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SEZIONE II: Principi giuridici alternativi per la risoluzione delle

1. Risultati raggiunti

Ricapitolando le problematiche affrontate all’interno dell’elaborato è possibile affermare che la situazione a livello internazionale relativamente alla circolazione e al commercio illecito di beni culturali, in tempo di pace, abbia assunto una dimensione molto critica che solo in modo parziale è stata arginata dall’adozione degli strumenti attualmente in vigore per interdire il traffico illecito di tali beni. Come riportato dal TEFAF il mercato lecito dell’arte ha superato nel 2015 i 58 miliardi di dollari, concentrandosi prevalentemente in tre principali Market States, ovverosia Stati Uniti, Gran Bretagna e Cina.392 E’ però risaputo che a fianco del prosperoso mercato lecito dell’arte, si è sviluppato negli anni un’ingente black market che a oggi ricopre la terza posizione nella classifica dei traffici illegali globali, di cui tra l’altro non è possibile avere una dimensione certa data la mancanza di informazioni relative all’effetiva quantità di beni illecitamente movimentati. La stessa INTERPOL evidenzia come, data la particolare natura dei beni culturali, pur con l’adozione di numerosi strumenti finalizzati a identificare i beni oggetto di furto o di esportazione illecita come ad esempio il Stolen Works of Art database, non sia possibile disporre di dati certi riguardo al traffico illecito di beni culturali.

L’imperante necessità di arginare il grave problema legato al traffico illecito ha “costretto” le principali OIG, ONG, nonchè i singoli Stati, a predisporre e adottare misure che tutelassero e salvaguardassero il patrimonio culturale mobile. L’environment internazionale è però caratterizzato dalla presenza di contrastanti politiche per quanto concerne la circolazione e la protezione dei beni culturali. La presenza di Source e Market Nations, connotate da politiche cultural-patrimoniali divergenti, rende al quanto complicato, se non impossibile, predisporre strumenti che possano in modo sostanziale creare una reale soluzione al problema.

Il settore risulta quindi viziato dalla presenza di un dibattito filosofico-politico contrastante, che vede da una parte sistemi legislativi connotati da un carattere di natura fortemente protezionistica - nazionalismo culturale - e dall’altra un palese

392 Per ulteriori informazioni riguardo al report TEFAF del 2016 è possibile consultare l’articolo di

assoggettamento al mercato quale unico strumento idoneo a garantire la creazione di un common cultural heritage - internazionalismo culturale - a totale discapito del c.d.

cultural link tra bene e contesto d’origine.

Alla luce di tali presupposti si può capire come l’animus delle principali fonti internazionali multilaterali predisposte per prevenire il traffico illecito e aggevolare la possibilità di restituzione dei beni culturali ai Paesi d’origini sia parzialmente “guastato” da ideologie divergenti, che non permettono a tali strumenti di ricoprire un ruolo realmente efficace nel contrastare un problema che dovrebbe essere considerato di natura comune e non conflittuale. Questo è forse il principale aspetto negativo del primo importante accordo relativo alla restituzione internazionale dei beni culturali di provenienza illecita.

La Convenzione UNESCO del 1970, pur essendo considerata una pietra miliare della cooperazione internazionale, è a suo mal grado denotata da un carattere non propriamente neutrale a causa delle forti incompatibilità economico-patrimoniali intercorrenti tra Source e Market Nations. L’inconciliabilità degli interessi ha fatto si che in fase di negoziazione dell’accordo non fosse possibile quindi predisporre delle normative efficaci sotto il profilo sostanziale. Le difficoltà riscontrate dall’UNESCO negli anni ’70 per concludere un accordo “democratico” che rispecchiasse i diversi interessi dei vari Stati, si concluse con l’adozione di una convenzione che presentava gravi lacune normative in merito alla possibilità di restituzione dei beni culturali oggetto di furto o illecita esportazione.

Il contesto internazionale si trovava quindi in un sostanziale momento di passività nei confronti del dilagante problema relativo al traffico illecito delle cultural

properties. Ciò nonostante, tale passività è stata parzialmente interrotta dalla

Convenzione Unidroit del 1995 sui beni culturali rubati o illecitamente esportati. La forte carica innovatica dello specifico nucleo di norme predisposto dall’Istitut ha contribuito in modo considerevole all’evoluzione del c.d. droit de l’art, soprattutto poiché tende a rendere effettivi all’interno degli ordinamenti nazionali i principi della restituzione e del ritorno, grazie al carattere self-excetuing delle sue disposizioni. Tale carattere permette a queste, una volta acquistata validità formale all’interno dell’ordinamento nazionale, di assumere peso parificabile a quello del diritto interno. Si è riuscito così, sul piano legislativo, ad assegnare pari rilievo sia al problema del proprietario originario ingiustamente spossessato sia al probleama riguardante il riconoscimento delle norme di diritto pubblico straniere atte a tutelare il patrimonio

culturale nazionale, spesso non ritenute applicabili al di fuori della giurisdizione nazionale di riferimento a causa dell’ordinario funzionamento dei principi di diritto internazionale che non riconoscono validità a tale tipologia di norme.

Gli aspetti positivi della Convenzione Unidroit del 1995 non si fermano al fatto di prevedere delle disposizioni più dirette e denotate da una portata generale molto più ampia rispetto alla Convenzione UNESCO del 1970. Il testo predisposto dall’Istitut ha il merito di aver influenzato, se pur con pesi differenti, sia il sistema di tutela e protezione del patrimonio culturale comunitario, sia gli ordinamenti nazionali che pur non avendo ratificato e reso esecutiva la Convenzione, ne hanno comunque assimilato alcuni principi. Se già il sistema comunitario, che si fondava sul binomio Direttiva (CEE) 93/7-Regolamento (CEE) 3911/92, presentava parziali similitudini alla Convenzione dell’Unidroit data la sostanziale concomitanza nella creazione dei due strumenti da parte dell’allora Comunità Economica Europea e dell’Istitut de

Droit, è evidente che le recenti modifiche apportate a tale sistema - si pensi alla

nozione di due diligence contenuta nella nuova Direttiva (UE) 2014/60 - sono fondamentalmente estrapolate dai punti cardine dell’accordo predisposto dall’Istitut.

Il legislatore comunitario ha compiuto decisivi miglioramenti adeguando la legislazione regionale a quanto disposto dall’Unidroit, eliminando la discrepanza normativa che intercorreva tra la Convenzione e la precedente Direttiva, consolidando così un possibile modello comune volto ad una maggiore tutela del patrimonio culturale mondiale e alla predisposizione di omogenei strumenti al fine di incentivare la restituzione di tutti i beni culturali movimentati illecitamente.

Se però a livello regionale il recepimento da parte degli Stati Membri di atti legislativi comunitari - es. direttiva - risulti obbligatorio, ma al contempo flessibile, poiché è lasciata libera facoltà agli Stati di stabilire attraverso l’adozione di norme nazionali come tali obbiettivi espressi dall’atto possano essere raggiunti, lo stesso non si può dire per la Convenzione Unidroit del 1995. Anche se contraddistinta da profili sostanziali meritevoli, grazie alla previsione di disposizioni materiali uniformi che cercano di conciliare le divergenti esigenze intercorrenti tra il commercio di beni culturali e la loro tutela/protezione, la Convenzione presenta un grave problema di ratifica a causa della non obbligatorietà di recepimento da parte degli Stati delle disposizioni di natura internazionali. Pur essendo emanata da un’autorevole istituzione quale è l’Istitut de Droit in materia di unificazione del diritto privato, a più di vent’anni dall’adozione, il numero effettivo di ratifiche e conseguenti

implementazioni negli ordinamenti interni del testo convenzionale non rispecchiano l’importanza dello strumento.

Se da un certo punto di vista il problema dello scarso numero di ratifiche fino ad ora intervenute non inficia direttamente il profilo d’influenza che la Convenzione ha comunque avuto, e tutt ora ha, in dati ordinamento nazionali, dall’altro è necessario prendere in considerazione un’ulteriore elemento che potrebbe creare non poche complicazioni in fase di risoluzione delle controversie concernenti la restituzione dei beni culturali di provenienza illecita.

Data la natura della normativa, che rientra di fatto nell’ambito delle convenzioni di diritto uniforme tout court, il problema legato alla scarsità delle ratifiche vizia una delle finalità fondamentali dello stessa. La predisposizione di norme uniformi dirette ad armonizzare le leggi di diritto privato dei singoli Stati - è questo il caso della Convenzione Unidroit del 1995 - comporta l’eliminazione alla base delle possibili complicazioni derivanti dall’applicazione delle norme di conflitto di diritto internazionale privato nelle controversie concernenti i diritti reali sui beni culturali mobili.

I principali problemi relativi a una domanda di restituzione, che presenti un carattere di internazionalità in assenza di uno strumento che armonizzi le leggi di diritto privato dei singoli Stati, sono legati all’ipotesi in cui un bene culturale sia rubato in un dato territorio e successivamente venduto in un altro Stato che presenti una diversa tutela in relazione all’acquisto dei diritti reali connessi al bene in questione. Dal momento in cui il criterio prevalente con cui tali situazioni sono risolte ricade sul principio della lex rei sitae, si può ragionevolmente concludere che nell’ipotesi di una richiesta di restituzione di un bene culturale non vengano considerati specifici interessi di cui tali beni sono forieri, che vanno oltre il mero aspetto economico.

Un profilo coerente con quanto scritto è ricoperto dal criterio della lex originis; tuttavia la prassi giurisprudenziale ha dimostrato, come riportato dalle sentenza richiamate all’interno dell’elaborato, che le corti sono riluttanti ad applicare tale principio, non ritenendolo un valido strumento di deroga all’universale norma di conflitto quale è la lex rei sitae. Grazie però al lavoro svolto dall’Istitut per promuovere il principio della lex orignis come criterio “guida” nella risoluzione di controversie transazionali concernenti i beni culturali che presentino complicazioni in materia di scelta della legge applicabile, alcuni ordinamenti hanno deciso di apportare

delle modifiche rilevanti alla propria legislazione interna.

Il Belgio, può vantare un duplice sistema di scelta in relazione alla determinazione della legge applicabile, non solo alle controversie relative ai diritti reali sulla generale categoria dei beni mobili ma anche per le litigations concernenti i beni culturali. Il sistema belga prevede infatti che nel caso di controversie concernenti la particolare categoria dei beni culturali mobili, il possessore possa arbitrariamente decidere se applicare il criterio universale della lex rei sitae, oppure risolvere la questione mediante la legge del luogo da cui il bene proveniene, ovvero la lex orignis.

E’ ragionevole ritenere che ove non sia possibile disporre di uno strumento convenzionale consono che offra reali possibilità di restituzione per i beni culturali - nel nostro caso la Convenzione Unidroit - è utile che siano predisposti ulteriori criteri per arginare il problema derivante dalla scelta della legge applicabile alle controversie concernenti le cultural properties. Ma poiché risulta difficile immaginare un’eventuale rivoluzione delle norme di diritto internazionale privato attualmente in vigore in quasi la totalità degli Stati, è più auspicabile che uno strumento come quello della Convenzione Unidroit del 1995 possa trovare in futuro un maggior riscontro a livello internazionale, rispetto a quella che fino ad ora gli è stato riservato.

Vero è che da un’analisi approssimativa del tasso di ratifica da parte degli Stati per quanto concerne la Convenzione Unidroit del 1995, si è dimostrato che le prospettive future non sono tuttavia così negative. Se il tasso di ratifica dovesse rimanere stabile, le adesioni alla Convenzione dovrebbero sensibilmente aumentare nel prossimo futuro, come è successo per il caso della Convenzione UNESCO del 1970 che oggi conta 131 Paesi contraenti. Ciò nonostante, tutto dipende dalla volontà degli Stati di uniformare il proprio ordinamento interno alle disposizioni convenzionali, che come si è potuto appurare dall’elaborato non è nelle priorità di molti Paesi.

E’ necessario poi ricordare che, in modo parallelo all’evoluzione legislativa del diritto dell’arte, recentemente si è potuta osservare la proliferazione di accordi di restituzione conclusi mediante l’utilizzo dei c.d. Alternative Means of Disputes

resolutions (ADR). Aldilà dei fattori positivi che tali strumenti incorporano - ad

esempio la snellezza dei procedimenti che portano alla conclusione dell’accordo - è evidente che le criticità legate ai processi di restituzione di un bene culturale nell’ipotesi di una richiesta di rivendicazione sarebbero, se non eliminate, ridimensionate in modo notevole. Alla base dei metodi alternativi di risoluzione

sussiste infatti una diversa volontà di base da parte dei soggetti coinvolti nella controversia, che sfruttano tali accordi per andare oltre alla restituzione materiale del bene.

Immaginare un futuro in cui alla conflittualità dei tradizionali procedimenti di risoluzione delle controversie sia sostituito un sistema basato sulla stipula di accordi reciproci, con la previsione di ulteriori facilitazione di carattere accessorio, accantonerebbe le problematiche relative alla predisposizioni di strumenti di carattere internazionale volti a stabalire standard normativi uniformi al fine di aggevolare il recupero dei beni culturali di provenienza illecita.