• Non ci sono risultati.

4. LE POLITICHE ATTIVE DEL LAVORO IN ITALIA

4.3. Le riforme degli anni Dieci del Duemila

69

considerando la relazione tra operatori pubblici e privati: infatti è osservabile, in linea generale, come l'attuazione dei regimi di accreditamento regionali è avvenuta in modo molto lenta (Tiraboschi, 2015), implementato, per molte, proprio in anni recenti, in virtù della "spinta" ricevuta dalla necessità di attuare la "Garanzia Giovani".

L'accresciuta autonomia delle regioni ha permesso loro di realizzare liberamente i propri modelli, seguendo diverse disposizioni di appalti pubblico-privato e di conseguenza incidendo sugli spazi e sulle risorse destinate agli operatori coinvolti.

70

servizio alla comunità. Il livello nazionale è responsabile della banca dati nazionale GG, che riunisce i dati raccolti dai livelli locali.

Lo scoppio della crisi economica mondiale ha trovato le LMP italiane ancora lontane rispetto al contesto politico europeo, principalmente per i ritardi relativi sia alle prestazioni sociali, agli SPI e alle ALMP. Dopo l'emergenza in cui è avvenuta la “Riforma Fornero”, nel 2014 e 2015, il governo italiano si è posto l'obiettivo di modernizzare le istituzioni del mercato del lavoro attuando il Jobs Act (legge 183/2014). Nel marzo 2014, con il cosiddetto “decreto Poletti” sono state introdotte nuove misure per favorire l'occupazione e semplificare le procedure burocratiche per contratti a tempo determinato.

Successivamente, nel dicembre 2014, è stata approvata un'ampia legge con otto decreti legislativi, tutti adottati entro settembre 2015.

Il Jobs Act ha rappresentato una riforma molto ambiziosa, creando un nuovo quadro normativo completo per LMP italiani. La legge 183/2014, appunto, è intervenuta su cinque ambiti: razionalizzazione dell’indennità di disoccupazione; rivitalizzazione degli SPI e ALMP; semplificazione burocratica delle procedure relative al rapporto di lavoro;

riorganizzazione delle tipologie di contratto di lavoro esistenti e nuovi incentivi legati al work-life balance.

Questa riforma ha rappresentato il tentativo del governo italiano di andare nella direzione di un approccio di flexicurity. Il rafforzamento delle ALMP introdotto dal “Jobs Acts”, in questo senso, rappresenta il terzo grande pilastro di tale approccio, oltre ai cambiamenti nella protezione della legislazione dell'occupazione (flessibilità) e cambiamenti nel sistema previdenziale (sicurezza), entrambi oggetto di intervento nel processo di riforma.

Sebbene ci siano stati molti tentativi per promuovere la flessibilità del mercato del lavoro e politiche passive del mercato del lavoro negli ultimi trent'anni, finora le politiche attive del lavoro sono sempre rimaste in secondo piano. Le modifiche introdotte dal decreto 150/2015 aspirano a rendere gli SPI italiani più efficaci e efficienti. Tuttavia, l'attuazione di tali modifiche rimane attualmente compromessa a causa dei problemi di differenziazione territoriale che abbiamo visto: diversi modelli di erogazione del servizio a livello locale, con un diverso grado di esposizione al mercato.

71

Storicamente, i costi di licenziamento sono stati elevati per i contratti a tempo indeterminato in Italia, ostacolando la creazione di lavoro e aumentando il dualismo mercato-lavoro rispetto ai lavoratori a tempo indeterminato e determinato.

L'aumento della flessibilità del mercato del lavoro è stato l'obiettivo di diverse riforme a partire dagli anni novanta, quando sono state introdotte diverse tipologie di contratto a tempo determinato. Ciò, tuttavia, non ha aumentato la flessibilità, ma piuttosto ha favorito il dualismo in quanto i contratti a tempo determinato sono stati utilizzati non solo per far fronte all’incertezza della domanda, ma anche come dispositivo di screening prima dell'assunzione a tempo indeterminato (Sestito e Viviano, 2016), registrando preoccupanti implicazioni economiche e occupazionali. Da un lato, le cosiddette “riforme dualistiche” espongono i lavoratori interinali, in confronto con lavoratori con contratti più stabili, ad esperienze lavorative segnate da divari retributivi significativi (anche a parità di mansioni svolte), attraverso il riconoscimento di minori tutele e da critiche prospettive di sicurezza sociale, a causa di minori aliquote contributive e in virtù della discontinuità.

Dal punto di vista dell'andamento occupazionale, invece, lo sviluppo di flessibilità al margine sarebbe soggetto all'effetto "luna di miele": a breve termine, contratti a tempo determinato- principalmente a causa di costi ridotti o nulli di cassa integrazione - incoraggerebbero la crescita dell'occupazione nelle fasi di crescita economica; mentre durante le fasi economiche negative ci sono notevoli perdite occupazionali, dovute principalmente al mancato rinnovo dei contratti in scadenza. Perciò, flessibilità al margine porta alla volatilità dell'occupazione in relazione ai cicli economici ma non ha effetti evidenti sulla domanda generale di lavoro. Questo perché la diminuzione della tutela del lavoro influenza sia gli incentivi all'assunzione che al licenziamento dei lavoratori, e non c'è motivo di aspettarsi a priori che un effetto dominerà l'altro (Boeri e Garibaldi, 2007).

Se guardiamo all'indice EPL (“Employment Protection Legislation”), elaborato dall'OCSE, che esprime il grado di tutela dell'occupazione in ogni Paese, l'Italia presenta ancora un significativo rigore nella tutela dei lavoratori dalla cassa integrazione. Tuttavia, bisogna sempre considerare che, negli ultimi vent'anni, questa rigidità si è attenuata con accelerazioni più forti che in altri paesi. L’EPL dal 1998 - anno del “Pacchetto Treu”, la riforma che per prima ha introdotto una massiccia flessibilità nel mercato del lavoro

72

italiano – fino al 2013, prima del Jobs Act, l'Italia ha registrato una riduzione circa tre volte superiore alla media EU15.

Ad ogni modo, è stato osservato che questo calo non ha mai mostrato alcuna correlazione statisticamente significativa tra le dinamiche occupazionali e una riduzione della disoccupazione, come dimostrato da una letteratura di studi empirici (Baker et al., 2005;

Blanchard, 2005; Howell et al. 2007).

Per far fronte a questo problema, nel 2008, gli economisti Tito Boeri e Pietro Garibaldi (2008) proposero un nuovo contratto unico di lavoro (contratto unico di inserimento) con lo scopo di sostituire i contratti a tempo determinato. Il design originale di questa proposta prevedeva un'iniziale fase di elevata flessibilità in uscita, caratterizzata da un periodo di tre anni durante il quale il datore di lavoro non si impegnava a reintegrare il lavoratore in caso di licenziamento illegittimo, ma solo a compensarlo monetariamente. Dopo questa fase il lavoratore avrebbe dovuto ricevere il diritto alla reintegrazione. Con questa proposta, la fase iniziale avrebbe reso più economico il rapporto di lavoro a tempo indeterminato e le imprese avrebbero avuto l’incentivo a sostituire questo contratto con la pletora di contratti temporanei.

La “riforma Fornero” del 2012 (legge n. 92/2012) e il recente Jobs Act del 2015 (legge n.

183/2014 con diversi decreti legislativi fino a settembre 2015 per l'attuazione) sono stati tentativi di diminuire i costi di licenziamento e l'incertezza di questi costi per i contratti a tempo indeterminato. L'incertezza sui costi di licenziamento è stata ulteriormente ridotta dal Jobs Act limitando i motivi per la reintegrazione ai casi di licenziamento senza giusta causa. È stato applicato solo ai nuovi contratti a tempo indeterminato (dopo il 7 marzo 2015) delle imprese con più di 15 dipendenti.

Inoltre, il Jobs Act ha sostituito la moltitudine di forme contrattuali a tempo indeterminato con un contratto a tempo indeterminato (contratto a tutele crescenti) con TFR crescente con la permanenza del lavoro.

Oltre all'aumento dell'occupazione, nell'obiettivo dei decisori politici, la riduzione della tutela dell'occupazione avrebbe il potenziale per aumentare la produttività attraverso una migliore allocazione del lavoro e delle competenze, in quanto le imprese possono adattare più facilmente la loro forza lavoro in base al cambiamento della domanda, condizioni e tecnologia e, per i lavoratori maggiori opportunità di trovare una migliore corrispondenza con i posti di lavoro (OCSE, 2013).

73

Le esenzioni dai contributi previdenziali e le variazioni della legislazione sulla protezione del lavoro unitamente alla concentrazione di tutta l'attività ispettiva relativa al lavoro sommerso in un unico nuovo organismo avrebbe il potenziale per diminuire l'entità del fenomeno nel mercato del lavoro italiano.

Un'ampia parte del Jobs Act si è concentrata sui cambiamenti riguardanti politiche passive e attive. Il sistema previdenziale italiano è stato caratterizzato da problemi di lunga durata di frammentazione, con limitazioni e copertura diseguale, generosità e assenza di qualsiasi legame con le ALMP. Le nuove misure hanno tentato di affrontare questi problemi guardando a tre obiettivi principali: ridurre i motivi per regimi di salario integrativi, razionalizzando il precedente sistema in un regime di assicurazione universale, sostenuto da una prestazione di assistenza sociale; rafforzare il legame tra attivo e misure passive.

Il principale obiettivo del Jobs Act è stato quello di ridurre la dipendenza dai regimi di integrazione salariale, per introdurre una maggiore “armonizzazione” e

“universalizzazione” delle UB e legare la loro durata alla precedente storia del mercato del lavoro, per introdurre misure basate sul reddito che integrino quelle assicurative, e per rafforzare il principio di condizionalità.

A tal fine, è stato migliorato il collegamento tra politiche passive e politiche attive del lavoro attraverso il decreto n.150 del settembre 2015 che ha rafforzato il principio di condizionalità, introducendo tre novità: l'applicazione più graduale delle sanzioni in caso di mancato rispetto degli impegni assunti dalle persone in cerca di lavoro, la creazione dell'Agenzia statale per le politiche attive e la progettazione di un collegamento con l'INPS (l'ente responsabile dell'erogazione delle prestazioni). Questo decreto ha introdotto per la prima volta un principio di sanzioni graduali per i disoccupati che non rispettano impegni concordati con gli operatori nei loro patti di servizio personalizzato, procedendo secondo diverse fasi di decurtazione dei benefici e a seconda del tipo di obbligo non adempiuto.

Questo rappresenta un cambiamento importante poiché fino al Jobs Act l'applicazione della condizionalità era espresso con più rigidità, stabilendo una perdita totale del beneficio in qualsiasi mancanza di impegni per gli obblighi con i servizi per l'impiego.

Tuttavia, non è sicuro che una maggiore flessibilità migliorerà l’applicazione della

74

condizionalità. Sotto questo profilo, uno degli obiettivi del nuovo ente statale dovrebbe essere anche quello di definire una struttura che miri a gestire l'integrazione tra politiche passive e attive, nonostante la competenza in materia di sussidi resti nelle mani di INPS.

Il sistema italiano infatti non è uno sportello unico per i clienti a causa di questa frammentazione nella gestione delle politiche del mercato del lavoro. A questo punto il decreto 150/2015 ha introdotto disposizioni specifiche in materia di rapporto tra uffici pubblici per l'impiego e INPS, stabilendo che i primi debbano comunicare ai secondi le sanzioni da applicare. Il decreto, a questo punto, spiega che devono interagire per mezzo di un unico sistema informatico integrato, con l'obiettivo di condividere le informazioni sugli utenti di PLMP e ALMP. Le risorse risparmiate applicando le sanzioni sui benefici sono utilizzate per finanziare il sistema delle ALMP.

Tuttavia, la sfida principale sembra rimanere nella mancanza di risorse sufficienti per servizi per l'impiego al fine di affrontare meglio la loro funzione di corrispondenza e consentire meccanismi di condizionalità ben funzionanti.

Confrontando l'Italia con gli altri Paesi OCSE, la quota della spesa pubblica in misure attive rimane ancora abbastanza contenuta rispetto a quella in misure passive. Questa caratteristica potrebbe essere correlata alla crescita sostanziale della spesa per le politiche passive del mercato del lavoro negli anni della crisi economica, a causa della massiccia dipendenza da regimi di integrazione salariale come risposta politica adottata in quel periodo, mentre la spesa per le ALMP è rimasto la stessa dei dieci anni precedenti. Ciò ha comportato un aumento della differenza tra la spesa per misure attive e passive.

Una situazione simile può essere vista in altri paesi mediterranei come Portogallo e Spagna.

Per quanto riguarda le PLMP la spesa è sempre stata al di sopra della media OCSE, crescendo tra gli anni 2011 e 2014, mentre la spesa delle ALMP è sempre stata al di sotto della media OCSE, diminuendo durante lo stesso periodo temporale. Allo stesso modo il Jobs Act sembra non aver cambiato questa caratteristica, nonostante abbia investito molte più risorse su misure attive.

75

Ai fini dell’inserimento lavorativo e delle politiche del lavoro di contrasto alla disoccupazione, interviene in merito D.Lgsl. 15 settembre 2017, n. 147 e il DL n.4 del 28 gennaio 2019, istitutivi rispettivamente del Rei22 e del Rdc23.

L’Italia infatti, per decenni, è stato l’unico Paese europeo, insieme alla Grecia, a essere privo di una misura di reddito minimo di tutela contro la povertà. Dal dicembre 2017, invece, è stato istituito il Rei, varato grazie ai governi Renzi e Gentiloni. Breve, tuttavia, è stata la vita di questo provvedimento perché – nel marzo 2019 – il governo Conte lo ha sostituito con il Rdc: un aumento dei fondi per il contrasto della povertà, circa 6 miliardi di euro annui addizionali, che hanno permesso di passare dai 2 già previsti per il Rei a 8 miliardi in totale: il più ampio trasferimento di risorse pubbliche a favore dei poveri mai effettuato in Italia.

Questa denominazione è stata impiegata dal Movimento 5 Stelle per indicare tre modelli di risposte alla povertà, ben diversi tra loro, susseguitisi nel tempo. Quello iniziale consiste nel Reddito di cittadinanza propriamente detto (il cosiddetto «Basic Income»), un reddito di base universale assicurato a tutti, indipendentemente dalle loro entrate e senza alcuna richiesta di disponibilità al lavoro (P. Van Parijs, Il reddito di base.

Un’utopia indispensabile, «il Mulino»). Il secondo si rivolge agli oltre 10 milioni di persone in povertà relativa (definizione Eurostat). Concettualmente, si passa qui dall’affrancamento dalla necessità di lavorare, scopo del Basic Income, al suo opposto, cioè al lavoro inteso come elemento decisivo per uscire dalla povertà. È una visione monodimensionale della povertà, considerata esclusivamente come una conseguenza della mancanza di occupazione: lo Stato compirebbe ogni sforzo possibile affinché il disoccupato possa trovare un lavoro, risolvendo così l’indigenza della sua intera famiglia.

Il Rdc svolge qui la funzione di sostegno temporaneo tra un posto di lavoro e l’altro. Tale schema concettuale riflette il profilo della povertà in Italia prima della crisi del 2008 e della precarizzazione del mercato del lavoro, quando la presenza di un occupato permetteva alle famiglie di evitare la povertà. Oggi, però, circa la metà dei poveri vive in famiglie nelle quali almeno un componente lavora. Il terzo modello, quello effettivamente introdotto, si rivolge a una parte dei 5 milioni di persone in povertà assoluta e riconosce

22 Reddito di inclusione

23 Reddito di cittadinanza

76

la multidimensionalità della povertà, lo stesso assunto alla base del Rei. Dunque, si assorbono nel modello precedente numerosi aspetti della misura introdotta dal centrosinistra. Si riconosce che spesso la povertà è legata ad aspetti diversi da quello lavorativo, siano essi familiari, di salute, di istruzione, psicologici, abitativi, relazionali e altri. Si attribuisce così un ruolo importante ai percorsi di inclusione sociale, che si affiancano a politiche di rilievo per l’inserimento lavorativo.

La partenza accelerata ha prodotto una varietà di problemi nel disegno del Rdc, dei quali la querelle Stato-regioni sui cosiddetti «navigator» è solo la più nota, e ha creato confusione e incertezza tra i soggetti chiamati a implementarlo nel territorio. Sarebbe stato preferibile, invece, un avvio meno affrettato, seguito da un ampliamento graduale dell’utenza distribuito su più annualità, così da assicurare ai servizi del Welfare locale – a partire da comuni e Centri per l’impiego – il tempo necessario per rinforzarsi. In un contesto storicamente caratterizzato da una ridotta presenza di servizi locali come quello italiano, non basta – come è stato apprezzabilmente fatto – predisporre i finanziamenti per il loro rafforzamento: occorre anche prevedere un adeguato lasso di tempo perché ciò accada. Questo è il semplice motivo per il quale, una misura focalizzata prevalentemente sull’inclusione si è risolta inevitabilmente, per numerosi utenti, in una pura distribuzione a pioggia di contributi economici.

Nel merito, la proposta del 2013 si rivolgeva a chiunque fosse in povertà relativa (il reddito inferiore al 60% della mediana nazionale, secondo la definizione data da Eurostat) – cioè 5 milioni di famiglie e oltre 10 milioni di persone – per condurlo alla soglia che permette di abbandonare tale condizione, quell’anno pari a 780 euro mensili per una persona sola. Una simile misura sarebbe costata moltissimo, circa 17 miliardi: l’esigenza di venire a patti con la realtà del bilancio pubblico ha portato progressivamente lo stanziamento ai già citati 8 miliardi annui a regime, 6 più del Rei. Di conseguenza, i beneficiari attesi sono circa 1,3 milioni di famiglie, rispetto al totale di 1,8 oggi in povertà assoluta in Italia. Una cifra assai inferiore alle irrealistiche aspettative sollevate dal Movimento 5 Stelle, ma quasi triplicata rispetto alle 460 mila famiglie che hanno ricevuto il Rei nel 2018. Bisogna qui ricordare che quella assoluta è la povertà vera e propria (cioè la mancanza delle risorse per acquisire l’insieme di beni e servizi – alimentazione, abitazione e altro – essenziale per uno standard di vita minimamente accettabile), mentre la definizione «relativa» indica, in realtà, una forma di diseguaglianza estrema (una

77

disponibilità di risorse fortemente inferiore a quella della maggior parte degli individui della società nella quale si vive).

Inoltre, poiché le notevoli differenze esistenti nel costo della vita in Italia non vengono tenute in considerazione nella definizione dei criteri di accesso – uguali in tutto il Paese – tra le famiglie di cittadini italiani del Nord diverse resteranno escluse, soprattutto tra quelle numerose. Paradossalmente, invece, tra i beneficiari del Rdc residenti nelle regioni meridionali rientreranno famiglie di piccole dimensioni che non sono in povertà assoluta.

È l’esito di due fattori: la mancata considerazione delle differenze territoriali e il particolare favore assegnato ai nuclei con pochi componenti, a partire dai single.

Nell’illusoria ipotesi di attuare un Rdc dal costo di 17 miliardi annui, quello previsto dalla proposta del 2013, l’obiettivo consiste nello sconfiggere la povertà relativa, la cui soglia è rappresentata da 780 euro mensili per un singolo. Poiché da anni questa cifra è un simbolo della comunicazione politica del Movimento 5 Stelle, è stato deciso di mantenerla anche nel contesto di una misura da 8 miliardi rivolta alla popolazione in povertà non più relativa bensì assoluta. Le conseguenze sono state inevitabili: se si è eccessivamente generosi con i nuclei di una sola persona, lo si sarà meno con i nuclei con più componenti. Infatti, la scala di equivalenza prevista – che definisce la crescita del trasferimento all’aumentare dei componenti del nucleo – è estremamente piatta, senza eguali in Europa. In termini proporzionali si favoriscono quindi le persone sole rispetto alle famiglie numerose e con figli, paradosso non da poco in uno tra i Paesi più vecchi e meno prolifici al mondo.

Per tutti i nuclei l’importo del Rdc è ben più elevato rispetto a quello del Rei, e complessivamente vale in media circa 500 euro al mese per famiglia, secondo il governo.

Le conseguenze dei 780 euro «a tutti i costi» emergono, invece, nella consistenza del trasferimento al variare della dimensione del nucleo. In termini di importi medi, stimati su un campione, quello dei single vale circa 360 euro mensili, con un incremento del 102% rispetto al Rei, mentre al crescere della numerosità familiare l’aumento si assottiglia, sino ad arrivare a +40% per le famiglie di 5 o più componenti (600 euro mensili). Non stupisce, dunque, che una simulazione dell’Ufficio parlamentare di bilancio indichi che, per le persone sole, il trasferimento è superiore ai valori medi di molti Paesi europei, anche con tenore di vita maggiore di quello italiano; al contrario, per le famiglie con due o più figli, è inferiore. Trattandosi di un importo vicino ai salari percepiti da molti

78

lavoratori, la scelta di restare fedeli alla soglia di 780 euro mensili ha conseguenze anche sugli incentivi al lavoro dei beneficiari. Nella stessa direzione, un emendamento parlamentare al decreto ha stabilito che le offerte di occupazione con salario inferiore a 858 euro al mese si possono rifiutare senza perdere il sussidio. È convinzione diffusa che il Rdc possa disincentivare l’accettazione di posti di lavoro, soprattutto quelli precari o a tempo parziale (Baldini et al. 2019). È poi noto che nelle regioni meridionali il livello dei prezzi è inferiore di almeno il 20% rispetto al Nord: per un disoccupato del Sud non sarebbe quindi razionale rinunciare al Rdc in cambio di un posto al Nord, nemmeno per un salario attorno ai 1.000 euro mensili. Questi effetti disincentivanti valgono soprattutto per i singoli, perché – come già detto – la generosità relativa del Rdc si abbassa in caso di famiglie numerose. E ancora: in alcuni settori – in particolare l’agricoltura o i servizi alla persona – vi è l’incentivo non solo a continuare a lavorare nel sommerso, ma anche a entrarvi eventualmente ex novo per poter combinare sussidio e lavoro irregolare. Il decreto stabilisce infine che se il percettore del Rdc inizia un’attività lavorativa, il reddito che ne deriva va inserito per l’80% nel calcolo della misura, con un ulteriore forte disincentivo al lavoro: ad esempio, se si accetta un posto part time guadagnando 400 euro al mese, si perdono 320 euro di Rdc mentre il reddito disponibile aumenta solo di 80 euro.

Il disegno dei percorsi d’inserimento – la componente del Rdc di responsabilità dei servizi del Welfare locale – è mutato in pochi mesi. Sino a qualche tempo fa, infatti, l’intenzione era quella di prevedere quasi esclusivamente interventi d’inclusione lavorativa: gli adulti poveri senza occupazione sarebbero stati inviati ai Centri per l’impiego mentre gli altri, perlopiù, avrebbero fruito del solo contributo economico. I percorsi d’inclusione sociale, funzionali alla gestione delle molteplici dimensioni della povertà e di responsabilità dei comuni, venivano relegati in una posizione marginale. Questa impostazione risultava coerente con il secondo modello di Rdc illustrato sopra, fondato su una concezione «a senso unico» della povertà quale mancanza di lavoro. Positivo era, in tale ipotesi, l’investimento dedicato ai percorsi d’inserimento lavorativo, a partire dal rafforzamento dei Centri per l’impiego. Il Rei, infatti, pur prevedendo tali percorsi, era privo di un progetto per l’indispensabile rinforzo dei servizi dedicati. Di segno negativo, invece, era il mancato riconoscimento della realtà della povertà nella società di oggi, quella di un fenomeno articolato e multidimensionale, come invece faceva il Rei. La centratura sul lavoro, dunque, rendeva il Rdc un ibrido: una politica contro la povertà per quanto