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Riflessioni in merito al processo

Nel sistema inquisitorio preso in considerazione, le prove venivano raccolte e valutate dal consesso giudicante, in base al principio del cumulo delle funzioni processuali (accusatore, difensore e giudice). Inoltre, come precedentemente visto, in questa tipologia di processo il valore della prova legale era preponderante e costituiva la condizione indispensabile e sufficiente per dichiarare reo un imputato. A questa tipologia di sistema procedurale, infine, il legislatore associò in maniera innovativa il principio del bilanciamento delle prove e un sistema di prove negative. La valutazione delle prove, dunque, non era operata singolarmente, esse infatti venivano considerate come aspetti di un insieme fattuale derivante dal complesso di tutto ciò che era emerso nel corso del procedimento.

Considerata la differenza tra prova e indizio, è possibile valutare il contenuto delle carte processuali riassunte nel paragrafo precedente e apprezzare più a fondo le funzioni che caratterizzarono il ruolo del giudice relatore e il valore della conclusione presa dal giudizio criminale e, successivamente, dall’eccelso appello.

Innanzitutto Marchesini, nella verificazione giuridica, constatò che un atto oggettivamente realizzatosi, la morte di Maria Salin e di Maddalena Poletto, poteva essere ricondotto all’interno di un crimine penalmente riconosciuto: l’omicidio. A tale conclusione giunse dopo aver ricostruito la verità fattuale, vale a dire attraverso la collezione di prove testimoniali, come la confessione giurata della Salin e della piccola Angela. Esse infatti erano presenti nel momento in cui avvenne l’assalto (in particola la prima era una delle due vittime) ed entrambe, pochi giorni dopo il delitto, accusarono il Ghirardello dinnanzi al pretore di Thiene. A ciò si andavano ad associare una serie di ulteriori prove indiziarie quali il rinvenimento delle macchie di sangue nei vestiti dell’imputato, la fuga messa in atto dopo il ferimento delle donne, il parere degli abitanti di Breganze, il fatto che fosse entrato nella cucina della zia di soppiatto ed armato con degli attrezzi da lavoro in un giorno festivo («nel quale di conseguenza non è di leggersi giustificabile la detenzione di tal arma destinata agli usi dell’Agricoltura»237

), che avesse scelto un momento per agire in cui non era presente il marito della Salin e che avesse deciso di uccidere anche la Zoccola con lo scopo di eliminare una possibile testimone.

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Constatato ciò, il giudice Marchesini rese noto al consesso giudicante che gli elementi nelle mani del giudizio criminale non erano però sufficienti per accusare l’imputato. Prima di ogni altra cosa, Marchesini sottolineò la mancanza di un movente che spinse il Ghirardello ad uccidere le donne: per anni infatti la regina probationum, ossia la confessione spontanea, cercò di essere carpita, ma, a causa della precoce comparsa dei sintomi catatonici e dello scorbuto, non poté mai essere ottenuta. Già dopo circa sei mesi di carcere (periodo di tempo in cui furono eseguiti solamente il costituto sommarissimo e sommario), la malattia mentale, combinatamente alla malattia fisica, aveva cominciato a manifestarsi facendo sprofondare il Ghirardello in quel silenzio che contraddistinse la totalità degli interrogatori e, più in generale, tutti gli anni di carcere. Non potendo più conversare con l’imputato e cercare quindi di estrapolare una confessione, si tentò di indurlo forzatamente a parlare facendo appello al § 363 ed, in particolare, alla possibilità di utilizzare il digiuno e le bastonate a tale scopo. Anche questa scelta, però, non condusse a risultati positivi: il digiuno non sortì alcun effetto e il medico addetto alle carceri sconsigliò di intraprendere la via delle percosse, in quanto la malattia di scorbuto lo aveva talmente debilitato da non poter sostenere alcuna prova fisica. Tale condizione di malessere fu permanente e durò sino alla fine della sua detenzione impedendo al Marchesini di sfruttare l’opzione delle pene corporali.

Gli stessi interventi dei medici, attraverso le loro perizie, avrebbero potuto avere valore di prova legale, però il parere che gli esperti ebbero sul conto della malattia mentale dell’imputato fu incerto e dubbioso, così non poté essere utilizzato come prova utile. I dottori, infatti, si espressero affermando di non avere «indizi positivi per dichiarare il Ghirardello assolutamente alienato», tuttavia aggiunsero «in scienza e coscienza non possiamo stabilirlo assolutamente sano di mente»238.

Altro elemento che andò a confliggere con l’idea del giudice relatore fu la minore età della giovane Angela: la sua testimonianza, pur avendo avuto il carattere che la qualificherebbe come idonea (in quanto effettuata de visu), non poté essere presa in considerazione in quanto fatta da una persona non ancora maggiorenne. Venne così a mancare la regola juris in base alla quale la testimonianza assumeva valore di prova legale se effettuata concordatamente e di propria scienza da due persone di età superiore ai diciotto anni.

Per quanto riguarda infine gli indizi collezionati dal Marchesini, è utile affidarsi alle parole di Ferrajoli: «la probabilità o forza induttiva delle prove riguarda l’attendibilità o credibilità soggettiva della fonte o del mezzo di prova: la sincerità, la spontaneità, il disinteresse e più in generale l’affidabilità delle testimonianze, delle confessioni, dei confronti e delle ricognizioni di persona; il carattere non apocrifo dei documenti; la fondatezza delle perizie; l’accuratezza delle ispezioni e

238 Asvi, Tribunale austriaco, penale. 1833, busta 282, Protocollo di comparsa volontaria della medica chirurgica commissione che presenta rapporto circostanziato, LXXVII, 10 dicembre 1831.

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degli esperimenti giudiziali; l’autenticità o non contraffazione delle tracce e dei reperti. La probabilità o forza induttiva degli indizi riguarda invece la loro rilevanza o gravità oggettiva, cioè la loro idoneità a generare spiegazioni plausibili o verosimili dell’intero materiale probatorio. Ci possono essere prove attendibili di indizi tenui o magari irrilevanti, e prove inattendibili o scarsamente credibili di indizi gravi e rilevanti. Nel primo caso l’indizio è certo ma debole, nel secondo è incerto anche se forte e magari decisivo. Un dato probatorio, conseguentemente, può essere confutato o contestando la rilevanza degli indizi indottine o screditando l’attendibilità delle prove da cui è indotto»239.

Seguendo il ragionamento di Ferrajoli, potremmo quindi dire che gli indizi considerati dal giudice relatore erano certi ma deboli, non sufficienti in ogni caso a sostenere un dato probatorio necessario e a convalidare il ragionamento che attribuiva al Ghirardello la colpa dell’omicidio delle due donne. L’impianto accusatorio prospettato dal giudice relatore non bastava e lui stesso se ne rese conto quando affermò che «tutti questi così eminenti indizi pesano ancora col pieno loro valore sul caso dell’arrestato, ma dessi comunque apportino un morale convincimento di sua Colpa, pure al rigor della prova che la legge desidera si presentano ancora insufficienti stante la già narrata tenera età della Testimone Angela».

Infine, a causa della mancanza di prove legali, in questo caso non poté intervenire neppure il libero convincimento del giudice. Come infatti sostenuto dai criminalisti dalla scuola classica italiana «se è vero che nessuna prova legalmente predeterminata può essere considerata da sola sufficiente a garantire la verità della conclusione in contrasto con il libero convincimento del giudice, neppure il libero convincimento può essere a tal fine da solo sufficiente, essendo necessario che sia accompagnato da qualche prova legalmente predeterminata»240.

Il giudice relatore si trovò quindi nella situazione di proporre la sospensione del processo per insufficienza di prove legali a tenore del § 428, il quale affermava: «Se dagli atti d’inquisizione non risulta alcuna prova legale d’esser il delitto stato commesso dall’imputato, ma vi sono però dei fondamenti per ritener ciò verisimile, la sentenza vien concepita in questi termini: si dichiara sospesa inquisizione per difetto di prove legali»241.

Pur non conoscendo il dibattito avvenuto fra i giudici componenti il consesso in merito alla proposta del giudice relatore242, sappiamo che per due volte il tribunale di Vicenza si oppose al parere del consigliere Marchesini (sentenza 19 ottobre 1832 e deliberazione 29 gennaio 1833). Di

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L. Ferrajoli, Diritto e ragione… op. cit. pp. 110-111.

240

Ibid. p. 127.

241 Parte II, capo XI, § 428 del CPUA, Google Libri,

https://books.google.it/books?id=tbKnEIXBBuQC&printsec=frontcover&dq=codice+penale+austriaco&hl=it&sa=X&v ed=0ahUKEwjJhOn6yNHeAhVHJhoKHRtwBXsQ6AEIKDAA#v=onepage&q=codice%20penale%20austriaco&f=fals e, in data 14/05/2019.

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questo avviso non fu però il consesso del tribunale d’appello di Venezia il quale, a maggioranza, prescrisse di annullare la sentenza e la deliberazione e di doversi «riporre gli atti all’archivio sino all’evenienza di nuove emergenze in seguito all’esperimento curativo»243

, ossia il ricovero presso l’ospedale psichiatrico di S. Servolo. I motivi di tale decisione potrebbero essere i seguenti: il persistere delle malattia di scorbuto, ritenuto insieme alle precarie condizioni del carcere causa principale dell’alterazione di mente, e della malattia mentale, la quale indusse il dubbio nei confronti della sanità di mente dell’imputato (causa principale dell’impasse a cui magistrati e medici andarono incontro nei precedenti quattro anni); il difetto che sembrava presentare la procedura della sentenza nella parte relativa alla difesa dell’imputato, in quanto non si poté appurare se non produsse giustificazioni a suo carico per «libera sua volontà, e con determinato proposito [avesse] rinunciato alla difesa naturale di ogni uomo minacciando di perdere la vita»244. Nel corso degli anni, il proposito del superiore appello è stato sempre quello di approfondire le indagini cercando di risolvere il dubbio sulla sanità mentale dell’imputato. Dopo le numerose indagini infruttuose, l’unica soluzione possibile prospettata fu quella del ricovero manicomiale grazie al quale, plausibilmente, l’imputato sarebbe potuto guarire dalla malattia di scorbuto.

Il ricovero si pose come una soluzione transitoria e non definitiva, voluta non solo o, meglio, non tanto per garantire la salute dell’imputato, bensì per assicurarsi una guarigione tale da poter permettere al tribunale di primo grado di ricominciare le indagini.

La soluzione quindi si allineava sostanzialmente con le precedenti sue deliberazioni: seppur con metodi e tempistiche non quantificabili a priori, nell’eventualità che il Ghirardello risanasse «dallo scorbuto, od altra fisica malattia che avesse, o gli sopravenisse», il processo sarebbe potuto proseguire.

La pragmatica speranza covata dai giudici che l’imputato guarisse si basava su una ragione più profonda e di sicurezza generale: era assolutamente necessario assicurarsi che Gio. Batta. Ghirardello non stesse cercando di simulare un’alterazione di mente per sfuggire alla pena capitale; seguendo il ragionamento del giudice relatore veneziano, «fatto altresì riflesso che utilissimo sarebbe anco per l’esempio altrui di smascherare se fosse possibile la finzione, ond’altri non usasse così facilmente di un simile mezzo»245, ovvero se ciò fosse successo, avrebbe potuto creare un precedente a cui ispirarsi e prendere ad esempio. I magistrati erano consapevoli di questa pericolosa possibilità e le scelte che operarono erano volte proprio a scongiurare tale eventualità assicurandosi di salvare l’autorità e l’integrità del sistema giudiziario. Il recente avvento della scienza psichiatrica

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Asvi, Tribunale austriaco, penale. 1833, busta 282, Decreto appellatorio (Non sul giornale), 28 febbraio 1833.

244 Asve, Tribunale di appello generale 1815-1871, Protocolli di consiglio, registro 255, 28 febbraio 1833. 245 Asve, Tribunale di appello generale 1815-1871, Protocolli di consiglio, registro 243, 7 febbraio 1832

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nei tribunali aveva infatti già dato modo di mettere d’accordo sia giudici che medici sull’incombenza del pericolo della simulazione per sfuggire alla pena di morte.

Ecco che, se il Ghirardello non fosse morto dopo poco tempo dal suo arrivo a S. Servolo e se fosse guarito dallo scorbuto, sarebbe stato di certo riconsegnato nelle mani del giudizio criminale di Vicenza per essere nuovamente inquisito.

A riprova della concreta volontà dei giudici veneziani di arrivare alla soluzione dell’annoso enigma, può essere menzionata la proposta alternativa paventata dal consigliere Rosnati e riportata nella sezione dedicata al voto del protocollo di consiglio del 28 febbraio 1833. Egli infatti riteneva che, nel caso fosse stata approvata la soluzione del relatore, si dovesse contemplare l’internamento in manicomio come una naturale prosecuzione delle indagini, senza dover depositare gli atti in archivio. Una soluzione più diretta quindi, ma non dissimile nella sostanza.

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CAPITOLO 3