CAPITOLO II: L’AMBITO DI TUTELA DEL MARCHIO CHE GODE DI
3. Il rischio di associazione tra segni: una «lettura» storica a partire dalla
3. Il rischio di associazione tra segni: una «lettura» storica a partire dalla
del «rischio di associazione» aveva infatti ritenuto di poter allargare la protezione del marchio anche oltre il limite del pericolo di confusione relativo alla provenienza imprenditoriale dei prodotti o servizi contrassegnati[115]. Il titolare di un marchio registrato poteva infatti impedire l’uso di un segno identico o simile al suo, che riguardasse prodotti identici o simili a quelli per i quali il suo marchio era stato registrato, in tutte quelle ipotesi in cui il pubblico fosse comunque in grado di istituire un collegamento, ossia un’associazione tra il segno dell’imitatore ed il marchio imitato.
Una seconda norma, analoga sostanzialmente a quella della lettera c) della Direttiva 89/104, faceva riferimento all’ipotesi in cui tale collegamento anche «non-‐‑confusorio» avesse riguardo a prodotti o servizi distanti, non affini appunto.
In altre parole, nel sistema della Legge del Benelux, il rischio di associazione era fondamentalmente l’espediente con cui la giurisprudenza aveva espresso la possibilità di tutelare il marchio anche in mancanza del pericolo di confusione sull’origine imprenditoriale del prodotto (ricomprendente, come si è testé detto, non solo l’ipotesi di errata supposizione che i prodotti in questione provengano dalla stessa fonte imprenditoriale, ma anche l’ipotesi di errata supposizione che esista un legame organizzativo o economico tra il titolare del marchio e l’utilizzatore del segno uguale o simile rispetto ai relativi prodotti);
tutela che dunque veniva estesa anche alle ipotesi in cui il pubblico semplicemente, vedendo il segno dell’imitatore utilizzato su prodotti o servizi uguali e simili a quelli per cui il marchio era stato registrato, istituisse comunque un richiamo anche soltanto psicologico al marchio imitato, un «venire in mente», anche là dove non esistesse alcun rischio che il consumatore potesse comunque istituire un legame tra il titolare del marchio di impresa e i prodotti recanti il
115 Si vedano il caso «Claeryn», Corte di giustizia del Benelux 1 marzo 1975, in Ing.-‐‑Cons., 1975, p. 73 e il caso «Union», Corte di giustizia del Benelux 20 maggio 1983, in Ing.-‐‑Cons., 1983, p. 191 e ss. In dottrina GALLI, commento all’art. 20, par. 4, D.Lgs. 10.2.2005, n. 30, in GALLI-‐‑GAMBINO (a cura di), Commentario al C.P.I., p. 270;
segno concorrente. Una seconda norma, del tutto sovrapponibile, come si diceva, sovveniva invece quando questo stesso fenomeno (ossia il richiamo «non-‐‑
confusorio») avvenisse in presenza di prodotti o servizi che non fossero affini.
Questo sistema si spingeva, dunque, oltre l’ambito di protezione del marchio delineato negli ordinamenti degli altri Stati membri: la giurisprudenza del Benelux arrivava a proteggere «il titolare del marchio di impresa contro l'ʹuso di segni identici o simili in circostanze nelle quali il consumatore non è confuso in quanto all'ʹorigine del prodotto, fornendo così una protezione anche contro i danni causati dalla cosiddetta degradazione e diluizione dei marchi di impresa»[116]. Esempi in tal senso, nella giurisprudenza della Corte di Giustizia del Benelux, sono numerosi. Tra i più noti si può senz’altro ricordare la vertenza «Claeryn/Klarein» [117]: un gin olandese il prodotto contrassegnato dal primo marchio, un detersivo per le pulizie domestiche il prodotto contraddistinto dal secondo segno in questione. La Corte di Giustizia del Benelux finì per ritenere che il marchio «Klarein» per prodotti di pulizia violasse il marchio «Claeryn» per gin, sebbene non vi fosse alcun rischio di confusione per il pubblico con riguardo alla provenienza dei prodotti dalla stessa società o da società collegate. E ciò in ragione della possibilità, come osservava la Corte, che la somiglianza tra i due marchi potesse suscitare nel consumatore che beveva il gin «Claeryn» l'ʹidea del prodotto di pulizia «Klarein», con conseguente compromissione del primo marchio [118]. Tale compromissione, continuava la Corte, «avverrebbe quando l'ʹattenuazione del carattere distintivo del marchio comporti il venire meno dell'ʹimmediata associazione con i
116 Cfr. Conclusioni dell'ʹAvv. Gen. Jacobs — causa C-‐‑251/95, §38;
117 Cfr. Sentenza 1° marzo 1975, causa A-‐‑74/1, in Giurisprudenza della Corte di giustizia del Benelux 1975, pag. 472);
118 Per un esempio analogo si può richiamare anche il caso Edor c. General Mills Fun, 1978, in Ned.
Jur., p. 83 e ss., presentatosi nella giurisprudenza olandese e relativo ai marchi «Monopoli» (il noto gioco di società) e il segno dell’imitatore «Antimonopoli» usato per contraddistinguere un gioco che, in deliberata contrapposizione ideologica con il primo, era impostato su regole anticapitalistiche: in questo caso la Hoge Raad (la Corte Suprema) olandese riconobbe che il primo marchio valesse comunque a invalidare il segno «Antimonopoli», sebbene per il pubblico fosse chiaro che il gioco proveniva da una fonte imprenditoriale del tutto diversa;
prodotti per i quali il marchio è registrato ed usato (che è presumibilmente ciò che si intende per «diluizione» del marchio di impresa); o quando le merci per le quali il marchio in accusa viene impiegato, operano, nella mente del pubblico, un richiamo tale da pregiudicare la forza attrattiva del marchio di impresa (che è presumibilmente ciò che si intende per «degradazione» del marchio di impresa)»[119].
Sta di fatto che tale, prima, interpretazione della nozione di rischio di associazione, mutuata dall’ordinamento del Benelux, ossia fondamentalmente come ampliamento della nozione di rischio di confusione comprendente anche le ipotesi in cui l’inganno sull’origine imprenditoriale dei prodotti o servizi mancasse, è stata respinta dalla stessa giurisprudenza comunitaria[120].
Come si evince da un passo delle conclusioni dell'ʹAvvocato Generale Jacobs nella causa Puma/Sabel121, gli Stati del Benelux avevano sostenuto che la Direttiva «intendeva includere il loro concetto di «associazione» nel diritto comunitario sui marchi di impresa: su questo si erano battuti durante i negoziati precedenti l'ʹadozione della direttiva». Gli Stati del Benelux finivano cioè per far rientrare nel rischio di associazione tre figure di specie: in primo luogo, il caso in cui il pubblico confondesse il contrassegno imitante ed il marchio imitato (rischio di confusione diretta); in secondo luogo, il caso in cui il pubblico operasse una connessione tra i titolari del contrassegno imitante e del marchio imitato confondendoli (rischio di confusione indiretta o di associazione); in terzo luogo, quello in cui il pubblico effettuasse un ravvicinamento tra il contrassegno imitante ed il marchio imitato, ove la percezione del contrassegno evocasse il ricordo del marchio, senza tuttavia confonderlo (rischio di associazione propriamente detto). L’Avvocato Jacobs negava una tale ricostruzione ritenendo che ben difficilmente «l'ʹassociazione non comprendente la confusione possa essere fatta rientrare nella direttiva, dal momento che quest'ʹultima richiede un rischio di confusione che «include» il rischio di associazione».
119 Conclusioni dell'ʹAvv. Gen. Jacobs — causa C-‐‑251/95, §39;
120 Corte Giust., 11 novembre 1997, C-‐‑251/95, Puma/Sabel;
121 Conclusioni dell'ʹAvv. Gen. Jacobs — causa C-‐‑251/95, §42;
Il rigetto formale di una siffatta interpretazione offerta dalla giurisprudenza del Benelux è avvenuto da parte della Corte di Giustizia (nel citato caso Puma/Sabel) con un «espediente» di fatto esclusivamente formalistico:
poiché il decimo Considerando[122] della Direttiva 89/104, afferma che il rischio di confusione «costituisce la condizione specifica» della tutela accordata dal marchio e suggerisce che l'ʹassociazione sia uno degli elementi da prendere in considerazione nel valutare il rischio di confusione, insieme alla «notorietà del marchio di impresa sul mercato» e al «grado di somiglianza tra il marchio di impresa e il segno e tra i prodotti o servizi designati» (non venendo invece lo stesso in rilievo come specificazione del rischio di confusione o come elemento ulteriore che può allargare il contenuto del rischio stesso), la Corte di Giustizia ha ritenuto che non fosse immaginabile che il rischio di associazione potesse esserci a prescindere dalla confondibilità[123]. Infatti, il decimo Considerando afferma anche che la tutela accordata dal marchio «mira in particolare a garantire la funzione di origine del marchio d’impresa», e non vi è riferimento in esso ad alcun altro scopo.
Sulla basa di tali elementi la Corte di Giustizia ha concluso che «la nozione di rischio di associazione non costituisca un'ʹalternativa alla nozione di rischio di confusione, bensì serva a precisarne l'ʹestensione. I termini stessi della disposizione escludono, quindi, che essa possa trovare applicazione laddove non sussista nel pubblico un rischio di confusione». E ciò in maniera del tutto coerente con quanto anticipato dall’Avvocato Generale Jacobs nelle sue conclusioni in cui si legge che «sebbene il
122 Cfr. Il Considerando n. 10 della Direttiva 89/104 recita: «considerando che la tutela che è accordata dal marchio di impresa registrato e che mira in particolare a garantire la funzione d'ʹorigine del marchio di impresa, è assoluta in caso di identità tra il marchio di impresa e il segno e tra i prodotti o servizi; che la tutela è accordata anche in caso di somiglianza tra il marchio di impresa e il segno e tra i prodotti o servizi;
che è indispensabile interpretare la nozione di somiglianza in relazione al rischio di confusione; che il rischio di confusione, la cui valutazione dipende da numerosi fattori, e segnatamente dalla notorietà del marchio di impresa sul mercato, dall'ʹassociazione che può essere fatta tra il marchio di impresa e il segno usato o registrato, dal grado di somiglianza tra il marchio di impresa e il segno e tra i prodotti o servizi designati, costituisce la condizione specifica della tutela; che le norme procedurali nazionali che non sono pregiudicate dalla presente direttiva disciplinano i mezzi grazie a cui può essere constatato il rischio di confusione, e in particolare l'ʹonere della prova»;
123 Cfr. MANSANI, La nozione di rischio di associazione fra segni nel diritto comunitario dei marchi, in Riv. Dir. Ind., 1997, I, p. 143 e ss.;
rischio di associazione con un marchio anteriore sia un fattore da prendere in considerazione, la registrazione di un marchio non può essere rifiutata, a meno che non sia stata comprovata l'ʹesistenza di un vero e proprio rischio di confusione in quanto all'ʹorigine dei prodotti o dei servizi in questione» e conseguentemente «non ci si può opporre alla registrazione di un marchio per il semplice motivo che, essendo la stessa l'ʹidea che sta dietro all'ʹuno e all'ʹaltro marchio, esiste il rischio che il pubblico li associ;
cioè che, senza alcun rischio di confusione come descritto sopra, l’uno riporti semplicemente l'ʹaltro alla mente».
Nello specifico, nel caso in questione, il marchio opposto della SABEL B.V., consisteva «in un felino maculato, in apparenza un ghepardo, che salta (o meglio corre) verso destra e nella dicitura SABEL posta sotto l'ʹimmagine dell'ʹanimale»[124]
utilizzato, tra gli altri, per articoli sportivi, come di seguito riprodotto:
I segni dell’opponente Puma Aktiengesellschaft Rudolf Dassler Sport, consistevano rispettivamente in un «puma in corsa», ossia nella raffigurazione
«di un felino che corre verso destra … presumibilmente un puma piuttosto che un ghepardo» e, il secondo, in un «puma che balza», ossia nella raffigurazione «di un felino il quale, però, spicca un balzo in alto verso sinistra anziché correre verso destra … presumibilmente (sempre, n.d.r.) un puma», come di seguito entrambi rappresentati:
124 Conclusioni dell'ʹAvv. Gen. Jacobs — causa C-‐‑251/95, §3;
Le rappresentazioni stilizzate dei due segni erano, evidentemente, un po’
diverse l’una dall’altra ma certamente simili nella percezione generale (si trattava pur sempre di felini dalla forma abbastanza sottile). L'ʹUfficio tedesco dei brevetti non aveva riscontrato tuttavia alcuna somiglianza, respingendo l'ʹopposizione presentata da Puma, che si era vista costretta a proporre ricorso dinanzi al Bundespatentgericht (il tribunale federale competente in materia di brevetti). Il ricorso veniva respinto per la parte relativa al marchio del «puma che balza», mentre veniva parzialmente accolto per quanto concerne il marchio del «puma in corsa». Contro tale decisione, la Sabel aveva presentato a sua volta ricorso di fronte al Bundesgerichtshof, il quale aveva ritenuto che non esistesse rischio di confusione tra il contrassegno Sabel e i due marchi di Puma. Si legge infatti nelle conclusioni dell’Avvocato Generale Jacob (che ripercorrono la vicenda giudiziale qui in esame), che il tribunale aveva osservato che «la raffigurazione del felino in corsa è un motivo tratto dalla natura e riproduce un movimento tipico di questi animali», e che «le particolarità del disegno del felino in corsa nel contrassegno Puma, per esempio la sua rappresentazione come «silhouette», … non si riscontrano nel marchio SABEL»
concludendo che «la similarità di contenuto («felino in corsa») tra l'ʹelemento grafico del marchio SABEL e quello del marchio Puma non può essere addotta a fondamento di un rischio di confusione ai sensi del diritto dei marchi di impresa»[125]. La questione pregiudiziale alla Corte di Giustizia fu sollevato da parte del Bundesgerichtshof
125 Conclusioni dell'ʹAvv. Gen. Jacobs — causa C-‐‑251/95, § 4-‐‑15;
al fine di fissare un’interpretazione uniforme dei concetti di somiglianza e rischio di confusione.
La Corte di Giustizia, chiamata ad esprimersi dunque sul punto, con un lungo ragionamento, con cui la stessa aveva pure condiviso l’osservazione per cui i marchi in contesa consistevano in figure che presentavano pochi elementi di fantasia, aveva infine concluso, sulla scorta del considerando n. 10 della Direttiva 89/104, che «i termini stessi della disposizione escludono … che essa possa trovare applicazione laddove non sussista nel pubblico un rischio di confusione» e che «il criterio di «rischio di confusione comportante il rischio di associazione con il marchio anteriore» di cui all'ʹart. 4, n. 1, lett. b), della direttiva, dev'ʹessere interpretato nel senso che la mera associazione tra due marchi che possa essere operata dal pubblico per effetto della concordanza del loro contenuto semantico non è di per sé sufficiente per ritenere che sussista un rischio di confusione ai sensi della detta disposizione». In altre parole, la norma doveva essere interpretata nel senso che il rischio di associazione richiedeva comunque che ci fosse da parte del pubblico un’attribuzione dei prodotti alla medesima fonte produttiva, e cioè un rischio di confusione. Il rischio di associazione, come già ampiamente detto, diventava una sorta di specificazione del rischio di confusione, in senso ampio (ossia l’errata supposizione dell’esistenza di legami produttivi, di gruppo, contrattuali, licenze e sponsorship tra il titolare del marchio e il soggetto utilizzatore del secondo segno imitante).
La Corte di Giustizia con la sentenza Puma/Sabel ha dato alla nozione del
«rischio di associazione», un’interpretazione ristretta, concepita ancora nell’ambito della nozione tradizionale della confondibilità. Tale insegnamento è stato confermato anche successivamente dalla sentenza Canon/Metro Goldwin[126].
126 Causa C-‐‑39/97, Canon Kabushiki Kaisha c. Metro-‐‑Goldwyn-‐‑Mayer Inc., già Pathe Communications Corporation. La causa riguardava i due marchi «Cannon» e «Canon» usati per prodotti e servizi non identici (nello specifico prodotti e servizi relativi a film e cinema, il primo segno, e apparecchi fotografici, come è noto, il secondo). La questione pregiudiziale posta alla Corte di Giustizia mirava in pratica a stabilire se si dovesse comunque ritenere sussistente un rischio di confusione anche qualora il pubblico attribuisse ai prodotti o servizi contrassegnati origini differenti. Sulla scorta della decisione Puma/Sabel ne sarebbe conseguito, come spiega bene l’Avvocato Generale Jacob,