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5. FOREGROUND

5.8 Riferimento personale

La medicina non è una scienza onnipotente, non arriverà mai a spiegare tutto: soprattutto, non potrà mai andare oltre la conoscenza approfondita e meccanica di un corpo. Ma la persona non è solo un corpo e nessun esame medico potrà mai analizzare le infinite sfumature che la compongono (Virzì & Signorelli, 2007). Tuttavia la malattia, in particolare la malattia mentale, “tende a bloccare il paziente

in una narrazione unica ed immutabile, che difficilmente la logica è in grado di smontare” (Virzì & Signorelli, pag.12). Il compito di noi, professionisti della salute, risiede nella capacità di liberare il paziente da questa ragnatela, imparando ad accogliere la persona in un’ottica non più meccanicistica ma sistemica. L’ergoterapia è una professione riabilitativa e, come tale, non risponderebbe al suo compito se non usasse tutti i suoi mezzi e tutto il suo potenziale per permettere alla persona di riconquistare un certo controllo sulla propria vita quotidiana, che sia in maniera del tutto autonoma e indipendente, o con l’utilizzo di strategie o mezzi di compensazione.

Per riabilitare occorre, però, vedere la persona in modo olistico, vale a dire come un’entità intera e integrata che incorpora la spiritualità, le esperienze sociali e culturali e le sue occupazioni e interessi osservabili (Bonistalli & Narbona, 1990). Riconoscere il paziente come essere spirituale significa, quindi, riconoscerne il suo valore intrinseco rispettandone le convinzioni, i valori e gli obiettivi senza imporre il nostro punto di vista di professionisti (Bonistalli & Narbona, 1990). La depressione è un abbraccio troppo stretto, che soffoca le normali ruotine del

malato, che si ritrova improvvisamente catapultato in una landa oscura, dove ogni orizzonte salvifico è nascosto in una fitta coltre fatta di estrema debolezza e dipendenza. A questo, si somma un vortice di nuove emozioni, alcune volte contrastanti, che si fanno egoisticamente spazio nella sua mente.

Il dolore del paziente si riflette sul curante facendolo scontrare con la sua impotenza. Quando il muro del dolore e della disperazione si erige tra noi e il paziente sembra che le nostre conoscenze teoriche siano infeconde e allora ci accorgiamo che per curare non serve solo essere impeccabili esperti, ma serve soprattutto il cuore. Serve un cuore capace di dialogo, perché solo le parole annullano la distanza tra chi cura e chi è curato e consentono di umanizzare i racconti di chi sta male (Borgna, 2017). La forza del dialogo permette di tessere insieme racconti clinici che rivelano una sofferenza umana e naturale, che non si esaurisce, però, nella diagnosi, che non è altro che un’esperienza secolarizzata (Borgna, 2017). Come teorizzato dalla Gestalt, in queste situazioni la consapevolezza del terapeuta è fondamentale (Roubal, 2007). Il terapeuta osserva curiosamente cosa sta succedendo a se stesso in contatto con il cliente depresso (Roubal, 2007). Infatti, quando la conoscenza clinica non basta, dobbiamo saper mettere in campo le nostre emozioni. Le emozioni possono curare tanto quanto una cura farmacologica, e nell’odierna situazione storica di forte povertà emozionale, d’indifferenza reciproca e scarsa solidarietà, sono le sole portatrici di cura.

Un'alta percentuale di pazienti depressi (talvolta fino all'80%) non rispondono alla terapia antidepressiva e la superiorità riportata di antidepressivi rispetto al placebo non raggiunge un livello significativo clinicamente accettabile (Jesulola et al., 2018). Questo dato è molto significativo, soprattutto se si pensa che i sintomi depressivi sono fin da subito combattuti facendo ricorso alla farmacologia, che tuttavia, nella stragrande maggior parte dei casi, non conduce a una dissolvenza della sofferenza. La depressione è il modo in cui il soggetto sperimenta la resa della speranza di fronte all'inefficacia dei suoi vani tentativi di raggiungere l'altro (Roubal et al., 2017). La resa della speranza è il sintomo più invalidante e lo scoglio più duro da scalare per il terapista, che desidera instaurare una relazione di fiducia con la persona per poi creare le basi ottimali del trattamento. È proprio partendo da questa resa della speranza, che ho sentito il bisogno di indagare su cosa si potesse fare per una persona che ha smesso di credere nella speranza. Definire la speranza non è facile. Benedetti la definisce come uno stato motivazionale positivo, fondato sulla percezione di possedere un’energia vincente, che ci fa essere orientati ad uno scopo e ci impegna nella pianificazione necessaria al raggiungimento dei nostri obiettivi (Benedetti, 2012).

Come posso, io ergoterapista, lavorare ed instaurare obiettivi con un cliente privo di slancio vitale e quindi di speranza? Questa è stata la domanda, che più volte ha risuonato nella mia mente ogni qual volta ho avuto a che fare con un cliente che stava attraversando un’esperienza depressiva. Il desiderio di trovare una risposta ai miei interrogativi mi ha portata fino a qui, nel tentativo di riorganizzare le mie

conoscenze attraverso una revisione che potesse fare un po’ di luce su un argomento così delicato e spesso banalizzato come quello dell’esperienza depressiva. Quello che ho compreso è che nessuna pratica clinica funziona senza la disponibilità del terapista a mettere in campo le proprie energie all’interno della relazione terapeutica. Questo, a volte, richiede un notevole sforzo d’introspezione e la volontà di abbandonare ogni forma di perfezionismo tecnicistico. La tecnica senza la disponibilità a mettersi totalmente in gioco come professionista va in frantumi e non porta ai risultati attesi. Allo stesso modo, è importante riconoscere la propria fragilità: umana, esperienziale, professionale e conoscitiva. Per questo motivo è indispensabile chiedere aiuto ogni volta che sia necessario e confrontarsi con colleghi ed esperti, per far sì che ogni esperienza sia condivisa e analizzata sotto sguardi differenti. La condivisione porta arricchimento alla pratica professionale impedendo la cristallizzazione operativa. Permette di conservare una mente aperta e curiosa, oltre che contribuire alla crescita professionale. Se, come sostengono molti studi, la speranza ha effetti positivi sulla salute, allora i

terapisti dovrebbero sforzarsi di infondere speranza ai loro clienti (Benedetti, 2012). Il più potente mezzo per infondere speranza sono le parole: empatiche, di conforto, di fiducia e di motivazione (Benedetti, 2018). Le parole attivano gli stessi percorsi biochimici dei farmaci o, forse, per fedeltà alla storia dell’evoluzione, è più corretto affermare, che i farmaci attivano i medesimi meccanismi delle parole (Benedetti, 2018).

Molti disturbi mentali, tra cui la depressione, sono caratterizzati dalla difficoltà a stabilire e mantenere relazioni (Porges, 2014). Tuttavia, numerosi studi affermano che le interazioni sociali sono in grado di risvegliare quelle sostanze chimiche, che risultano fondamentali per il rifiorire della socialità (Benedetti,2018). Insomma, ciascun individuo dispone di una farmacia interna, molto complessa, che si attiva ogni qual volta viene instaurata una relazione di fiducia tra due persone che si incontrano (Benedetti, 2018). La nostra farmacia interna, nel corso dell’evoluzione si è trasformata per fare del contatto sociale uno dei più efficaci e potenti dispositivi di benessere (Benedetti, 2018).

La speranza è un farmaco, e le parole possono vincere la malattia (Benedetti, 2018).

   

6. Fonti