice penale militare di guerra, cui i decreti sanzionatori per il reato di collaborazionismo facevano riferimento, secondo cui

522 ASM, Cas Milano, 27.02.1947, Sez. quinta, Pres. Marano, vol. 9/1947. 523

ASM, Cas Milano, 27.10.1945, Sez. Terza, Pres. Camino, vol. 3/1945.

524 Salvatore Lener, “Diritto e politica nelle sanzioni contro il fascismo e nell’epurazione dell’amministrazione”, in

La Civiltà Cattolica, cit.

525 Cfr. cap. 3 pp. 29-31. 526

149

risponde del fatto anche il militare che ha eseguito l’ordine quando l’esecuzione di questo costituisce manifestamente reato.

Nel caso in esame, continuò, il fatto commesso dall’imputato, cioè l’esecuzione di un individuo, era da considerare alla stregua di un omicidio e perciò costituiva reato. Dunque il Padovani era chiamato a risponderne e a nulla valse la richiesta di annullamento.

La stessa motivazione fondò il rigetto del ricorso proposto dall’ufficiale della Milizia Postelegrafonica Giovanni Negri. Egli era stato ritenuto responsabile dalla Cas di aver “fatto parte come maggiore della Milizia postelegrafonica dell'Ispettorato di polizia dei postelegrafonici; perseguitato con particolare zelo, così da meritarsi un elogio dal Generale Ispettore, i postelegrafonici antifascisti; denunciato in Genova al Tribunale speciale fascista otto funzionari, uno dei quali deportato in campo di concentramento e provocato in Milano l'arresto di nove imputati postali”. Per questo era stato condannato a diciotto anni di reclusione527

.

Nei suoi confronti la Cassazione confermò la linea adottata dalla Cas secondo cui la persecuzione e la delazione di antifascisti costituivano reato e perciò chi ne aveva avuto la responsabilità materiale era da considerarsi colpevole allo stesso modo di chi aveva dato l’ordine.

La Cassazione rigettò anche la richiesta di annullamento fondata sull’obbedienza ad ordini superiori da parte del direttore dell’Ufficio di collocamento provinciale Bruno Marmini, condannato il 13 settembre 1945 dalla Cas milanese per aver segnalato alcuni nominativi di operai da inviare al lavoro obbligatorio in Germania528. La Corte romana non accolse la tesi secondo cui il ricorrente andava discolpato perché aveva agito obbedendo ad ordini superiori

giacché trattavasi di ordini criminosi e il destinatario non solo non era tenuto a prestarvi obbedienza, ma doveva rifiutare tale obbedienza529.

Tale orientamento era stato sostenuto anche dall’Alta Corte di giustizia, che durante il processo contro Caruso e Occhetto aveva affermato:

In diritto non meno che nell’etica è certo che il dovere della subordinazione e dell’obbedienza gerarchica cessa di fronte alla palese immoralità o delittuosità dell’ordine impartito. Questo principio di ragione e di civiltà, già proclamato dalla Corte suprema di cassazione è stato ritenuto anche dal Tribunale supremo militare.

L’obbligo dell’obbedienza dell’inferiore al suo superiore, in sostanza, non postulava un’obbedienza cieca ed assoluta fino al punto che l’inferiore aveva il dovere di eseguire incondizionatamente l’ordine di commettere un reato. Perciò, sostenne l’Alta Corte, coloro che commisero azioni criminose in risposta ad ordini superiori scelsero di obbedire e

cosciente e volontaria fu la loro partecipazione ai gravi delitti commessi, mediante i quali essi comprendevano pienamente quale aiuto ed assistenza arrecassero al nemico invasore in pregiudizio e a danno della nazione530.

Ci fu dunque un sostanziale accordo tra i collegi giudicanti operanti nella Cas e i magistrati della Suprema Corte di Cassazione nel rifiutare l’argomentazione difensiva dell’obbedienza agli ordini superiori. La responsabilità degli imputati sottostanti ad ordini superiori non venne negata sia perché l’autorità da cui provenivano gli ordini non venne considerata legittima sia, soprattutto, perché tali ordini erano di per se stessi immorali e criminosi.

527

ASM, Cas Milano, 04.10.1945, Sez. Terza, Pres. Camino, vol. 3/1945.

528 “Ha esplicato un’attività generica di carattere impiegatizio eseguendo ordini superiori”. ASM, Cas Milano, 13.09.1945, Sez. Terza, Pres. Camino, vol. 2/1945.

529 Ivi. 530

150 L’altro motivo tendenzialmente respinto dalla Suprema Corte fu l’errata scelta degli articoli previsti dai decreti sanzionatori per la determinazione della pena.

A presentare in Cassazione questa motivazione furono, nella maggior parte dei casi, quegli imputati che la Cas aveva condannato ai sensi dell’art. 51 del Codice penale militare di guerra (collaborazione militare), dal quale era prevista la pena di morte.

Nei procedimenti che si svolgevano davanti alla Cas, l’articolo 51 cpmg veniva solitamente richiesto dall’accusa quando il reato era stato integrato con fatti di agevolazione delle operazioni belliche del nemico, concretizzatisi nella maggior parte dei casi in azioni repressive del movimento partigiano. Come si è visto nel terzo capitolo, la Corte d’Assise Straordinaria di Milano non l’aveva però applicato spesso. In moltissimi casi il collegio giudicante aveva deciso di modificare la rubrica e ascrivere il reato sotto la categoria di collaborazionismo politico, esimendosi, così, di dover condannare alla pena capitale.

Tale operazione era stata supportata da molteplici argomentazioni, spesso discutibili: se gli scontri erano avvenuti lontano dalla linea del fronte, se l’eliminazione dei partigiani poteva essere considerata “un’azione individuale non connessa ad alcuna operazione militare propriamente detta dell’esercito della resistenza”531

, se gli antifascisti colpiti venivano considerati come dissidenti politici e non come combattenti, se lo scopo della repressione antipartigiana era quello di reprimere il morale della popolazione o ancora se venivano compiute rappresaglie al solo scopo di terrorizzare la popolazione e non per togliere elementi potenzialmente utili al nemico, le azioni commesse vennero fatte rientrare nell’aiuto al raggiungimento dei fini politici del nemico, e perciò punite ai sensi dell’art. 58 cpmg.

Per alcuni imputati, tuttavia, la Cas pronunciò la colpevolezza ai senso dell’art. 51 cpmg. Essi, tutti colpevoli di violenze contro partigiani, impugnarono la sentenza davanti al Supremo Collegio postulando che il reato da loro commesso fosse qualificato come collaborazionismo politico, punibile con l’articolo 58 dello stesso codice, per cui il massimo della pena era la detenzione per trent’anni.

Ma la Cassazione spesso confermò la decisione presa dalla Cas ribadendo in ciascuno dei processi di rinvio che i comportamenti criminosi come arresti, maltrattamenti, persecuzioni e uccisioni commessi nei confronti dei partigiani costituivano collaborazione militare con i tedeschi in quanto erano volti all’annientamento dello schieramento loro avversario.

Ne è un esempio il processo di rinvio avvenuto nei confronti dell’aviere della Brigata Azzurra Pietro Vavassori, colpevole di svariate operazioni contro bande partigiane. Egli aveva partecipato “con particolare zelo” alle operazioni antipartigiane condotte dal Capitano dell’Aviazione Giovanni Folchi532

nella provincia di Milano e in quella di Torino, arrestando ed eseguendo percosse e sevizie contro gli arrestati “distinguendosi per crudeltà e ferocia”. In una di tali azioni di rastrellamento avvenuta nella località di San Sigillo (Torino) aveva ucciso personalmente un partigiano e ciò gli aveva procurato la medaglia al valor militare. Aveva inoltre, preso parte ad un’azione di rappresaglia nella località di Ferno (Varese) durante la quale furono catturati e uccisi due partigiani533.

Il Supremo Collegio ritenne manifesta l’infondatezza del principio del ricorso che contestava la scelta dell’articolo 51 cpmg perché:

Le azioni di fuoco di S. Sigillo e S. Fermo, alle quali il detto imputato partecipò e che portarono all’uccisione di diversi partigiani, rientravano nella lotta fra forze della resistenza e nazifascisti e la soppressione dei patrioti che caddero nelle dette località fu evento che indubbiamente favorì le operazioni militari del nemico con la eliminazione di elementi con esso in lotta.

531 ASM, Cas Milano, 10.12.1946, Sez. seconda, Pres. Zoppi, vol. 8/1946. 532

Condannato il 22 agosto 1945 alla pena capitale, la quale fu eseguita il 7 febbraio 1946 dopo che nel settembre 1945 la sezione di Milano della Corte di Cassazione aveva per due volte rigettato il ricorso. ASM, Cas Milano, 22.08.1945, Sez. Prima, Pres. Marantonio, vol. 2/1945.

533 Per tali azioni e su concessione delle circostanza attenuanti generiche la Cas lo aveva condannato a 20 anni di reclusione. ASM, Cas Milano, 21.02.1947, Sez. Prima, Pres. Camino, vol. 9/1947.

151

A S. Sigillo i partigiani accerchiarono le automobili dei militi repubblicani perché questi eransi alleati con l’invasore e posti contro lo Stato Italiano, e, per la stessa ragione, fu catturato il milite dell’armata azzurra le cui ricerche portarono all’azione di fuoco a S. Fermo. E’ quindi incontestabile che si trattò di azione di fuoco fra forze armate militanti in campi opposti e che la partecipazione del Vavassori alle stesse rientrava fra i compiti che egli aveva volontariamente assunti arruolandosi in una formazione armata repubblicana.

Infondatamente, quindi, si sostiene dal ricorrente che la sua partecipazione a quelle cruente azioni siasi ridotte ad un semplice collaborazione politica col nemico.

Il ricorso venne dunque rigettato e la pena alla detenzione per vent’anni confermata534

.

Analogamente, la scelta dell’art. 51 cpmg fu confermata dalla Cassazione nei confronti del già citato brigadiere della Gnr Angelo Ercolani, colpevole di avere partecipato ad un’azione di polizia eseguita da reparti della Gnr e della Muti contro operai scioperanti e di aver in quell’occasione ucciso “con raffiche di mitra due patrioti”.

Per tali addebiti, e in applicazione delle circostanze attenuanti generiche535, nel febbraio 1947 la Cas lo aveva condannato, ai sensi dell’art. 51 cpmg, a vent’anni di reclusione. Tra i principi del ricorso esposto, figurava anche la violazione del suddetto articolo motivata dal fatto che “la sua opera collaborazionista si era svolta fuori dal campo specificamente militare, avendo eseguito un’operazione di polizia e non un’operazione militare”.

Ma la Cassazione, in linea con quanto sostenuto dalla Cas di Milano, affermò che

Gli operai scioperanti appartenevano ad uno stabilimento di produzione di materiale bellico a favore del tedesco invasore ed i due uccisi, Guaraldi e Mozzi, erano due partigiani. Ed è ovvio, dunque, che cotesti fatti giovarono al nemico nei suoi disegni militari ed erano idonei a portargli siffatto aiuto; da un lato perché tendevano a impedire scioperi nelle fabbriche di materiali bellici per rafforzare i suoi mezzi militari, e dall’altro perché eliminarono due elementi delle forze combattenti partigiane che insidiavano le retrovie delle truppe tedesche.

In conclusione, per quanto riguarda la scelta degli articoli la Corte d’Assise milanese aveva generalmente adottato un profilo piuttosto favorevole agli imputati, cercando di evitare il duro articolo 51 cpmg. Essa lo aveva disposto in pochi casi e sempre laddove l’imputato si era implicato in fatti di omicidio. Per questi individui la Cassazione si allineò alla decisione della Cas sulla scelta dell’articolo, anche in considerazione del fatto che quasi in nessuno di questi casi la Cas aveva stabilito di applicarlo col massimo della pena, cioè con la pena di morte, e che, laddove la condanna prevista era la pena capitale, la sentenza veniva comunque annullata per un altro motivo.

5.2/2 Elemento materiale e dolo specifico

Molti dei ricorsi presentati si appigliarono all’interpretazione che la Cas milanese aveva dato

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